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SAGGIO: LA CIVILTA' CONTADINA IN IRPINIA

INDICE

-    Presentazione

-    Premessa

-    Capitolo I
  Quarant’anni di storia: una presenza senza protagonismo

-    Capitolo II                                            

      La famiglia, la grande esclusa

a) il matrimonio

b) il padre

c) la madre

d) i figli

e) tra familismo e solidarietà

-    Capitolo III

    La cultura, un’identità irriconoscibile

a) la lingua

b) proverbi, filastrocche, indovinelli

c) i canti

d) teatro e feste popolari

e) superstizione e religione

f) magia e credenze:

il malocchio;

    credenze e superstizioni.

 

-    Conclusione

-    Obiettivo campagna: una realtà con tanta «luce» - Foto con didascalie (non riportate)

-    Bibliografia

 

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C A P I T O L O    I I I

 

LA CULTURA

UN’ IDENTITA’ IRRICONOSCIBILE

 

Il tentativo di interpretare la cultura contadina si rivela un compito arduo e controverso.
Una vasta bibliografia, non riuscendo, ancora, a stabilire i canoni e l’attendibilità dei metodi di ricerca, è tutt’oggi in polemica con se stessa.
Le varie proposte fatte, non potendo contare su esami rigorosi e scientifici, risentono di suggestioni neopopulistiche, di visioni metastoriche e di facili generalizzazioni.
Tanta confusione ed incertezza accrescono le probabilità di incorrere in giudizi errati e condizionati, ma la singolarità e l’importanza di affrontare questo discorso meritano il rischio.
Sappiamo che ogni ordine sociale comporta l’esistenza di una sua cultura; quello contadino, prettamente comunitario, “essendo basato sul consenso della volontà, si fonda sull’armonia ed è sviluppato e nobilitato dalla cultura folk, dai costumi e dalla religione” (1).
Questi supporti, in situazioni costanti, assicurano la sopravvivenza della comunità rurale, anzi ne caratterizzano l’autonomia, la libertà espressiva e la continuità culturale.
Ma il concetto di autonomia implica un’autosufficienza e una gestione di capacità economiche e culturali tali da incidere nella storia.
Mancando questa prerogativa, secondo taluni studiosi, l’organizzazione autonoma della tradizione non esiste. Per il Redfield, infatti, “la cultura di una comunità contadina... non è autonoma. È un aspetto o una dimensione della civiltà di cui fa parte. Come la società contadina è una “mezza società” così la cultura contadina è una “mezza cultura” (2).

1)   F. Tonnies, in G.A. Marselli, La civiltà contadina e la trasformazione delle cam­pagne, Loescher Editore, Torino, 1973, pag. 117.

2)   R. Redfield, in G.A. Marselli, op. cit., pag. 122


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La tradizione popolare ha il torto di essere accettata nella sua interezza, senza essere esaminata né confrontata criticamente. Non avendo né crescita né perfezionamento essa è una ripetizione continua di fatti , luoghi e persone (3).
Ma pur in questa continuità non si può ignorare come la natura e gli effetti della storia (“i contadini sono soggetti ai risultati della storia più che parte attiva nel suo sviluppo...)” (4) influenzino i loro comportamenti, diventino fattori educativi e determinino il loro mondo motivazionale.
Inoltre la stessa economia condiziona la formazione culturale. Dove l’economia è florida, la cultura si rafforza; dove l’economia è abbandonata o dispersa, anche la cultura si disperde.
L’Irpinia, castigata da un economia di sopravvivenza, ha conosciuto un graduale declino della sua civiltà.
La perdita di vigore dei suoi rituali non può permetterci di abbandonare all’oblio questa realtà semplice e complessa, espressione e simbolo di tante generazioni e della loro umanità.
“Essa, da un lato, testimonia il dominio di classe — sia nelle forme folkloriche oppositive alla cultura egemone, sia in quelle conformistiche — dall’altro, con la sua radicale diversità, indica una resistenza, più o meno organizzata, e consente il recupero critico (laddove è possibile) di alcuni valori essenziali nella costruzione di una società realmente equalitaria e giusta” (5).
I segni e le definizioni riscontrabili parlano tutti di una “cultura della povertà” (o sottocultura) (6), di una cultura scrive Lombardi Satriani come “tecnica di disinnescamento del pericoloso, “tecnica di esorcizzazione del male,  del negativo esistenziale o storico e quindi cultura  del disordine come  discorso

3)   Anche per Gramsci “il popolo per definizione non può avere concezione elaborate nel loro sia pur contraddittorio sviluppo, ma anzi molteplice”. Cfr. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino Einaudi, 1966, pag. 215.

4)   F.G. Friedmann, in G.A. Marselli, op. cit., pag. 126.

5)   L.M. Lombardi Satriani, Menzogna e verità nella cultura contadina del Sud, Guida Editori Napoli, 1974, pag. 15.

6)   O. Lewis, La cultura della povertà, in “Centro Sociale”, a. XIV, n. 74-75, 1967, pp. 1-11. Lewis scrive che la “cultura della povertà rappresenta un tentativo di far fronte al senso di disperazione dovuto alla consapevolezza dell’improbabilità di conseguire il successo nei termini e nei valori degli scopi delle più vaste società... molte caratteristiche della cultura della povertà possono essere considerate tentativi di trovare soluzioni locali dei problemi non risolti dalle istituzioni e dagli enti esistenti, perché il popolo non può esservi eletto, non può permetterselo, o le ignora come sospette”.


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  dell’anormalità, della follia, della ribellione, del ridicolo” (7).
L’estrema condizione di bisogno influenza le varie esperienze di vita e le conoscenze assimilate dalla famiglia contadina. Su di essa incidono le continue aspirazioni a migliorarsi per modificare o capovolgere la propria economia e per creare dei “sostegni artificiali alla personalità umana”.
La visione fatalistica della vita, espressa nell’antica concezione dualistica del bene e del male, in un alternarsi magico e capriccioso, può essere spiegata dai significati reconditi delle leggende.
“È molto interessante notare che in quasi tutte le leggende, la cui area di diffusione si estende lungo l’arco della cosiddetta zona di sottosviluppo economico, principalmente per i paesi dell’Alta Irpinia, il tema dominante della narrazione è costituito dal tentativo, costantemente riemergente di cercare un “tesoro nascosto” avvalendosi pure di forze occulte e diaboliche” (8).
In Alta Irpinia e più precisamente a Conza si racconta “il tesoro di Monte Travaglioso”, a Calitri “lo scazzamauriegghio, a Lioni “Lo maleviento”.
Non possono esser ignorati altri paesi della provincia: Contrada (il tesoro dei diavoli). Baiano (Frate Giammarino, voce del diavolo), Savignano Irpino (la grotta del diavolo), Capriglia (o monaciello).
Alle leggende di matrice diabolica fanno riscontro quelle mitologiche e più ancora quelle storico-religiose; la fantasia popolare, ignorante e succube del misterioso, ha sempre cercare di fondere il pagano ed il cristiano, pratiche sciamaniche e voti, per eliminare le forze del male e per autoproteggersi. Al filone religioso appartengono le leggende:
Santa Nesta (Bagnoli I.), S. Guglielmo e il lupo (Montevergine), La storia della Madonna (Carpignano di Gesualdo), S. Amato ed il Guiscardo (Nusco), Le maggiaiole di S. Andrea (S. Andrea di Conza).
Nella narrazione di quest’ultima, che trova riscontri reali, ancor oggi, si ricorda l’intervento prodigioso della Madonna della Gaggia o dell’Acacia, in favore delle ragazze di S. Andrea.
L’ultimo sabato di maggio di ogni anno queste diventano “pellegrine d’amore” e vanno a piedi da S. Andrea a Conza, con la divina promessa che non resteranno senza marito.

7)   L.M. Lombardi Satriani, op. cit., pag. 55.

8)   C. Piscopo, Saggio di Storia delle tradizioni popolari (Due studi di folklore irpino). Nuova Stampa, Avellino, 1975, pag. 81.


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La leggenda irpina ha una struttura molto semplice ma dai risvolti didattici; in un mondo povero di emozioni e di conoscenze essa rivela i caratteri della saggezza, della pietà, del rischio e del coraggio. Tanta creazione fantastica resta la parte più significativa e, nello stesso tempo, di più facile accessibilità della letteratura popolare.
Le misteriose vicende di maghi, di spiriti maligni e di santi hanno rappresentato il potenziale culturale ed il supporto necessario per provocare le emozioni e l’istruzione di un popolo.
Ma tutto questo è in via di dissolvimento.
La gente ha acquisito un grado di informazione e di formazione che le permettono di credere nelle proprie capacità.
Le vagheggiate illusioni per migliorare la debole situazione economica appartengono al passato e non devono più supplire le ansie e le aspirazioni di un avvenire incerto, passibile di eventi casuali e lontano dalla dimensione umana. La disperazione rassegnata della “cultura della miseria” sta subendo un radicale rinnovamento; il contadino irpino ormai è convinto che essa non è più il capriccio del destino ma la diretta conseguenza del comportamento degli uomini.
La miseria diventa, perciò un fattore umano d’emarginazione che apre la porta alla rabbia e alla rivendicazione e quindi alla nuova “cultura della contestazione”.
Possiamo constatare come la cultura tradizionale dispersa in una miriade di dialetti, che non hanno permesso la trascrizione e la conservazione del materiale, stia per essere soppiantata.
I nuovi germi, non più contemplazione del mitico e del fantastico, vogliono diventare la certezza cosciente e l’attuazione delle strategie della civiltà moderna e dinamica che costruisce solide strutture economiche e l’invidiato benessere.
Nel nuovo sacrificio l’Irpinia appare disgregata ma non disposta a cedere.
Alcune unità lavorative sono partite per garantire con le rimesse una vita decorosa ai familiari; altre sono rimaste sul posto per costruire il futuro, attraverso un presente che parla già di scelte oggettive e democratiche.
La cultura del giusto e del libertario toglie la catena al facile vittimismo, all’angoscia, alle difese solitarie e alla sfortuna.
La presenza di giovani e di contadini nei partiti e nei sindacati rompe la naturale sfiducia “dello stato che promette e gabba sicuro”.


