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C A P I T O L O I
I I
LA CULTURA
UN’
IDENTITA’ IRRICONOSCIBILE
Il tentativo di interpretare la cultura
contadina si rivela un compito arduo e controverso.
Una
vasta bibliografia, non riuscendo, ancora, a stabilire i canoni e
l’attendibilità dei metodi di ricerca, è tutt’oggi in polemica
con se stessa.
Le
varie proposte fatte, non potendo contare su esami rigorosi e
scientifici, risentono di suggestioni neopopulistiche, di visioni
metastoriche e di facili generalizzazioni.
Tanta
confusione ed incertezza accrescono le probabilità di incorrere
in giudizi errati e condizionati, ma la singolarità e l’importanza
di affrontare questo discorso meritano il rischio.
Sappiamo
che ogni ordine sociale comporta l’esistenza di una sua cultura;
quello contadino, prettamente comunitario, “essendo basato sul
consenso della volontà, si fonda sull’armonia ed è sviluppato
e nobilitato dalla cultura folk, dai costumi e dalla religione”
(1).
Questi supporti, in situazioni
costanti, assicurano la sopravvivenza della comunità rurale, anzi
ne caratterizzano l’autonomia, la libertà espressiva e la
continuità culturale.
Ma il concetto di autonomia implica
un’autosufficienza e una gestione di capacità economiche e
culturali tali da incidere nella storia.
Mancando
questa prerogativa, secondo taluni studiosi, l’organizzazione
autonoma della tradizione non esiste. Per il Redfield, infatti,
“la cultura di una comunità contadina... non è autonoma. È un
aspetto o una dimensione della civiltà di cui fa parte. Come la
società contadina è una “mezza società” così la cultura
contadina è una “mezza cultura” (2).
1)
F. Tonnies, in G.A. Marselli, La civiltà contadina
e la trasformazione delle campagne, Loescher Editore, Torino,
1973, pag. 117.
2)
R. Redfield, in G.A. Marselli, op. cit., pag. 122
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La
tradizione popolare ha il torto di essere accettata nella sua
interezza, senza essere esaminata né confrontata criticamente. Non
avendo né crescita né perfezionamento essa è una ripetizione
continua di fatti , luoghi e persone (3).
Ma
pur in questa continuità non si può ignorare come la natura e gli
effetti della storia (“i contadini sono soggetti ai risultati
della storia più che parte attiva nel suo sviluppo...)” (4)
influenzino i loro comportamenti, diventino fattori educativi e
determinino il loro mondo motivazionale.
Inoltre
la stessa economia condiziona la formazione culturale. Dove
l’economia è florida, la cultura si rafforza; dove l’economia
è abbandonata o dispersa, anche la cultura si disperde.
L’Irpinia,
castigata da un economia di sopravvivenza, ha conosciuto un
graduale declino della sua civiltà.
La perdita di vigore dei suoi rituali
non può permetterci di abbandonare all’oblio questa realtà
semplice e complessa, espressione e simbolo di tante generazioni e
della loro umanità.
“Essa,
da un lato, testimonia il dominio di classe — sia nelle forme
folkloriche oppositive alla cultura egemone, sia in quelle
conformistiche — dall’altro, con la sua radicale diversità,
indica una resistenza, più o meno organizzata, e consente il
recupero critico (laddove è possibile) di alcuni valori
essenziali nella costruzione di una società realmente equalitaria e
giusta” (5).
I
segni e le definizioni riscontrabili parlano tutti di una “cultura
della povertà” (o sottocultura) (6), di una cultura scrive
Lombardi Satriani come “tecnica di disinnescamento del pericoloso,
“tecnica di esorcizzazione del male, del negativo esistenziale o
storico e quindi
cultura del disordine come discorso
3)
Anche per Gramsci “il popolo per definizione non può avere
concezione elaborate nel loro sia pur contraddittorio sviluppo, ma
anzi molteplice”. Cfr. Gramsci, Letteratura e vita nazionale,
Torino Einaudi, 1966, pag. 215.
4)
F.G. Friedmann, in G.A. Marselli, op. cit., pag. 126.
5)
L.M. Lombardi Satriani, Menzogna e verità nella cultura
contadina del Sud, Guida Editori Napoli, 1974, pag. 15.
6)
O. Lewis, La cultura della povertà, in “Centro
Sociale”, a. XIV, n. 74-75, 1967, pp. 1-11. Lewis scrive che la
“cultura della povertà rappresenta un tentativo di far fronte al
senso di disperazione dovuto alla consapevolezza dell’improbabilità
di conseguire il successo nei termini e nei valori degli scopi delle
più vaste società... molte caratteristiche della cultura della
povertà possono essere considerate tentativi di trovare soluzioni
locali dei problemi non risolti dalle istituzioni e dagli enti
esistenti, perché il popolo non può esservi eletto, non può
permetterselo, o le ignora come sospette”.