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L’amara vita, che relegava il contadino alla terra o lo sbatteva qua e là senza lasciargli niente, oggi rivendica la sua esistenza con un linguaggio nuovo che parla di rinascita, di lavoro e di crescita sociale.
È il linguaggio di speranza, lento, faticoso ma certo. È la lotta d’emancipazione della gente e della loro terra.


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La lingua

Una delle caratteristiche dei paesi irpini è la lingua. Zone limitrofe conservano, anche se non più con la purezza originaria, un dialetto proprio, con varietà di vocaboli e soprattutto con pronunce diverse.
Nell’Alta Valle del Calore, paesi vicini come Nusco, Montella e Bagnoli presentano differenze notevoli, spiegabili, forse, con l’influenze subite durante la varie invasioni e gli stanziamenti di razze nella zona.
Il dialetto di Nusco è caratterizzato dalla presenza insistente della vocale u, dalla pronuncia della vocale “e” ed “o” molto chiusa e dalla dentale  t poco marcata, che suona d.
“Nel dialetto di Bagnoli le parole sono sensibilmente marcate ed in esso si ha qualcosa che potrebbe far pensare alle vocali lunghe e brevi dei Romani.
Nel dialetto di Montella c’è una sovrabbondanza di suoni finali, dra, dro, dri, pronunziati marcatamente, senza sfumature” (9).
Diversa, invece, è la situazione in Avellino e nei comuni confinanti, dove prevale il dialetto napoletano.
In altre zone dell’Alta Irpinia, il dialetto non differisce molto, conservando parole ed accenti uguali.
“A S. Angelo, ad esempio, predomina, come a Guardia, la “d”, mentre a Lioni la “r” (quiddo-quiro)... Guardia abbonda della lettera “c”, e fa sentire molto le dentali, che, spesso lascia smorzare sulle labbra (es. “portedde”). Morra e Rocca hanno pronuncia e dialetto assai simili a quello di S. Angelo: il che può dirsi anche di Andretta, di Bisaccia e di Aquilonia. A Conza, a S. Andrea e a Teora la pronuncia è prevalentemente nasale alquanto cantata; predomina la “n” e la “t” (lattano, ziano,..): il che si nota ancora di più a Caposele, dove molte vocali rimangono in gola” (10).

9)   F. Palatucci, Montella di ieri e di oggi, Laurenziana, Napoli, 1969, pag. 170.

10) G. Chiusano, Folklore Altirpino, Di Mauro Editore, Cava dei Tirreni, 1975, pag. 105.


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Una visione globale, tuttavia, manca: uno studio filologico e semantico sul dialetto irpino non è mai stato intrapreso; una raccolta organica della tradizione e dei canti non è stata mai concepita o programmata.
La frammentarietà della ricerca circoscritta a questo o a quel paese permette, comunque, di avere materiale informativo e linguistico.
L’eredità limitata lascia trasparire, anche qui, l’amara constatazione di come il patrimonio linguistico dialettale sia ormai lontano e in via di estinzione; le ragioni di tanto ostracismo possono essere ricondotte ad una sola spiegazione: il dialetto, come lingua, ha subito l’incalzare delle trasformazioni sociali, un processo di deculturazione che ha favorito “la diffusione di un italiano subalterno”.
Il registro linguistico è stato abbandonato , soppiantato dalla scolarizzazione di massa, dai mezzi d’informazione e dai nuovi rapporti sociali e di lavoro. La confusione generata ha fatto perdere nell’uso vivo la specificità, la fonetica, il vocabolario, in definitiva tutta la storia delle classi dominate.
Nelle campagne, anche nelle più sperdute, si assiste ad un lento ma progressivo processo di degradazione; i vecchi, depositari della tradizione contadina, non trasmettono più il loro sapere; i giovani, d’altro canto, rifiutano quei valori divenuti, ormai, anacronistici in una società competitiva e completamente trasformata.
Il dialetto, venendo a mancare l’”ethos” familiare e di classe, non risponde più alle esigenze sociali di un mondo diverso, consapevole ed impegnato.
La nuova cultura ha frantumato la vecchia, assimilandone alcune note di folklore, soprattutto musicali che, nella logica della presente struttura sociale, diventano fattori commerciali o meglio oggetti di consumo.
L’integrazione non è soltanto linguistica ma investe la cultura, l’economia e i costumi; tale cambiamento è il risultato anzi è la “linea fondamentale sulla quale attualmente si modula tutta la politica culturale svolta — con violenza implicita o macroscopicamente esplicita — delle classi dominanti nel loro rapportarsi alle classi dominate” (11).

11) L.M. Lombardi Satriani, Menzogna e verità nella cultura contadina del Sud, op.cit., pag. 17.

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Proverbi, filastrocche, indovinelli

A regolare i rapporti di convivenza della società contadina, pur con innovazioni e assimilazioni linguistiche, molte volte vengono citati proverbi e detti.
La validità di queste note di colore è tale da risolvere, ancora oggi, controversie, da determinare scelte, da caratterizzare persone e da definire particolari momenti della vita.
Questa saggezza in pillole (da alcuni ritenuta propria dei popoli non progrediti) ne esprime lo spirito critico, rivelandosi la parte me­glio conservata del patrimonio folklorico irpino.
La continua ed attenta osservazione fenomenica, l’arguzia bonaria ma sottile, la capacità di sintesi del reale costituiscono, oltre ogni approssimazione, l’autobiografia essenziale per conoscere il sistema di vita rurale.
Nei proverbi — scrive Di Napoli, memore della lezione gramsciana — è facile cogliere “oltre i soliti consigli politici e le acute osservazioni ironiche, talvolta protetti da una raffinata ipocrisia, per la particolare funzione che essa generalmente svolge nella storia dei diversi popoli, i caratteri essenziali di una cultura, quella popolare profondamente diversa da quella ufficiale, titolare di una visione del mondo, portatrice di significati esistenziali durevoli e di valori profondi” (2).
L’episodico, più volte confrontato, acquista i caratteri e, quindi, i valori oggettivi e duraturi, divenendo sentenzioso e proverbiale.
L’attenzione non è frammentaria né settoriale ma si rivolge all’intera sfera del vissuto.
Ogni momento della vita ogni controversia non appaiono mai scoperti, potendo essi cogliere motivi e ragioni su cui adagiarsi.

12) A. Di Napoli, I proverbi dell’Alta Irpinia, in Civiltà Altirpinia, Anno V. fase. 1-2, 1980 pag. 44.


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Proverbi religiosi, etici, amorosi, familiari, agricoli assicurano il supporto esistenziale.
La religione, a volte speranzosa, altre volte rassegnata, condiziona il carattere e l’ideologia contadina.
L’alternarsi di elementi contraddittori, più volte fatto segno dagli studiosi come manifestazione di cultura reazionaria, esprime, invece, l’incertezza della vita e il continuo tentativo di adattamento.
Una prova dell’instabilità d’animo e della saggezza che si piega alle varie occasioni può essere assunta da alcuni proverbi religiosi che, pur nelle diverse articolazioni linguistiche, riassumono comuni convincimenti e un’identica esperienza di fede.

L’anema a Dije e la robe a chi regne.
                                                          (Conza della C.)
Futti ru panu a casuta e li juorni a Diu.
                                                         (Nusco)
Chi a uommini crere paraviso non bere.
                                                         (Montella)
Pe chi prateca co la velanza de paraviso non c’è speranza.
                                                           (Lioni)
Re la fatica re la festa, lu riavelo se veste.
                                                          (S. Angelo dei L.)

Ancora più stridente appare il contrasto nei proverbi etici. La morale non è un fatto assoluto ma sa trovare nel contingente significati nuovi e irreprensibili.
La morale, mancando fattori educativi, rappresenta il codice d’onore del contadino, lo zibaldone del suo comportamento
I ripetuti ammonimenti e le conoscenze acquisite lo aiutano a formarsi il buon senso e a sapere come comportarsi.

     Nun ti mangià quand’hai e nun dì quandu sai.
                                                
(Nusco)
     Nè case vicino a signuri, né terre vicino a vadduni.
                                                  (Lioni)
    Chi vole mangià assaije s’affoche.
                                                    (Conza)


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    Chi sputa ncielo, nfaccia torna,
                                             (S. Angelo dei L.)
    Anima si, anima criri.
                                       (Montella)

Di ampio respiro, sintomatico dell’importanza originaria, si rivela il patrimonio dei proverbi riguardante la famiglia.

    Meglio nno marito strippungieddro ca n’amando mberatore.
                                            (Montella)
    La miglière è mièzze pane.
                                       (Conza)
    La casa non ave pace
    quanno la mugliere parla
    e lu marito tace.
                            (Castelfranci)
    La fortuna rè le figlie femmene sta addereto le porte.
                                                       (S. Angelo dei L.)
    Li nnammurati songu comu a li piatti unu ni rumpi, cienti n’accatti.
                                                                           (Nusco)

Tra i riferimenti più frequenti ci sono massime che interessano la donna che, per le sue scontate posizioni di debolezza e d’inferiorità, viene presentata sotto molteplici aspetti: infedele, onesta, fertile, lavoratrice, dedita alla famiglia.
Non mancano, tuttavia, consigli per l’uomo, per natura votato al comando e alla direzione della famiglia, per i figli, per le loro scelte amorose e per le conseguenti delusioni.
Sono proverbi dall’inconfondibile caratura, dove il bene è una continua ricerca e il male una ripetuta esecrazione.
Altre “gemme sparse qua e là nel discorso del volgo” (13) interessano il mondo del lavoro con rilievi precipui alle previsioni atmosferiche.  Ogni mese ha le sue definizioni che,  se corrispondono,  possono 

13) A. D’Amato, Vita ed anima del popolo irpino nei proverbi. Avellino, 1935, pag. 90.  


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 favorire il raccolto o danneggiarlo:

Marzu siccu, massaru riccu ri pecuru no ri granu.
                                                                 (Nusco)
Chi sarreca re marzo enghe lo capàzzo.
                                                          (Montella)
Quanne marze vole fa, sape chiove e nevecà.
                                                                (Conza)
Marzo putazzo... a la vigna toia, no a la mia
                                                             (Lioni)
Se marzo ngrogna, tè fa care l’ogne
                                                       (Castelfranci)
Cicci pe’ marzo e levene pe’ aprile
                                            (S. Angelo dei L.)

Tutte queste norme di vita, alcune singolari, altre empiriche, altre didattiche, sono ancora vive tra la gente anziana. Nell’uso vengono citate ma con una certa reticenza; le giovani generazioni, invece, educate alla logica e alla dialettica, rifiutano questo sapere programmato.
Un’altra tradizione singolare è quella degli indovinelli; essi venivano recitati per constatare la prontezza dei riflessi e la capacità di memorizzazione dei bambini. Nell’uso sono scomparsi.
Tuttavia la bellezza delle immagini e l’arguzia compositiva testimoniano le finalità didattiche di un gioco che non era soltanto passatempo.


Vinde vendine de gatte, quatte piede a gatte,
cinqe ogne a pède, fàtte lu cunde quande véne.
                                                                             (Conza)

Porta la sella e nonn’è ciuccio, Tene rè come e nonn’è bacca;


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Pitte re mure e nonn’è pittore:
addivina si si dottore (14).
                                     (Montella)

Lu patru è ri lu voscu,
la mamma è cuscistorta,
la figlia è facci tonna
e bbenu miu l’avessa a r’ogna.
                                (Nusco)

Identica sorte è toccata alle filastrocche.
Usate nei giochi dei bambini, o per farli addormentare o come scioglilingua, non hanno resistito ai nuovi tempi.
Per avere un saggio della bellezza ritmica e linguistica, ne riportiamo qualcuna:

Unu, rui e tré
lu Papa nunn’è rè,
lu rè nunn’è papa;
la vespa nunn’è apa, 
l’apa nunn’è vespa, 
lu suoruvu nunn’è niespulu 
lu niespulu nunn’è suoruvu 
la senga nunn’è purtusu 
lu purtusu nunn’è senga 
la trotta nunn’è arenga;

l’arenga nunn’è trotta, 
ru casu nunn’è ricotta 
la ricotta nunn’è casu, 
mastu Nicola nunn’è mastu Biasu, 
mastu Biasu nunn’è mastu Nicola (15). 
                                           
(Nusco)

14) L’indovinello è tratto da: S. Bonavitacola/M. D’Agostino, Lo ritto re l’antici non fallisce mai, Eliotipografia dei fiori, Montella. 1982, pag. 69.

15) S. Di Mita, Le tradizioni popolari di Nusco, (tesi di laurea) anno acc. 67-68, Università di Messina, pag. 120


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Michele, Michele
piglia la gatta pe lo pere,
lo sorgu abballa abballa
e Michele pe la chitarra.
Chitarra e biulino,
Michele pe la gaddina,
gaddina e gadduccio
e Michele stampo re ciuccio.

(Montella)

Maruca cacciacorne
màmmete tè scorne
tè scorne a lu muline
cacce pòvele e farine.
Farina macenàte
lu prèute è malate
appicciame re cannèle
e gghiàmel’a bbedè.

(Conza)

Dobbiamo constatare, con la pena nel cuore, che la finzione e i falsi impegni hanno tradito il recupero della tradizione, tante volte invocato ma, mai, seriamente seguito. Scompare, per irresponsabilità e faciloneria, la matrice culturale di un’intera civiltà, senza rimpianti e senza troppe emozioni.
Un triste destino accompagna la civiltà rurale, ieri emarginata, oggi rifiutata e dimenticata dai suoi stessi portatori.

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I canti

I malinconici rilievi del processo di degradazione della tradizione hanno qualche nota di conforto e di speranza.
Per una fortunata coincidenza è sopravvenuta, qualche anno fa in Italia, la moda, di stampo prettamente consumistico, del “folk music revival”.
Ad alcune ricerche improvvisate, non prive di sospetto, hanno fatto riscontro talune, vedi la N.C.C.P., che hanno saputo interessarsi al folklore irpino. Poche le iniziative serie!
La vastità del materiale, poi, non permette ancora una raccolta definitiva e selezionata (16), tant’è che Chiusano afferma con amarezza: “Tuttora un’organica storia della poesia popolare dell’Irpinia, Alta e Bassa, non esiste” (17).
Dalla dispersione e dalla complessità della materia, bisogna, comunque, trarre gli elementi necessari per approfondirne l’importanza, i motivi ispiratori, i significati nascosti, i ritmi musicali, i metri delle canzoni.
La forma dei canti risente degli argomenti e dei sentimenti espressi.
In quelli santangiolesi sono “usati l’ottonario e il quinario, ma non sempre, nelle narrazioni di miracoli.
Nelle ninne nanne è preferito il quinario doppio.
Molte libertà di sillabe e di ritmo è per altri argomenti” (18).
Nei canti di lavoro, ad esempio, fa riscontro il verso sciolto, a dimostrazione della semplicità e della immediatezza delle immagini.

16) Tra le raccolte, più recenti, dei canti popolari vanno ricordate quelle di : Stefano Di Mita e Nino luliano di Nusco, Fedele Giorgio di Conza, Roccopietro Colantuono di Lioni, Giuseppe Chiusano di S. Angelo, Ferdinando Palatucci di Montella

17) G. Chiusano, Folklore Altirpino, op. cit., pag. 12.

18) Ivi.


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Anche l’impostazione e le parole dei vari paesi sono diverse, proprie di esperienze culturali e lavorative dissimili.

Cale, cale sole
ch’agge avute male patrone:
m’have date poche pane,
cale sole me face fame.
E lu sole m’ha ddate n’azzìnne:
m’ha dditte vattìnne, m’ha dditte vattinne.
E lu sole m’ha zzennijate:
m’ha dditte vattìnne ca so calate.

(Conza)

Ara, gualano mio, ara gualano
si vuoi che puorti nnanti su diuni:
l’aratro è r’oro, e lu iugo è r’argiento
le curriele so rè filo a dante:
sempe a lo coricchio tiene mente,
bella, ca l’uocchi tui so diamanti.
Chi vole sta a lu munno pe gorè
avria chi t’ha amato e tienelo ncore.

(S. Angelo dei L.)

Nei canti lirici lo strambotto è la forma più immediata e trova massimo uso nel rispetto, che ha come verso privilegiato l’endecasillabo e a volte il decasillabo; quest’ultimo “non ha varietà d’armonia e riesce monotono e malinconico”.
Vengono usati anche versi più brevi che suppliscono la mancanza di sillabe con l’allungamento delle note del canto e della musica.
Il ritmo sciolto conferisce una libertà espressiva, una spontaneità che riesce a tenere l’armonia pur nel verso irregolare (19).
Il motivo poetico,  scrive  Barbi,  si condensa “nel  quadernario a rime alternate per  poi ribattere,  nelle 

19) S. Di Mita, Le tradizioni popolari di Nusco, op. cit., pag. 41.


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riprese sul particolare che più importa; oppure accennare nelle prime a circostanze esteriori, per manifestare poi il sentimento vero nella seconda”(20).

Miezzu a sta via ngi sta na rundinella,
tutta si presta cu la billezza,
la mamma vaci rucennu; Figlia, figlia,
stu bellu guaglionu ti l’è a piglia.