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dell’anormalità, della
follia, della ribellione, del ridicolo” (7).
L’estrema condizione di bisogno influenza le varie esperienze di vita
e le conoscenze assimilate dalla famiglia contadina. Su di essa
incidono le continue aspirazioni a migliorarsi per modificare o
capovolgere la propria economia e per creare dei “sostegni
artificiali
alla personalità umana”.
La visione fatalistica della vita, espressa nell’antica concezione
dualistica del bene e del male, in un alternarsi magico e
capriccioso,
può essere spiegata dai significati reconditi delle leggende.
“È molto
interessante notare che in quasi tutte le leggende, la cui area di
diffusione si estende lungo l’arco della cosiddetta zona di
sottosviluppo economico, principalmente per i paesi dell’Alta
Irpinia, il tema dominante della narrazione è costituito dal
tentativo, costantemente riemergente di cercare un “tesoro
nascosto” avvalendosi pure di forze occulte e diaboliche” (8).
In Alta Irpinia e più precisamente a Conza si racconta “il tesoro di
Monte Travaglioso”, a Calitri “lo scazzamauriegghio, a Lioni
“Lo maleviento”.
Non possono esser ignorati altri paesi della provincia: Contrada (il
tesoro dei diavoli). Baiano (Frate Giammarino, voce del diavolo),
Savignano Irpino (la grotta del diavolo), Capriglia (o monaciello).
Alle leggende di matrice diabolica fanno riscontro quelle mitologiche e
più ancora quelle storico-religiose; la fantasia popolare,
ignorante e succube del misterioso, ha sempre cercare di fondere il
pagano ed il cristiano, pratiche sciamaniche e voti, per eliminare
le forze del male e per autoproteggersi. Al filone religioso
appartengono le leggende:
Santa Nesta (Bagnoli I.), S. Guglielmo e il lupo (Montevergine), La
storia della Madonna (Carpignano di Gesualdo), S. Amato ed il
Guiscardo (Nusco), Le maggiaiole di S. Andrea (S. Andrea di Conza).
Nella narrazione di quest’ultima, che trova riscontri reali, ancor
oggi, si ricorda l’intervento prodigioso della Madonna della
Gaggia o dell’Acacia, in favore delle ragazze di S. Andrea.
L’ultimo
sabato di maggio di ogni anno queste diventano “pellegrine
d’amore” e vanno a piedi da S. Andrea a Conza, con la divina
promessa che non resteranno senza marito.
7)
L.M. Lombardi Satriani, op. cit., pag. 55.
8)
C. Piscopo, Saggio di Storia delle tradizioni popolari
(Due studi di folklore irpino). Nuova Stampa, Avellino, 1975, pag.
81.
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La leggenda irpina ha una struttura molto semplice ma dai
risvolti
didattici; in un mondo povero di emozioni e di conoscenze essa
rivela i caratteri della saggezza, della pietà, del rischio e del
coraggio. Tanta creazione fantastica resta la parte più
significativa e, nello stesso tempo, di più facile accessibilità
della letteratura popolare.
Le
misteriose vicende di maghi, di spiriti maligni e di santi hanno
rappresentato il potenziale culturale ed il supporto necessario per
provocare le emozioni e l’istruzione di un popolo.
Ma tutto questo è in via di dissolvimento.
La gente ha acquisito un grado di informazione e di formazione che le
permettono di credere nelle proprie capacità.
Le vagheggiate illusioni per migliorare la debole situazione economica
appartengono al passato e non devono più supplire le ansie e le
aspirazioni di un avvenire incerto, passibile di eventi casuali e
lontano dalla dimensione umana. La disperazione rassegnata della
“cultura della miseria” sta subendo un radicale rinnovamento;
il contadino irpino ormai è convinto che essa non è più il
capriccio
del destino ma la diretta conseguenza del comportamento degli
uomini.
La miseria diventa, perciò un fattore umano d’emarginazione che apre
la porta alla rabbia e alla rivendicazione e quindi alla nuova
“cultura della contestazione”.
Possiamo constatare come la cultura tradizionale dispersa in una miriade
di dialetti, che non hanno permesso la trascrizione e la
conservazione del materiale, stia per essere soppiantata.
I nuovi germi, non più contemplazione del mitico e del fantastico,
vogliono diventare la certezza cosciente e l’attuazione delle
strategie
della civiltà moderna e dinamica che costruisce solide strutture
economiche e l’invidiato benessere.
Nel nuovo sacrificio l’Irpinia appare disgregata ma non disposta a
cedere.
Alcune unità lavorative sono partite per garantire con le rimesse una
vita decorosa ai familiari; altre sono rimaste sul posto per
costruire il futuro, attraverso un presente che parla già di scelte
oggettive e democratiche.
La cultura del giusto e del libertario toglie la catena al facile
vittimismo, all’angoscia, alle difese solitarie e alla sfortuna.