Spingulu r’oru e acu r’argientu,
quistu è lu ninnillu tua che t’ama tantu:
guarda ca nu li rai nu trarimientu,
ca nu l’avissa cangia cu n’atu amantu.
                                                   (Nusco)

Nel santangiolese, invece, “per quelli d’amore e di odio è usata l’ottava con rime alterne, o con le ultime quattro, o due baciate; talvolta l’assonanza sostituisce la rima” (2).

Facce rè na serpe rè cannito
quanno cammini cuoteli la capo,
tè fai cuntenè co su vesito
na cascia rotta e nu lietto sfunnato.

Facce rè crapa selvaggia
si ghiuta a nasce e la metà re Foggia
cumme a nu cane m’è mossa la raggia
tutti li malandrini a caseta alloggene.

(S. Angelo dei L.)

Nei canti di sdegno di Conza, ma lo troviamo pure in altri paesi, prevale come forma metrica il tetrastico, e come verso il decasillabo oppure versi più brevi:

Figliole ohi figliole
nun té métte a ccère a ssole:
si te face la faccia neure
ppò nisciune cchiù tè vòle

20) M. Barbi, La poesia popolare italiana, Firenze, 1939, pag. 97.

21) G. Chiusano, Folklore Altirpino, op. cit., pag.12.


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Chiove e méne lu vénde
e sse dufreschene rè llenzòle:
la mamme vaje chiangènne
ca la fjglie dorme sole.

Tu chj tiène la dote
mittatille a la callare:
cu ssa facce de mascijare
probbje a mme vuoje ammagà.

I nuovi tipi di rapporti, che regolano la nostra società, hanno reso meno problematico l’avvicinamento e la “conquista” della donna.
Le serenate e le canzoni non servono più per far conoscere i propri sentimenti. La stessa libertà comportamentale, avendo superato certi tabù, non fa più sospirare né desiderare il sorriso malizioso, ma sa trovare altri argomenti più intimi.
Cambiati i costumi e le abitudini, le pene d’amore, le speranze riposte e l’alterno sentimento fanno solo sorridere. La canzone, che seguiva il ritmo del cuore angosciato o allegro, resta alla mercé del mercato discografico, che ne ha fatto un prodotto di consumo.
Non abbiamo tracce di canti di ribellione, a dimostrazione della mancanza di lotta contadina e di classe. Contemporaneamente in zone analoghe, vedi il Cilento, non diverso per problemi e realtà rurale, il canto di protesta rappresenta più pagine della cultura e dell’anima popolare.
La condizione subiettiva irpina, invece, vista sempre come un assurdo destino, non trova sfogo nel canto.
I bisogni del riscatto, mai sopiti, sono contenuti nel silenzio, nell’attesa di momenti più felici, per esplodere nella rivendicazione.
Ma la protesta è stata poca cosa ed è venuta tardi.

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Teatro e feste popolari

L’isolamento e la monotona e snervante vita dei campi non hanno mai distolto la famiglia contadina dal favorire e dall’accrescere i momenti associativi.
L’uccisione di un maiale costituiva, ma lo è tutt’oggi, l’occasione per scambiarsi le visite, le opinioni, per avvicinare le famiglie e per rinsaldare i vincoli di amicizia, di parentela e di vicinato.
La stessa uccisione viene fatta oggi secondo antiche disposizioni di tecnica e di tempo.
Ogni famiglia, anche la più povera, non rinuncia a questo rituale; anche se tanta presenza comporta l’acquisto di roba, il sacrificio della spesa è un fatto obbligato a cui non si può contravvenire.
Una volta quest’incontro veniva concluso con una festa danzante; durante il suo svolgimento si creavano fidanzamenti, si programmavano matrimoni; in sintesi si assicuravano i legami di continuità della famiglia. Ben altra risonanza, e con un cerimoniale non completamente scomparso, offrono i grossi appuntamenti di massa: le feste religiose e il carnevale.
Le prime, in una mistione di sacro e profano, costituivano l’unica occasione per vendere alla fiera le bestie e i prodotti agricoli e per fare le provviste (abbigliamento, utensili) bastevoli per l’intero anno. (La fiera era un’istituzione in uso già al tempo dei Comuni).
All’aspetto civile rappresentato da scambi economici e rallegrato dalle luminarie e dai mortaretti, pagati con il contributo di tutti (collette), si affiancava l’aspetto religioso.
La gente povera ma devota sfilava scalza, portando in processione le offerte: grosse candele di cera con penne colorate, portate dai vari pellegrinaggi, e i “muzzetti” (misure di grano, abbellite con nastri e figure del Santo).
A Nusco, in Alta Irpinia, durante la festa di S. Amato venivano portate in Chiesa le pecore della Masseria Armentizia, in precedenza ammaestrate.


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Appena compariva il vessillo raffigurante il Santo, tutte le pecore s’inginocchiavano (22).
Della tradizione non è rimasta traccia.
Di altre, invece, anche se i nuovi tempi dimostrano una concezione della fede più intima e meno penitente, conserviamo un rituale religioso-folkloristico, in parte ripreso negli ultimi anni.
Molti paesi, come dimostra la singolare pubblicazione curata da P. Grasso e P. Russoniello, corredata da notizie storico-critiche e da fotografie, rivivono aspetti della loro tradizione (23).
Ne riportiamo i più significativi:
A Flumeri, il 16 agosto, si festeggia il giglio di S. Rocco. Due sono le note caratteristiche: il giglio, un gigantesco obelisco, di origine pagana, montato su cinque piani di forma quadrangolare, che vanno restringendosi verso l’alto, e tutto rivestito di spighe; il manto del Santo ricoperto d’oro.
A Mugnano e ad Altavilla, durante le rispettive feste di S. Pellegrino e Santa Filomena, i battenti sfilano in processione per vari chilometri con sbandieramenti, danze frenetiche, pianti ed implorazioni.
In ricordo di un’apparizione della Madonna, Castelvetere organizza la festa del pane miracoloso. Tutta la gente fa a gara per offrire il grano, da cui, poi, verranno fatte le ciambelle, offerte il 28 aprile giorno della Madonna.
Alcune ragazze, sotto i 12 anni, tutte vestite d’oro e accompagnate da padrini con nodosi bastoni, dispensano, secondo il desiderio della Madonna, il pane miracoloso.
A Lapio, invece, si solennizza il Venerdì Santo.
Ventidue tavolate, gruppi plastici in cartapesta, raffiguranti la passione, vengono portate in processione. Uno stuolo di bambine, vestite di nero, (le addoloratine) segue Gesù morto.
S. Mango ricorda la festa di S. Anna.
I giovani sanmanghesi fanno una lunga cavalcata fino al fiume Calore e di qua alla chiesetta di campagna dedicata alla Santa. Vogliono ricordare il gesto di un lontano cavaliere venuto in quel posto per il voto di una grazia ricevuta.

22) G. Passaro, Verso il IX Centenario della morte di S. Amato, Tipografia Napole­tana, 1973.

23) P. Grasso / P. Russoniello, Fede e folklore in Irpinia, De Mauro Editore, Cava dei Tirreni, 1979.


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Prata P.U. festeggia l’Annunziata.
Due fanciulle, sospese in alto, e in abbigliamento angelico salutano la Madonna e rievocano la rappresentazione dell’Annunciazione.
A Mirabella si ricorda la tradizione del carro.
L’obelisco, poggiato su un carro, e rivestito con pannelli intessuti di paglia lavorata a mano, che danno archi, capitelli, figure di frutti, è formato da sette piani che si assottigliano verso l’alto. Il carro viene tirato con le funi da varie centinaia di persone.
Montella solennizza la festa della SS. Trinità. In quella sola occasione tutte e 12 le congreghe partecipano insieme a una manifestazione religiosa. Vogliono ricordare una provvidenziale pioggia, che, da una temuta carestia, procurò un abbondante raccolto.
Una tradizione, che ha subito grossi colpi distruttivi, pur con sensibili segni di cambiamento, resta quella del carnevale.
Una volta disdegnata perché popolare, volgare e letteralmente legata alla terra, oggi accomuna tutti senza distinzione.
In origine essa iniziava il 17 gennaio, festività di S. Antonio Abate. La conferma ci viene assicurata da un vecchio detto:

      S. Anduonu mascharu e suonu

ed ancora:

Chj buone Carnevale vóle fa,
da Sand’Anduone hadda accumenzà

(Conza e Morra de Sanctis)

Tutt’oggi il popolo collega l’inizio del divertimento e della festa con questa ricorrenza.
Le maschere, in prima uscita, danzano vicino a grossi falò accesi in onore del Santo, i cui carboni, fino a qualche anno fa, venivano portati in ogni casa e conservati, secondo la tradizione, per scongiurare i temporali. Intorno ai falò la gente ama incontrarsi per socializzare e consumare castagne, patate e vino.
Sui falò sono interessanti due teorie interpretative del Foschi: “l’una vede nei falò la sopravvivenza di un culto del fuoco (del sole secondo una teoria affine); l’altra vi riconosce soltanto il valore magico profilattico, sul principio che il fuoco purifica tutto e quindi elimina ciò che è cattivo, e non lascia sussistere se non ciò che è puro e santo” (24).

24) P. Toschi, II folklore, Roma, II Edizione, 1960, pag. 71.


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La festa vera e propria, che ha risonanza in ogni contrada, è il martedì di carnevale e la domenica successiva.
Maschere e fantocci presidiano le piazze; frenetici balli, accompagnati da urla, invitano alla danza.
Scomparse le maschere dell’orso e del diavolo, simboli propri della società agreste, troviamo accanto a maschere tradizionali (Pulcinella, la zingara, la donna procace) altre di recente assimilazione, caratterizzanti tipi e costumi del nostro tempo.
Ma il Carnevale ha profondi significati da spiegare; ovunque ha rappresentato il cerimoniale del mondo alla rovescia in cui “l’alto viene ricondotto al basso” e quindi alla morte, per ricominciare nuovi cicli.
In questo divenire ed alternarsi di vita e di morte ci sono altre ragioni che codificano il carnevale irpino. Tra le considerazioni emerse, infatti, non si era “riflettuto sul fatto che, in Campania, questo ciclico e provvisorio rovesciamento d’ogni codice, questo “abbassamento” materialistico d’ogni sublimità coincidono con la sostanza tellurica e infera della cultura popolare meridionale” (25).
Certe maschere e certi movimenti esprimevano, quindi, una cultura sommersa e diabolica.
Della vecchia tradizione non sappiamo molto.
La presente, invece, nell’entroterra irpino non si discosta molto da un paese all’altro: balli processionali accompagnati dal suono della fisarmonica, del clarinetto, del tamburello e delle “castagnole”.
A Gesualdo e a Castelvetere, oltre alla sfilata delle maschere, c’è quella dei carri allegorici.
A Piazza di Pandola, invece della tarantella, si danza il “ballo in trezzo”.
Nelle zone limitrofi di Avellino (Bellizzi, S. Potito, Cesinali) la festa del Carnevale è espressa dalle Zeze. L’azione è retta da quattro personaggi: Pulcinella, sua moglie Zeza, la loro figlia Vincenzella e Don Nicola pretendente di Vincenzella.
“Azione puramente rituale, la canzone di Zeza, rappresenta la figura di un anno, padre ormai morente il quale cede a rassicurare con un nuovo matrimonio sulla continuità di un ciclo naturale e rigenerativo. La figura di Pulcinella padre, infatti, conserva tutti i caratteri del tradizionale maschio patriarcale prevalentemente  geloso ed inconsciamente amante della figlia, mentre Zeza, emblema della madre fallica

25) A. Rossi / R. De Simone, Carnevale si chiamava Vincenzo, De Luca Editore, Roma, 1977, pag. XV.


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e cioè di un matriarcato tuttora esistente in Campania, risolve il dramma contribuendo alla castrazione del marito” (26).
Agli innegabili aspetti culturali fanno riscontro i bisogni economici, singoli e collettivi, auspicanti un mutamento sociale in questa direzione: il travestimento maschile e l’uso di abiti borghesi nelle Zeze (desiderio di cambiare la propria posizione socio-economica).
Il movimento scenico nelle Zeze e soprattutto il ballo nelle tarantelle risentono di gesti naturali, derivanti dal lavoro quotidiano, magici, sacrali e di imitazione degli animali.
Le componenti possono essere così sintetizzate: componenti di protezione, d’angoscia, di liberazione, di morte e di sesso.
“Nelle danze popolari, l’oscillazione o dondolio ugualmente riveste i molteplici esposti. Tale gesto esprime un istinto biologico (desiderio di muoversi, desiderio della culla, della madre, desiderio sessuale), si ricollega a stati angosciosi dell’individuo ed esprime in ultima analisi col suo significato comunemente una affermazione o una negazione. Ritmica-sessuale la relazione e la comunicazione col mondo dei morti” (27).
In alcune zone (Nusco, Ponteromito, Lioni), durante la sfilata, si procede alla questua; vengono raccolte offerte in denaro o in natura.

“Affacciativi signurinu

ca vogli nu capu ri sasicchiu

e si nun mi lu vuliti rà

ca vi pozza nfraciutà,”

Una volta alla richiesta di Pulcinella la gente dava salsicce, formaggio e vino.
A Montefusco, invece, vengono recitati, davanti alle case dei giovani sposi, i cosiddetti ‘“ngiarmi”, componimenti a rime baciate.
Le maschere di Solofra si distinguono per il travestimento e sono chiamate “zingarelle”.

26) A. Rossi / R. De Simone, op. cit., pp. 101-102.

27) A. Rossi / De Simone, op. cit., pag. 24.


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A Grottolella, Capriglia e Summonte è consuetudine che i giovani si mascherino e si presentino davanti alle case degli amici (28). A Morra de Sanctis, si rappresenta la tragicommedia “Cecilia”.
Il Carnevale con la sua diversa sopravvivenza dà nuovi impulsi alla vita, alle sue difficoltà, e permette la continuità della “festa dei poveri”, riproponendo, anche se con minore intensità, i suoi significati di “esorcizzazione del negativo, del grottesco, del ridicolo, della festa come liberazione”.
L’ultimo atto è il processo e la morte di Carnevale. Con la lettura del testamento gli si fanno fare e dire le cose più impensate.
In alcuni paesi irpini la tradizione è ancora viva (Montemarano, Nusco, S. Potito); a Montella è sopravvissuta fino a pochi anni fa: era l’occasione perché alcune maschere, travestite da personaggi ed animali, apprezzabili opere di artigiani locali, denunciassero le magagne dei cittadini.
Il testamento è costituito da componenti satirici che hanno il manifesto intento di far conoscere le malefatte e le beghe della vita paesana.
“Coloro che sono colpiti sopportano la rivelazione di esse che, fuor di quel momento, non tollererebbero in alcun modo. Tutto ciò risponde a quella mentalità a cui si ispira la confessione collettiva dei peccati ben nota a chi si occupa di Storia delle Religioni, e il cui scopo mira ad espellere, con la confessione, il male-peccato, in modo che la collettività possa muovere pura e sana verso il nuovo anno” (29).

28  C. Piscopo, Saggi di Storia delle tradizioni popolari (Due studi di folklore irpino), op. cit.
29) P. Toschi, Il  folklore, op. cit., pag. 70.

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Superstizione e religione

I momenti diversi e contrastanti della superstizione e della religione contadina non si prestano ad essere ben definiti.
La continuità, l’integrazione e la confusione dei due aspetti producono un gioco di parole: religione superstiziosa o superstizione religiosa?
Il mondo contadino, pervaso da oscure forze del male e restio alle innovazioni, non ha mai rinunciato alle vecchie divinità e a certe pratiche; ha fuso, abilmente, in un sincretismo religioso, la vecchia cultura pagana con la religione cristiana.
Ma la convivenza lascia spazio al contrasto dei “due punti di vista che si contendono reciprocamente il campo: la fede in un potere divino, non contaminato dalla vita quotidiana, e una concezione magica, espressa da una miriade di santi e superstizioni, in cui il cosmo è stato ridotto, com’era in origine, a proporzioni umane e reso operante nelle minute difficoltà di ogni giorno...” (30).
Pur seguendo le pratiche liturgiche cristiane, il contadino non rinuncia a quelle magiche e sciamaniche, in cui non trascura invocazioni a Dio, alla Madonna a ai Santi.
Tale ampliamento dell’orizzonte religioso gli garantisce la presenza di Dio e gli evita il conflitto della situazione peccaminosa.
La stessa richiesta di grazia, generalmente rivolta ai Santi (con i quali esiste un rapporto di familiarità e di solidarietà), se soddisfatta, viene ripagata con ex voto o con doni in denaro.
Da questo convincimento derivano i continui pellegrinaggi nei santuari.
La devozione, senza ignorare l’evasione, coinvolge soprattutto la donna-madre “che ha ragioni culturali profonde di tenere in vita un legame con la devozione, quale si concreta nel voto del pellegrinaggio: e che per ciò  stesso tende a  mantenere,  presso il  marito e i  figli,  saldo  il  prestigio  della  devozione e delle

30) F.G. Friedmann, in G.A. Marselli, La civiltà contadina e la trasformazione delle campagne, op. cit., pag. 129.

 


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condizioni di culto che vi sono collegate” (31).
La richiesta di protezione serve a ridurre la minaccia dell’ignoto e del negativo.
Questa cultura religiosa, testimoniata in prevalenza da donne avanzate negli anni, rivela i caratteri propri della miseria, di una deficienza psicologica e non quelli di “una dimostrata affinità dei processi socio-culturali di emarginazione”.
La religione popolare è una proiezione della cultura della povertà e dell’emarginazione; queste condizioni sono conseguenza dei mancati processi socio-culturali da cui dipendono i comportamenti, i consumi e la solidarietà.
Secondo De Martino “l’equazione religiosità popolare povertà s’articola in due diverse direzioni, una esistenziale e una storica” (32).
Nella prima la religione soddisfa, simbolicamente, i bisogni legati all’esistenza; nella seconda, non potendo incidere nel presente, si rifugia nel passato e nel futuro come “generica forma di coscienza-conoscenza umana”.
L’impossibilità e l’incapacità di raggiungere risultati positivi e di crescita difendono, perciò, l’esercizio della sua vita religiosa.
Il contadino invoca la mediazione, per ridurre gli eventuali malefici; si accontenta di non subire il male e poco gli importa di affrontare processi evolutivi o di cambiamento.
L’opportunismo rinunciatario e la fiducia nella protezione mediata fanno capire le sue virtù che non sono “cristiane, ma le virtù naturali di un popolo realistico che vive entro i confini sociali e cosmici della “miseria” (33).
Tutta la sua vita è avvolta dalla paura e dal mistero: persino la morte e le sofferenze sono conseguenze della miseria.
In questa visione del quotidiano, sempre prossimo all’apocalittico, l’imprevisto e il malefico possono provocare danni irreparabili e mettere in crisi la pace e la fortuna familiare.
La morte, ad esempio, costituisce la nota negativa maggiore; essa rompe ogni equilibrio, provoca eccessi di dolore e crea un rituale di pianto e di lamenti con cui si celebrano le memorie e gli affetti del defunto.