La presenza di giovani e di contadini nei partiti e nei sindacati rompe
la naturale sfiducia “dello stato che promette e gabba sicuro”.
30
L’amara
vita, che relegava il contadino alla terra o lo sbatteva qua e là
senza lasciargli niente, oggi rivendica la sua esistenza con un
linguaggio nuovo che parla di rinascita, di lavoro e di crescita
sociale.
È
il linguaggio di speranza, lento, faticoso ma certo. È la lotta
d’emancipazione della gente e della loro terra.
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La lingua
Una
delle caratteristiche dei paesi irpini è la lingua. Zone limitrofe
conservano, anche se non più con la purezza originaria, un dialetto
proprio, con varietà di vocaboli e soprattutto con pronunce
diverse.
Nell’Alta Valle
del Calore, paesi vicini come Nusco, Montella e Bagnoli presentano
differenze notevoli, spiegabili, forse, con l’influenze subite
durante la varie invasioni e gli stanziamenti di razze nella zona.
Il dialetto di Nusco
è caratterizzato dalla presenza insistente della vocale u,
dalla pronuncia della vocale “e” ed “o” molto chiusa
e dalla dentale t
poco marcata, che suona d.
“Nel dialetto di
Bagnoli le parole sono sensibilmente marcate ed in esso si ha
qualcosa che potrebbe far pensare alle vocali lunghe e brevi dei
Romani.
Nel dialetto di
Montella c’è una sovrabbondanza di suoni finali, dra, dro, dri,
pronunziati marcatamente, senza sfumature” (9).
Diversa, invece, è
la situazione in Avellino e nei comuni confinanti, dove prevale il
dialetto napoletano.
In altre zone
dell’Alta Irpinia, il dialetto non differisce molto, conservando
parole ed accenti uguali.
“A S. Angelo, ad
esempio, predomina, come a Guardia, la “d”, mentre a Lioni
la “r” (quiddo-quiro)... Guardia abbonda della lettera “c”,
e fa sentire molto le dentali, che, spesso lascia smorzare sulle
labbra (es. “portedde”). Morra e Rocca hanno pronuncia e
dialetto assai simili a quello di S. Angelo: il che può dirsi anche
di Andretta, di Bisaccia e di Aquilonia. A Conza, a S. Andrea e a
Teora la pronuncia è prevalentemente nasale alquanto cantata;
predomina la “n” e la “t” (lattano, ziano,..):
il che si nota ancora di più a Caposele, dove molte vocali
rimangono in gola” (10).
9)
F. Palatucci, Montella di ieri e di oggi, Laurenziana,
Napoli, 1969, pag. 170.
10) G.
Chiusano, Folklore Altirpino, Di Mauro Editore, Cava dei
Tirreni, 1975, pag. 105.
31
Una visione globale, tuttavia, manca: uno studio filologico e
semantico
sul dialetto irpino non è mai stato intrapreso; una raccolta
organica della tradizione e dei canti non è stata mai concepita o
programmata.
La frammentarietà della ricerca circoscritta a questo o a quel paese
permette, comunque, di avere materiale informativo e linguistico.
L’eredità limitata lascia trasparire, anche qui, l’amara
constatazione
di come il patrimonio linguistico dialettale sia ormai lontano e
in via di estinzione; le ragioni di tanto ostracismo possono essere
ricondotte ad una sola spiegazione: il dialetto, come lingua, ha
subito l’incalzare delle trasformazioni sociali, un processo di
deculturazione che ha favorito “la diffusione di un italiano
subalterno”.
Il registro linguistico è stato abbandonato , soppiantato dalla
scolarizzazione di massa, dai mezzi d’informazione e dai nuovi
rapporti
sociali e di lavoro. La confusione generata ha fatto perdere
nell’uso vivo la specificità, la fonetica, il vocabolario, in
definitiva tutta la storia delle classi dominate.
Nelle campagne, anche nelle più sperdute, si assiste ad un lento ma
progressivo processo di degradazione; i vecchi, depositari della
tradizione contadina, non trasmettono più il loro sapere; i
giovani, d’altro canto, rifiutano quei valori divenuti, ormai,
anacronistici in una società competitiva e completamente
trasformata.
Il dialetto, venendo a mancare l’”ethos” familiare e di classe,
non risponde più alle esigenze sociali di un mondo diverso,
consapevole
ed impegnato.
La nuova cultura ha frantumato la vecchia, assimilandone alcune note
di folklore, soprattutto musicali che, nella logica della presente
struttura sociale, diventano fattori commerciali o meglio oggetti di
consumo.
L’integrazione non è soltanto linguistica ma investe la cultura,
l’economia e i costumi; tale cambiamento è il risultato anzi è
la “linea fondamentale sulla quale attualmente si modula tutta
la politica culturale svolta — con violenza implicita o
macroscopicamente esplicita — delle classi dominanti nel loro
rapportarsi alle classi dominate” (11).
11)
L.M. Lombardi Satriani, Menzogna e verità nella cultura
contadina del Sud, op.cit., pag. 17.
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32
Proverbi, filastrocche, indovinelli
A
regolare i rapporti di convivenza della società contadina, pur con
innovazioni e assimilazioni linguistiche, molte volte vengono citati
proverbi e detti.
La validità di
queste note di colore è tale da risolvere, ancora oggi,
controversie, da determinare scelte, da caratterizzare persone e da
definire particolari momenti della vita.
Questa saggezza in
pillole (da alcuni ritenuta propria dei popoli non progrediti) ne
esprime lo spirito critico, rivelandosi la parte meglio conservata
del patrimonio folklorico irpino.
La continua ed
attenta osservazione fenomenica, l’arguzia bonaria ma sottile,
la capacità di sintesi del reale costituiscono, oltre ogni
approssimazione, l’autobiografia essenziale per conoscere il
sistema di vita rurale.
Nei proverbi —
scrive Di Napoli, memore della lezione gramsciana — è facile
cogliere “oltre i soliti consigli politici e le acute osservazioni
ironiche, talvolta protetti da una raffinata ipocrisia, per la
particolare funzione che essa generalmente svolge nella storia dei
diversi popoli, i caratteri essenziali di una cultura, quella
popolare
profondamente diversa da quella ufficiale, titolare di una visione
del mondo, portatrice di significati esistenziali durevoli e di
valori profondi” (2).
L’episodico, più
volte confrontato, acquista i caratteri e, quindi, i valori
oggettivi e duraturi, divenendo sentenzioso e proverbiale.
L’attenzione non
è frammentaria né settoriale ma si rivolge all’intera sfera del
vissuto.
Ogni momento della
vita ogni controversia non appaiono mai scoperti, potendo essi
cogliere motivi e ragioni su cui adagiarsi.
12) A. Di Napoli, I proverbi dell’Alta
Irpinia, in Civiltà Altirpinia, Anno V. fase. 1-2, 1980 pag. 44.
33
Proverbi religiosi, etici, amorosi, familiari,
agricoli assicurano il supporto esistenziale.
La religione, a volte speranzosa, altre volte
rassegnata, condiziona il carattere e l’ideologia contadina.
L’alternarsi di elementi contraddittori, più
volte fatto segno dagli studiosi come manifestazione di cultura
reazionaria, esprime, invece, l’incertezza della vita e il
continuo tentativo di adattamento.
Una prova dell’instabilità d’animo e della
saggezza che si piega alle varie occasioni può essere assunta da
alcuni proverbi religiosi che, pur nelle diverse articolazioni
linguistiche, riassumono comuni convincimenti e un’identica
esperienza di fede.
L’anema a Dije e la robe a chi regne.
(Conza della C.)
Futti ru panu a casuta e li juorni a Diu.
(Nusco)
Chi a uommini crere paraviso non bere.
(Montella)
Pe chi prateca co la velanza de paraviso non
c’è speranza.
(Lioni)
Re la fatica re la festa, lu riavelo se
veste.
(S. Angelo dei L.)
Ancora più
stridente appare il contrasto nei proverbi etici. La morale non è
un fatto assoluto ma sa trovare nel contingente significati nuovi
e irreprensibili.
La
morale, mancando fattori educativi, rappresenta il codice d’onore
del contadino, lo zibaldone del suo comportamento
I
ripetuti ammonimenti e le conoscenze acquisite lo aiutano a
formarsi il buon senso e a sapere come comportarsi.
Nun ti mangià quand’hai e nun dì
quandu sai.
(Nusco)
Nè case vicino a signuri, né terre vicino
a vadduni.
(Lioni)
Chi vole mangià assaije s’affoche.
(Conza)
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Chi sputa ncielo, nfaccia torna,
(S. Angelo dei L.)
Anima si, anima criri.
(Montella)
Di ampio respiro, sintomatico dell’importanza originaria, si
rivela
il patrimonio dei proverbi riguardante la famiglia.
Meglio nno
marito strippungieddro ca n’amando mberatore.
(Montella)
La miglière è mièzze pane.
(Conza)
La casa non ave pace
quanno la mugliere parla
e lu marito tace.
(Castelfranci)
La fortuna rè le figlie femmene sta
addereto le porte.
(S. Angelo dei L.)
Li
nnammurati songu comu a li piatti unu ni rumpi, cienti n’accatti.
(Nusco)
Tra i riferimenti più frequenti ci sono massime che interessano la
donna che, per le sue scontate posizioni di debolezza e
d’inferiorità, viene presentata sotto molteplici aspetti:
infedele, onesta, fertile, lavoratrice, dedita alla famiglia.
Non
mancano, tuttavia, consigli per l’uomo, per natura votato al
comando e alla direzione della famiglia, per i figli, per le loro
scelte amorose e per le conseguenti delusioni.