31) G. Giarrizzo, Mezzogiorno e civiltà contadina, in Campagna e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia, De Donato Ed. vol. II, 1979, pag. 328.

32) E. De Martino, in G. Giarrizzo, op. cit., pag. 338. 33; F.G. Friedmann, in G.A. Marselli, op. cit., pag. 128.


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Tale lamento è un’altra proiezione della miseria: si piangono e si cantano, nello stesso tempo, le lodi ovvero le gesta epiche dei morti per evitare il loro ritorno — secondo De Martino — come una “rappresentazione ossessiva o come immagine allucinatoria”.
La popolazione contadina sospettosa, impaurita, credulona, ammaliata dagli stati di possessione, affida le sue paure e le sue difficoltà alla magia.
“Il culto dei santi e dei defunti, il suo Cristo eternamente agonizzante, la sua ossessione dello sguardo malefico e delle fatture, le sue dimestichezze con i monacelli e le tarantole, la sua vertigine degli oracoli, dei Sogni e della Sorte” (34), sopravvivono ancora in Irpinia, ma si avvertono ovunque segni di erosione e di poca consistenza.
Le invocazioni propiziatorie, che servivano per piantare un albero e per far covare le uova dalla chioccia, sono state soppiantate.
Restano, invece, nell’uso e con rinnovata credibilità alcune tradizioni: il maiale non va ammazzato nello stesso giorno della settimana in cui capita, in quell’anno, la festa di S. Sebastiano; neppure i salami possono essere confezionati in quel giorno; identico comportamento viene mantenuto per la preparazione delle salse, per l’imbottigliamento del vino e per la conservazione degli ortaggi.
Fa pure meraviglia l’importanza riconosciuta al sogno: tuttora esercita una funzione di predizione e di ammonimento. Anche se il condizionamento non viene riconosciuto apertamente, esso può determinare l’agire: anticipa o ritarda i tempi di esecuzione di una faccenda, assicura o distoglie da un investimento, avvalora o rinnega scelte o decisione da adottare.
Una considerazione a parte va fatta per i sogni che interessano le apparizioni dei morti. Tale specificità assicura, nel quotidiano, la presenza del defunto, che chiede suffragi o parla dell’aldilà; ne derivano giudizi e consigli, in una comunione extrasensoriale, che fa tenere, nella giusta considerazione e con la dovuta apprensione, la figura del trapassato.
Il sogno conserva le virtù proprie del presagio, non tutte riconducibili a convinzioni di suggestione e di magia, se si pensa quale considerazione gode, in psicologia, il pensiero onirico.
Nonostante queste resistenze, il mondo civile continua, imperterrito, la sua azione demolitrice.

34) Ivos Margoni, in A. Rossi / R De Simone Carnevale si chiamava Vincenzo. op. cit., pag. XIV.


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Magia e credenze*

L’alternativa fra “magia” (1) e “razionalità”, scriveva un ventennio fa il De Martino, “è uno dei grandi temi da cui è nata la civiltà moderna” (2). L’affermazione aveva ed ha un suo innegabile fondo di verità. La storia dell’umanità, infatti, è stata caratterizzata da tutta una serie di compresenze di manifestazioni “irrazionali” e “razionali” che col passare degli anni, consolidandosi, si sono trasformate in pratiche, credenze, usanze, conquistandosi, in tal modo, un loro spazio di credibilità.
La lotta tra questi due mondi, quello fondato sulla “magia” e quello fondato sulla “razionalità”, non venne sempre esercitata con rigore scientifico.
Nel Mezzogiorno, in particolar modo, la partecipazione della cultura “alta” alla polemica antimagica conobbe aspetti positivi solo quando la “polemica antimagica entrò nella sua forma più pertinente di alternativa fra magia e razionalità, fra esorcismo ed esperimento, fra incantesimo e scienza riformatrice” (3).
In questi ultimi anni il dibattito ha assunto toni completamente diversi. Lo sviluppo economico e il contemporaneo risanamento  dei  dislivelli sociali preesistenti  hanno fortemente condizionato l'esercizio 

*   II paragrafo “Magia e credenze è, nella sua integrità, uno studio di Alessandro Di Napoli.

1)   Per una corretta definizione del termine “magia”, che in questo nostro lavoro noi usiamo nel suo significato più estensivo, si consiglia la seguente bibliogra­fia: E.B. Tylor, Primitive Culture, New York, 1871; J.G. Frazer, The Golden Bough, London, 1922 (trad. it. Il  Ramo d’oro, Torino, 1965); B. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific: Native Enterprise and Adventure in Melanesion New Guinea, London, 1922; IDEM, Magic, Science and Religion and Other Essays Glencoe, Illinois, (trad. it.. Magia, scienza e religione. Roma, 1976); E. Durkheim, Les formes elementaires de la vie religiouse, Paris, 1912, (trad. it., Le forme ele­mentari della vita religiosa. Roma, 1973); L. Lèvy-BruhI, La Mentalità primitiva, Torino, 1966); M. Mauss, Teoria generale della magia, Roma, 1975; E. De Marti­no, il mondo magico, Torino, 1948; E. De Martino, Sud e magia, Milano, 1959.

2)   Cfr., E. De Martino, Sud e magia, op. cit.

3)   E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 9.


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delle più diffuse pratiche magico-rituali, facendo, di pari passo, regredire l’uso di tecniche ad esse direttamente collegate, perché ritenute storicamente superate.
I documenti in nostro possesso, e le continue osservazioni sul territorio dimostrano che l’uso di tali tecniche è del tutto scomparso o, se praticato, esso è limitato a situazioni precarie di tipo molto particolare.
In questo lavoro, oltre ad una esplorazione di alcune tra le più diffuse sopravvivenze irpine, tenteremo di determinare la struttura delle tecniche magiche, la loro funzione psicologica, il regime di esistenza che ne favorisce lo sviluppo e la scomparsa. Infine, tenteremo di scoprire le ragioni che hanno, definitivamente, messo in crisi la credibilità di gran parte di alcuni cerimoniali che, un tempo, dominavano la vita delle piccole e indifese comunità agricole della provincia di Avellino.

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Il malocchio

Uno dei temi fondamentali della bassa magia cerimoniale irpina, ma praticato con altre denominazioni in tutto il Mezzogiorno (4), è la fascinazione (in dialetto: maluocchio). “Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta” (5).
In provincia di Avellino il trattamento della fascinatura si fonda sulla esecuzione di un particolare cerimoniale da parte di operatori non necessariamente specializzati (6).
Ad Andretta, secondo l’usanza ancora diffusa, soprattutto tra la popolazione rurale, una vecchia si pone il bambino, che  si sospetta sia stato  preso dal  malocchio,  sulle ginocchia,  gli fa il segno della croce sulla

4)   E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pp. 13-65; Cfr. E De Martino, Morte e Pianto Rituale nel Mondo Antico, Torino, 1958.

5)   E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 13.

6)   In Lucania si richiede la partecipazione di operatori specializzati (Cfr. E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 13 e sgg.). In Alta Irpinia, invece, la pratica del malocchio può essere realizzata da chiunque e con la stessa efficacia.


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fronte, sul petto e sulla pancia e ripete per tre volte il seguente scongiuro:
     Dui occhi ci tengo in fede,
     quattro me ne salvo occhi passandoli core crescendo; In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito      Santo. Schiattano i mal’uocchi e crescono buon’occhi (7).

Ma la pratica più diffusa, per eliminare il malocchio, è la seguente:

Due occhi ti offendono (8),
tre ti difendono,
il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Due occhi t’hanno visto,
tre t’hanno flagellato
e lo Spirito Santo t’ha liberato (9).

Subito dopo aver pronunciato la formula si fanno una infinità di croci, alle tempie e sulla fronte, alla persona sottoposta alla pratica.
A Monteverde, invece, per evitare di essere colpiti dal malocchio si portano addosso alcuni oggetti (forbici, corno, ecc.) e si ripete la seguente formula:

Uocc t’hann affascinat, 
Sant l’hann aiutai Angil sant da li cielo calast, 
Panne e ngiens tu purtast, 
Lu purtast appi la via
Leva ‘st’affascu ra cimma a ‘sta criatura mia (10).

7)   Cfr. A. D’Amato, Nuovo contributo al folklore irpino, Catania, 1933.

8)   Variante del melfese:

Doi uocchi t’hanno aducchiato 
e tre sand t’hanno aita;
A nnome d lu Patr
d lu Figli e d lu Spird sant,
non t’aiutu come a figli miei
ma coma a figli d Marei.
Scatta maluocchie
e crisci bonucchie.
Cfr., R. Nigro, Tradizioni e canti popolari lucani: il Melfese, Bari, 1976.

9)   Cfr., A. D’Amato, Nuovo contributo al folklore irpino, op. cit., pag. 10.

10) Cfr. A. D’Amato, ivi, pag. 13.


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A S. Andrea di Conza si spargono sul fuoco incenso, foglie secche di ulivo e sale e, mentre il bambino viene mantenuto sul fumo, la fattucchiera dice quando segue:

Duie uocchie t’affennono, tre te salvano,
Lo Padre, lo Figliuolo, lo Spirito Santo,
Scattate maluocci tutti quanti (11).

L’ideologia della fascinazione, come già si è cercato di mettere in evidenza, costituisce il tema dominante della bassa magia cerimoniale irpina, in quanto le altre forme di magia sono in stretta connessione psicologica con l’esperienza di dominazione su cui poggia la fascinazione. Per quanto riguarda la fascinazione magica della malattia è da notare che, in provincia di Avellino, le testimonianze sono abbastanza rare. Generalmente, i ragazzi colpiti da malore si incensano. Il rituale, in questa occasione, è molto semplice: sul fuoco del braciere o del caminetto si versa dell’incenso e, mentre questo brucia, si prende il ragazzo, per le braccia, e lo si agita a modo di croce. Contemporaneamente, la madre si esprime con un apposito scongiuro:

Mamma t’incensa
dalla capo allo pere
e chi ti ha fatto ro male
ti face ro bene (12).

Per allontanare, invece, il mal di pancia si formula il seguente scongiuro:

Santo Pietro venia ra Roma, (13)
in casa re ‘na ronna fu alloggiato;

11) A. D’Amato, Nuovo contributo al folklore irpino, op. cit., pag. 13.

12) A. D’Amato, ivi, pag. 10. 33) Variante di Ferrandina:

S. Pietro da Roma venia
Chiaggendo e lacrimando scia.
Acchiò o maestro pè via:
— Ce jè Pietre ca vai chiaggendo?
— Stà zitte maestro mio,
tengo la rugna e la capa pennata
e da tutti sò schifate,
—Piagghia nu poco d’uogghio
e nu poco de pisciate
e la tigna t’è sanate!
Cfr. R. Nigro, Tradizioni e canti popolari lucani, op. cit.


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piglia nfossa e ossa sporpate,
male re ventre te sia passato (14).

Subito dopo lo scongiuro si fanno tre croci sulla pancia del paziente.
In Irpinia la possibilità di fascinare e di essere fascinato trova un terreno particolarmente fertile nella vita amorosa: solo che, mentre gli scongiuri contro il malocchio e l’invidia dei parenti, degli amici e dei vicini tentano di istituire una difesa dell’energia maligna che insidia le persone, gli incantesimi d’amore sono quasi sempre impiegati per stringere a sé la persona che si ama.
Questo tipo di fascinazione, è bene sottolinearlo, viene praticato, essenzialmente, dalle donne mentre l’uomo ricorre ad essa solo in rarissime occasioni.
La donna, infatti, per la sua particolare condizione di sudditanza, almeno sino a qualche anno fa, si affidava molto più facilmente, considerata anche la sua condizione di elemento tradizionalmente passivo nella vicenda d’amore, alla piccola strategia dei filtri amorosi, delle pratiche augurali e divinatorie. Il sangue catameniale, la secrezione femminile e il sangue delle vene hanno, secondo una tradizione ancora oggi diffusa, il potere di legare a sé l’uomo desiderato (15). Non esistono, comunque, per questo tipo di pratica né rituali prestabiliti né formule precise, anche perché in questo ultimo decennio, data l’evoluzione culturale delle zone interne, la pratica è quasi scomparsa.

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Credenze e superstizioni

Le superstizioni, le piccole credenze, senza particolari implicazioni magiche, sono praticamente scomparse, anche se esse trovano terreno fertile soprattutto in quelle aree dove la diffusione della cultura moderna ha trovato poca incisività.
Un piccolo elenco di esse ci consentirà di valutare, con un certo rigore scientifico, l’entità del fenomeno e il valore sociale che esse assumono in un contesto culturale ed economico ancora in via di sviluppo.

14) A. D’Amato, Nuovo contributo al folklore irpino, op. cit., pag. 10.

15) Cfr, E. De Martino, Fascinazione ed eros, in Sud e magia, op. cit., pp. 17-19.


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1. Ogni favilla che si sprigiona dai carboni o dai “tizzoni” semispenti rappresenta un’anima che vola nell’altro mondo. (Bisaccia)
2.  Se nel dire il rosario si spezza la corona è segno che la grazia richiesta è stata soddisfatta. (Monteverde)
3.  Quando canta la civetta, (la cristarella) sul tetto di un’abitazione, è segno che, nell’altra abitazione, quella guardata appunto dalla civetta, qualcuno deve morire.
4.  I capelli caduti, mentre le ragazze si pettinano, devono essere subito bruciati, in quanto si teme che qualcuno, trovandoli, possa servirsene per fabbricare una fattura.
5.  Il vino che si rovescia sulla tovaglia, durante, prima o dopo i pasti, è malesegno (16).
6.  Il fischio all’orecchio è segno di buone notizie, segnale di avvenimenti lieti.
7.  Il singhiozzo è segno che qualcuno sta parlando di noi.
8.  Il sale e l’olio, versati sul tavolo, sono segni di sventura.
9.  Sciogliere o legare le scarpe vicino al focolare acceso porta sfortuna.
10.  L’ombrello non va mai aperto in casa.

Tutte queste superstizioni, osservate sino a qualche anno fa con particolare vivacità, stanno quasi scomparendo. Le nuove generazioni, infatti, non solo non le osservano, ma, molto probabilmente, le ignorano persino. I genitori, d’altra parte, passati da una cultura rurale ad una cultura pre-industriale e di massa, non amano più neanche tramandarle o, cosa più giusta, farne, con i figli, oggetto di studio e di dibattito.
Questo mondo, come si auspicava il Di Fronzo (17), sta veramente scomparendo.
A questo punto se ci si chiedessero le ragioni che hanno contribuito a far sopravvivere, sino a qualche anno fa, un’ideologia così arcaica, rozza e mal definita nei suoi più intimi connotati, la risposta non potrebbe essere che questa: sino a qualche anno addietro, nella nostra provincia, nonostante le pressioni della civiltà moderna,  regnava un regime di vita precaria,  capace di condizionare fortemente  l’esistenza

16) Maleaugurio, Cfr. P. Di Fronzo, La superstizione, in Vecchio mondo in declino, Lioni, pp. 9-13.

17) P. Di Fronzo, op. cit., pp. 7-8.


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di larghi strati sociali della popolazione irpina.
In questa situazione esistenziale “la precarietà dei beni elementari della vita, l’incertezza della prospettiva concernente il futuro, la passione esercitata sugli individui da parte di forze naturali e sociali non controllati, la carenza di forme di esistenza sociale, l’asprezza della fatica nel quadro di una economia agricola arretrata, l’angusta memoria di comportamenti razionali efficaci con cui fronteggiare realisticamente i momenti critici dell’esistenza costituiscono altrettante condizioni che favoriscono il mantenersi delle pratiche magiche” (18).
D’altra parte, come potevano i contadini, privi d’istruzione, privi di qualsiasi bene materiale, fronteggiare la presenza del precario e del negativo lungo tutto l’arco di vita individuale, della propria famiglia, del proprio gruppo sociale? Quali risposte potevano essi formulare di fronte alle presenze di forze oscure che non riuscivano ad individuare e a definire?
I temi della forza magica, della fascinazione, della fattura, della possessione, dell’esorcismo, sono, quindi, senza ombra di dubbio, in stretta connessione con la straordinaria potenza del negativo quotidiano, che esercita la sua forza, la sua presenza sugli individui dalla nascita alla morte. Infine, come è possibile non pensare che le ideologie magiche relative alla gravidanza, al parto, all’allattamento, allo svezzamento, ai rischi cui è esposto il bambino nei primi anni di vita, non siano in stretto rapporto “con i dati relativi all’alto numero delle gravidanze e degli aborti spontanei, alla nati­mortalità, ai disturbi dell’allattamento, alla carenza di forme assistenziali per la gestante, la partoriente, la madre, il bambino” (19)?
Probabilmente, di fronte ad un fenomeno di così vasta portata, se si pensa che in taluni paesi dell’Alta Irpinia, questi cerimoniali della bassa magia venivano quasi, quotidianamente, praticati, si dovrebbe andare al di là di certi giudizi di tipo illuministico e positivistico (ignoranza, analfabetismo, ecc.) per cercare di capire le ragioni psicologiche fondamentali che hanno determinato la nascita e quindi lo sviluppo e l’uso di tali pratiche.
Infatti, questo elemento psicologico, di cui abbiamo parlato e sul quale già si era soffermato ampiamente il De  Martino,  mette  in  luce  l’esistenza “ di  un  negativo  più  grave  di  qualsiasi  mancanza  di  un  bene

18) E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 66.

19) E. De Martino, Sud e magia, ivi.