Sono
proverbi dall’inconfondibile caratura, dove il bene è una
continua ricerca e il male una ripetuta esecrazione.
Altre
“gemme sparse qua e là nel discorso del volgo” (13) interessano
il mondo del lavoro con rilievi precipui alle previsioni
atmosferiche. Ogni mese ha le sue definizioni che, se
corrispondono, possono
13) A. D’Amato, Vita ed anima del
popolo irpino nei proverbi. Avellino, 1935, pag. 90.
35
favorire
il raccolto o danneggiarlo:
Marzu siccu, massaru riccu ri pecuru no ri
granu.
(Nusco)
Chi sarreca re marzo enghe lo capàzzo.
(Montella)
Quanne marze vole fa, sape chiove e nevecà.
(Conza)
Marzo putazzo... a la vigna toia, no a la mia
(Lioni)
Se marzo ngrogna, tè fa care l’ogne
(Castelfranci)
Cicci pe’ marzo e levene pe’ aprile
(S. Angelo dei L.)
Tutte queste norme di vita, alcune singolari, altre empiriche, altre
didattiche, sono ancora vive tra la gente anziana. Nell’uso
vengono
citate ma con una certa reticenza; le giovani generazioni, invece,
educate alla logica e alla dialettica, rifiutano questo sapere
programmato.
Un’altra
tradizione singolare è quella degli indovinelli; essi venivano
recitati per constatare la prontezza dei riflessi e la capacità di
memorizzazione dei bambini. Nell’uso sono scomparsi.
Tuttavia
la bellezza delle immagini e l’arguzia compositiva testimoniano le
finalità didattiche di un gioco che non era soltanto passatempo.
Vinde vendine de gatte, quatte piede a gatte,
cinqe ogne a pède, fàtte lu cunde quande véne.
(Conza)
Porta la sella e nonn’è ciuccio, Tene rè
come e nonn’è bacca;
36
Pitte re mure e nonn’è pittore:
addivina si si dottore (14).
(Montella)
Lu patru è ri lu
voscu,
la mamma è cuscistorta,
la figlia è facci tonna
e bbenu miu l’avessa a r’ogna.
(Nusco)
Identica sorte è toccata alle filastrocche.
Usate
nei giochi dei bambini, o per farli addormentare o come
scioglilingua, non hanno resistito ai nuovi tempi.
Per
avere un saggio della bellezza ritmica e linguistica, ne riportiamo
qualcuna:
Unu, rui e tré
lu Papa nunn’è rè,
lu rè nunn’è papa;
la vespa nunn’è apa,
l’apa nunn’è vespa,
lu suoruvu nunn’è
niespulu
lu niespulu nunn’è suoruvu
la senga nunn’è purtusu
lu
purtusu nunn’è senga
la trotta nunn’è arenga;
l’arenga nunn’è trotta,
ru casu nunn’è ricotta
la ricotta nunn’è
casu,
mastu Nicola nunn’è mastu Biasu,
mastu Biasu nunn’è
mastu Nicola (15).
(Nusco)
14)
L’indovinello è tratto da: S. Bonavitacola/M. D’Agostino, Lo
ritto re l’antici non fallisce mai, Eliotipografia dei fiori,
Montella. 1982, pag. 69.
15) S. Di
Mita, Le tradizioni popolari di Nusco, (tesi di laurea) anno
acc. 67-68, Università di Messina, pag. 120
37
Michele, Michele
piglia la gatta pe lo pere,
lo sorgu abballa abballa
e Michele pe la chitarra.
Chitarra e biulino,
Michele pe la gaddina,
gaddina e gadduccio
e Michele stampo re ciuccio.
(Montella)
Maruca cacciacorne
màmmete tè scorne
tè scorne a lu muline
cacce pòvele e farine.
Farina macenàte
lu prèute è malate
appicciame re cannèle
e gghiàmel’a bbedè.
(Conza)
Dobbiamo
constatare, con la pena nel cuore, che la finzione e i falsi impegni
hanno tradito il recupero della tradizione, tante volte invocato ma,
mai, seriamente seguito. Scompare, per irresponsabilità e
faciloneria, la matrice culturale di un’intera civiltà, senza
rimpianti e senza troppe emozioni.
Un triste destino
accompagna la civiltà rurale, ieri emarginata, oggi rifiutata e
dimenticata dai suoi stessi portatori.
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38
I canti
I
malinconici rilievi del processo di degradazione della tradizione
hanno qualche nota di conforto e di speranza.
Per una fortunata
coincidenza è sopravvenuta, qualche anno fa in Italia, la moda, di
stampo prettamente consumistico, del “folk music revival”.
Ad alcune ricerche
improvvisate, non prive di sospetto, hanno fatto riscontro talune,
vedi la N.C.C.P., che hanno saputo interessarsi al folklore irpino.
Poche le iniziative serie!
La vastità del
materiale, poi, non permette ancora una raccolta definitiva e
selezionata (16), tant’è che Chiusano afferma con amarezza:
“Tuttora un’organica storia della poesia popolare dell’Irpinia,
Alta e Bassa, non esiste” (17).
Dalla dispersione e
dalla complessità della materia, bisogna, comunque, trarre gli
elementi necessari per approfondirne l’importanza, i motivi
ispiratori, i significati nascosti, i ritmi musicali, i metri delle
canzoni.
La forma dei canti
risente degli argomenti e dei sentimenti espressi.
In quelli
santangiolesi sono “usati l’ottonario e il quinario, ma non
sempre, nelle narrazioni di miracoli.
Nelle ninne nanne è
preferito il quinario doppio.
Molte libertà di
sillabe e di ritmo è per altri argomenti” (18).
Nei canti di lavoro,
ad esempio, fa riscontro il verso sciolto, a dimostrazione della
semplicità e della immediatezza delle immagini.
16) Tra le
raccolte, più recenti, dei canti popolari vanno ricordate quelle di
: Stefano Di Mita e Nino luliano di Nusco, Fedele Giorgio di Conza,
Roccopietro Colantuono di Lioni, Giuseppe Chiusano di S. Angelo,
Ferdinando Palatucci di Montella
17) G.
Chiusano, Folklore Altirpino, op. cit., pag. 12.
18) Ivi.
39
Anche
l’impostazione e le parole dei vari paesi sono diverse, proprie di
esperienze culturali e lavorative dissimili.
Cale, cale sole
ch’agge avute male patrone:
m’have date poche pane,
cale sole me face fame.
E lu sole m’ha ddate n’azzìnne:
m’ha dditte vattìnne, m’ha dditte vattinne.
E lu sole m’ha zzennijate:
m’ha dditte vattìnne ca so calate.
(Conza)
Ara, gualano mio, ara gualano
si vuoi che puorti nnanti su diuni:
l’aratro è r’oro, e lu iugo è r’argiento
le curriele so rè filo a dante:
sempe a lo coricchio tiene mente,
bella, ca l’uocchi tui so diamanti.
Chi vole sta a lu munno pe gorè
avria chi t’ha amato e tienelo ncore.
(S. Angelo dei L.)
Nei
canti lirici lo strambotto è la forma più immediata e trova
massimo uso nel rispetto, che ha come verso privilegiato l’endecasillabo
e a volte il decasillabo; quest’ultimo “non ha varietà d’armonia
e riesce monotono e malinconico”.
Vengono usati anche
versi più brevi che suppliscono la mancanza di sillabe con
l’allungamento delle note del canto e della musica.
Il ritmo sciolto
conferisce una libertà espressiva, una spontaneità che riesce a
tenere l’armonia pur nel verso irregolare (19).
Il motivo poetico, scrive Barbi, si condensa “nel
quadernario a rime
alternate per poi ribattere, nelle
19) S.
Di Mita, Le tradizioni popolari di Nusco, op. cit.,
pag. 41.
40
riprese
sul particolare che più
importa; oppure accennare nelle prime a circostanze esteriori, per
manifestare poi il sentimento vero nella seconda”(20).
Miezzu a sta via ngi sta na rundinella,
tutta si presta cu la billezza,
la mamma vaci rucennu; Figlia, figlia,
stu bellu guaglionu ti l’è a piglia.
Spingulu r’oru e acu r’argientu,
quistu è lu ninnillu tua che t’ama tantu:
guarda ca nu li rai nu trarimientu,
ca nu l’avissa cangia cu n’atu amantu.
(Nusco)
Nel santangiolese, invece, “per quelli d’amore e di odio è usata
l’ottava con rime alterne, o con le ultime quattro, o due baciate;
talvolta l’assonanza sostituisce la rima” (2).
Facce rè na serpe rè cannito
quanno cammini cuoteli la capo,
tè fai cuntenè co su vesito
na cascia rotta e nu lietto sfunnato.
Facce rè crapa selvaggia
si ghiuta a nasce e la metà re Foggia
cumme a nu cane m’è mossa la raggia
tutti li malandrini a caseta alloggene.
(S. Angelo dei L.)
Nei canti di sdegno di Conza, ma lo
troviamo pure in altri paesi, prevale come forma metrica il
tetrastico, e come verso il decasillabo oppure versi più brevi:
Figliole ohi figliole
nun té métte a ccère a ssole:
si te face la faccia neure
ppò nisciune cchiù tè vòle
20) M. Barbi, La
poesia popolare italiana, Firenze, 1939, pag. 97.
21) G.
Chiusano, Folklore Altirpino, op. cit., pag.12.
41
Chiove e méne lu vénde
e sse dufreschene rè llenzòle:
la mamme vaje chiangènne
ca la fjglie dorme sole.