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particolare: mette in luce il rischio che la stessa presenza individuale si smarrisca come centro di decisione e di scelta, e naufraghi in una negazione che colpisce la stessa possibilità di un qualsiasi comportamento culturale” (20).
La magia in Irpinia, come tutta la magia meridionale, è un in­sieme di tecniche, fortemente socializzate e socializzanti, rivolte, soprattutto, a proteggere quanti la praticano dalla possibile caduta nel “negativo”, nel “male” religiosamente e moralmente inteso.
In tal senso l’uso della bassa magia esercitava ed esercita, laddove essa ancora sopravvive, una forte funzione protettiva che non sempre trova riscontri oggettivi pertinenti nell’analisi del vissuto quotidiano delle nostre zone interne.

20) E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 66.

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CONCLUSIONE

La ricerca fin qui effettuata, necessita di un rapido consuntivo, sia per constatare la metodologia intenti-risultati, sia per assicurare la continuità e lo sviluppo dei problemi e delle prospettive.
L’eredità emersa, ancora in fase di trasformazione, non ha dati acquisiti e duraturi ma offre al temporaneo rilievi e risposte che non possono essere ignorati.
Il disinteresse e la poca accortezza procurano poche illusioni per un destino già segnato.
L’impossibilità di far resuscitare una civiltà (che è un processo continuo e non uno stato di cose) non distoglie, tuttavia, dal conservare testimonianze, ancora vive, prima che vengano dimenticate o diventino reperti, soggetti alle varie interpretazioni.
La famiglia contadina, violentemente esposta ai nuovi processi, non è più portatrice della vecchia cultura, non esalta più i suoi valori, divenuti, oggi, poco funzionali, in una società pragmatica e antagonista nella produzione.
In poco tempo le immagini di qualche decennio si sono sbiadite, acquistando connotati non ancora definibili, per il persistere di aspetti diversi e contrastanti.
Le ripetute aggressioni della civiltà, un nuovo sistema di vita incontenibile per capacità ed organizzazione, e la poca consistenza di un logorato modello di difesa familiare e culturale, ormai prossimo al collasso, hanno favorito il processo di disgregazione e di trasformazione.
Il nuovo corso non registra accettazioni passive o facili integrazioni ma fa vivere situazioni di conflitto, perché il contadino conserva forme di sospetto e di incertezza.
Il sottosviluppo, l’assenza di livelli di elementi di dinamicità, la mancanza di articolazione professionale, la diffidenza per le innovazioni, la mancata modernizzazione concorrono a mantenere uno stato di bisogni, di inquietudine e di sottomissione.
Il tardivo sviluppo  implica processi economici  non facilmente ribaltabili o convertibili,  trovando  “precisi


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 riferimenti esplicativi nell’eredità storica delle sue strutture di classe” (1).
La lenta o la mancata elevazione sociale, altrove realizzabile e in tempi più brevi, l’energia e le capacità perdute con l’emarginazione, divenuta talora permanente, hanno mantenuto in poca considerazione le richieste avanzate, proprio per lo scarso peso rivendicativo.
Gli stessi rappresentanti del potere pubblico si sono poco curati di scrutare attentamente in queste strutture sociali, per scorgervi i consumi poveri e regressivi e per modificare la rigidità di tecniche socializzative. Si sono preoccupati unicamente di consolidare il potere, accentuando le dipendenze clientelari e sacrificando lo sviluppo collettivo.
Sono queste le classi che, strettamente collegate alle borghesie locali, determinano il sottosviluppo e lo sfruttamento (2).
La formazione sociale e la produzione economica sono, perciò il risultato di una particolare disgregazione, conseguenza propria di uno sviluppo capitalistico favorito e controllato da classi sociali esterne a tale area.
In quest’emarginazione coatta le sensazioni emozionali sono poche ed impediscono gli slanci e le proiezioni generose.
In questo compromesso avvilente la liberazione sembra lontana, soffocata dal conformismo e dall’interesse privato che non è soltanto la preoccupazione contingente della famiglia, ma dello stesso potere pubblico, che tende a privatizzare e a gestire in proprio gli interessi comunitari.
La crisi ideologica della famiglia, a cui si fa riferimento da più parti, è nella fattispecie irpina una crisi economica e sociale che va oltre la sua struttura gerarchica.
Il cambiamento diventerà possibile solo se la famiglia supererà i suoi fattori ascrittivi, limitati all’ottica della sopravvivenza e dell’arrangiamento; dovrà costruire, tramite una nuova politica di investimenti, di associazionismo  e  di  solida  programmazione  culturale,  un’ impresa  economica  capitalistica,   tale  da

1)   P.P. Donati, Famiglia, stratificazione e classi sociali, in Nuove Questioni di Sociologia, Editrice la Scuola, Brescia, n. 3, 1976, pag. 177.

2)   Cfr. C. Donolo, Sviluppo ineguale e disgregazione sociale nel Meridione. Note per l’anili delle classe nel Meridione, in “Quaderni Piacentini”, 1972 n.47, pp. 101-128; L. Libertini, Integrazione capitalistica e sottosviluppo. I nuovi termini della questione meridionale, Bari, Laterza, 1968; N. Zitara, II proletariato esterno, Milano, Jaca Book, 1972.


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incidere nella crescita propria e della comunità, pur sapendo che la funzione produttiva sarà sempre diretta dal mercato e dal capitale. I mutamenti auspicabili permetteranno di superare l’odierna contraddizione antagonista, che isola ed espelle chi non è portatore dei nuovi modelli.
Il restare nei campi non dovrà significare né una maledizione né una costrizione ma l’acquisizione di un nuovo ruolo sociale e produttivo della famiglia.
Essa resta, ancora, una sovrastruttura, una forma ideale di sicurezza e di assistenza reciproca dei suoi membri, con capacità non ancora utilizzate di solidarietà collettiva.
La famiglia rurale, il gruppo sociale più provato e che ha pagato al progresso un prezzo molto caro, risulta il punto di riferimento più importante per l’identificazione e per la ricomposizione della vita quotidiana, della socializzazione dei figli, dell’istruzione e della stabilizzazione psicologica della persona adulta. Una funzione culturale caratterizza il suo nuovo ruolo, anche se la cultura, in senso ampio, resta prerogativa della struttura pubblica.
Certo è che il suo patrimonio di civiltà, abbastanza ridimensionato nei valori tradizionali e nelle funzioni educative, è oggi legato alle esigenze della realtà.
La cultura dei poveri, non più tale, viene assorbita e riproposta sotto forma di folklore; gli stessi rappresentanti della civiltà rurale, non più disponibili a difendere gli archetipi culturali, sono diventati consumatori della loro stessa civiltà.
L’apostasia della vecchia cultura con tutti i deterrent negativi di sottosviluppo, di arretratezza e di miseria, diviene con un abile raggiro (una riconversione culturale) una nuova cultura.
La nuova esperienza, perciò, conserva intatti i significati di un passato, che se non ha molto da insegnare, neppure può essere fatto oggetto di rifiuto e di cancellazione. La cultura resta sempre l’immagine speculare di un popolo, un supporto che motiva le ansie, le aspirazioni e le richieste.
E impensabile a questo punto un ritorno nostalgico a certe forme comportamentali — anche se le vecchie generazioni spesso le rimpiangono — ma neppure sembra corretto e logico un rigetto totale ed immotivato di quanto sa di vecchio e di tradizionale.
L’affannosa corsa per bruciare le tappe, pur di raggiungere determinati fini, non ha avuto tempi materiali sufficienti per riflettere e conservare.
La passata ingenuità non è in assoluto sinonimo di plagio, di dabbenaggine e di ignoranza. Certe azioni hanno goduto di libertà espressive e comportamentali tanto da diventare momenti significativi della storia


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e della letteratura popolare.
Il recupero e la salvaguardia, non limitati al folklorico, devono stimolare una ricerca integrale della precedente civiltà, facendone oggetto di analisi sul territorio, mediante continue operazioni scolastiche, sociali e culturali.
La stessa famiglia potrà rientrare in possesso della sua civiltà, sia per non rinnegare la propria identità, sia per poter constatare i graduali momenti di crescita, di conflittualità e di affermazione sociale.
Questa riqualificazione familiare e culturale esige un sostegno e chiede riforme sociali e servizi collettivi “per l’edificazione di una società in cui a tutti siano date garanzie di un’esistenza non precaria, un dignitoso livello di vita per far fronte ai bisogni” (3).
La richiesta non passa in silenzio; è la rivendicazione d’oggi, per superare l’elemosina e l’asservimento di ieri.
Sotto le pietre accumulate dal sisma sono rimaste sepolte la miseria, la rassegnazione e l’umiliazione ma non la civiltà di un popolo e la sua fiera dignità che gridano, nei nuovi bisogni, il diritto umano della solidarietà e dell’uguaglianza.
Tanta presenza riafferma il diritto inalienabile della partecipazione, forza della comunità e dei suoi membri che, insieme, propongono, controllano, costruiscono e crescono.
La soluzione dei problemi non riconosce più deleghe né gestioni a mezzo servizio, ma vede gruppi di individui unirsi ed informarsi per allontanare gli impostori, gli intriganti e i possibili gestori di nuove miserie.
L’alba nuova ha dimensioni più credibili e meno lontane!

3)   M. Wynn, in P.P. Donati, Famiglia stratificazione e classi sociali, op. cit., pag. 234.

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