Tu chj tiène la dote
mittatille a la callare:
cu ssa facce de mascijare
probbje a mme vuoje ammagà.
I
nuovi tipi di rapporti, che regolano la nostra società, hanno reso
meno problematico l’avvicinamento e la “conquista” della donna.
Le serenate e le
canzoni non servono più per far conoscere i propri sentimenti. La
stessa libertà comportamentale, avendo superato certi tabù, non fa
più sospirare né desiderare il sorriso malizioso, ma sa trovare
altri argomenti più intimi.
Cambiati i costumi e
le abitudini, le pene d’amore, le speranze riposte e l’alterno
sentimento fanno solo sorridere. La canzone, che seguiva il ritmo del
cuore angosciato o allegro, resta alla mercé del mercato
discografico, che ne ha fatto un prodotto di consumo.
Non abbiamo tracce di
canti di ribellione, a dimostrazione della mancanza di lotta
contadina e di classe. Contemporaneamente in zone analoghe, vedi il
Cilento, non diverso per problemi e realtà rurale, il canto di
protesta rappresenta più pagine della cultura e dell’anima
popolare.
La condizione
subiettiva irpina, invece, vista sempre come un assurdo destino, non
trova sfogo nel canto.
I bisogni del
riscatto, mai sopiti, sono contenuti nel silenzio, nell’attesa di
momenti più felici, per esplodere nella rivendicazione.
Ma la protesta è stata poca cosa ed è venuta tardi.
[
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42
Teatro
e feste popolari
L’isolamento
e la monotona e snervante vita dei campi non hanno mai distolto la
famiglia contadina dal favorire e dall’accrescere i momenti
associativi.
L’uccisione di un maiale costituiva, ma lo è tutt’oggi,
l’occasione per scambiarsi le visite, le opinioni, per avvicinare
le famiglie e per rinsaldare i vincoli di amicizia, di parentela e
di vicinato.
La stessa uccisione viene fatta oggi secondo antiche disposizioni di
tecnica e di tempo.
Ogni famiglia, anche la più povera, non rinuncia a questo rituale;
anche se tanta presenza comporta l’acquisto di roba, il sacrificio
della spesa è un fatto obbligato a cui non si può contravvenire.
Una volta quest’incontro veniva concluso con una festa danzante;
durante il suo svolgimento si creavano fidanzamenti, si
programmavano matrimoni; in sintesi si assicuravano i legami di
continuità della famiglia. Ben altra risonanza, e con un
cerimoniale non completamente scomparso, offrono i grossi
appuntamenti di massa: le feste religiose e il carnevale.
Le prime, in una mistione di sacro e profano, costituivano l’unica
occasione per vendere alla fiera le bestie e i prodotti agricoli e
per fare le provviste (abbigliamento, utensili) bastevoli per
l’intero anno. (La fiera era un’istituzione in uso già al tempo
dei Comuni).
All’aspetto civile rappresentato da scambi economici e rallegrato
dalle luminarie e dai mortaretti, pagati con il contributo di tutti
(collette), si affiancava l’aspetto religioso.
La gente povera ma devota sfilava scalza, portando in processione le
offerte: grosse candele di cera con penne colorate, portate dai vari
pellegrinaggi, e i “muzzetti” (misure di grano, abbellite con
nastri e figure del Santo).
A Nusco, in Alta Irpinia, durante la festa di S. Amato venivano
portate in Chiesa le pecore della Masseria Armentizia, in precedenza
ammaestrate.
43
Appena
compariva il vessillo raffigurante il Santo, tutte le pecore
s’inginocchiavano (22).
Della tradizione non è rimasta traccia.
Di altre, invece, anche se i nuovi tempi dimostrano una concezione
della fede più intima e meno penitente, conserviamo un rituale
religioso-folkloristico, in parte ripreso negli ultimi anni.
Molti paesi, come dimostra la singolare pubblicazione curata da P.
Grasso e P. Russoniello, corredata da notizie storico-critiche e da
fotografie, rivivono aspetti della loro tradizione (23).
Ne riportiamo i più significativi:
A Flumeri, il 16 agosto, si festeggia il giglio di S. Rocco. Due
sono le note caratteristiche: il giglio, un gigantesco obelisco, di
origine pagana, montato su cinque piani di forma quadrangolare, che
vanno restringendosi verso l’alto, e tutto rivestito di spighe; il
manto del Santo ricoperto d’oro.
A Mugnano e ad Altavilla, durante le rispettive feste di S.
Pellegrino e Santa Filomena, i battenti sfilano in processione per
vari chilometri con sbandieramenti, danze frenetiche, pianti ed implorazioni.
In ricordo di un’apparizione della Madonna, Castelvetere organizza
la festa del pane miracoloso. Tutta la gente fa a gara per offrire
il grano, da cui, poi, verranno fatte le ciambelle, offerte il 28
aprile giorno della Madonna.
Alcune ragazze, sotto i 12 anni, tutte vestite d’oro e
accompagnate da padrini con nodosi bastoni, dispensano, secondo il
desiderio della Madonna, il pane miracoloso.
A Lapio, invece, si solennizza il Venerdì Santo.
Ventidue tavolate, gruppi plastici in cartapesta, raffiguranti la
passione, vengono portate in processione. Uno stuolo di bambine,
vestite di nero, (le addoloratine) segue Gesù morto.
S. Mango ricorda la festa di S. Anna.
I giovani sanmanghesi fanno una lunga cavalcata fino al fiume Calore
e di qua alla chiesetta di campagna dedicata alla Santa. Vogliono
ricordare il gesto di un lontano cavaliere venuto in quel posto per
il voto di una grazia ricevuta.
22)
G. Passaro, Verso il IX Centenario della morte di S. Amato,
Tipografia Napoletana, 1973.
23)
P. Grasso / P. Russoniello, Fede e folklore in Irpinia, De
Mauro Editore, Cava dei Tirreni, 1979.
44
Prata
P.U. festeggia l’Annunziata.
Due fanciulle, sospese in alto, e in abbigliamento angelico salutano
la Madonna e rievocano la rappresentazione dell’Annunciazione.
A Mirabella si ricorda la tradizione del carro.
L’obelisco, poggiato su un carro, e rivestito con pannelli
intessuti di paglia lavorata a mano, che danno archi, capitelli,
figure di frutti, è formato da sette piani che si assottigliano
verso l’alto. Il carro viene tirato con le funi da varie centinaia
di persone.
Montella solennizza la festa della SS. Trinità. In quella sola
occasione tutte e 12 le congreghe partecipano insieme a una
manifestazione religiosa. Vogliono ricordare una provvidenziale
pioggia, che, da una temuta carestia, procurò un abbondante
raccolto.
Una tradizione, che ha subito grossi colpi distruttivi, pur con
sensibili segni di cambiamento, resta quella del carnevale.
Una volta disdegnata perché popolare, volgare e letteralmente
legata alla terra, oggi accomuna tutti senza distinzione.
In origine essa iniziava il 17 gennaio, festività di S. Antonio
Abate. La conferma ci viene assicurata da un vecchio detto:
S.
Anduonu mascharu e suonu
ed ancora:
Chj
buone Carnevale vóle fa,
da Sand’Anduone hadda accumenzà
(Conza
e Morra de Sanctis)
Tutt’oggi
il popolo collega l’inizio del divertimento e della festa con
questa ricorrenza.
Le maschere, in prima uscita, danzano vicino a grossi falò accesi
in onore del Santo, i cui carboni, fino a qualche anno fa, venivano
portati in ogni casa e conservati, secondo la tradizione, per
scongiurare i temporali. Intorno ai falò la gente ama incontrarsi
per socializzare e consumare castagne, patate e vino.
Sui falò sono interessanti due teorie interpretative del Foschi:
“l’una vede nei falò la sopravvivenza di un culto del fuoco
(del sole secondo una teoria affine); l’altra vi riconosce
soltanto il valore magico profilattico, sul principio che il fuoco
purifica tutto e quindi elimina ciò che è cattivo, e non lascia
sussistere se non ciò che è puro e santo” (24).
24)
P. Toschi, II folklore, Roma, II Edizione, 1960, pag. 71.
45
La
festa vera e propria, che ha risonanza in ogni contrada, è il
martedì di carnevale e la domenica successiva.
Maschere e fantocci presidiano le piazze; frenetici balli,
accompagnati da urla, invitano alla danza.
Scomparse le maschere dell’orso e del diavolo, simboli propri
della società agreste, troviamo accanto a maschere tradizionali
(Pulcinella, la zingara, la donna procace) altre di recente
assimilazione, caratterizzanti tipi e costumi del nostro tempo.
Ma il Carnevale ha profondi significati da spiegare; ovunque ha
rappresentato il cerimoniale del mondo alla rovescia in cui
“l’alto viene ricondotto al basso” e quindi alla morte, per
ricominciare nuovi cicli.
In questo divenire ed alternarsi di vita e di morte ci sono altre
ragioni che codificano il carnevale irpino. Tra le considerazioni
emerse, infatti, non si era “riflettuto sul fatto che, in
Campania, questo ciclico e provvisorio rovesciamento d’ogni
codice, questo “abbassamento” materialistico d’ogni sublimità
coincidono con la sostanza tellurica e infera della cultura popolare
meridionale” (25).
Certe maschere e certi movimenti esprimevano, quindi, una cultura
sommersa e diabolica.
Della vecchia tradizione non sappiamo molto.
La presente, invece, nell’entroterra irpino non si discosta molto
da un paese all’altro: balli processionali accompagnati dal suono
della fisarmonica, del clarinetto, del tamburello e delle
“castagnole”.
A Gesualdo e a Castelvetere, oltre alla sfilata delle maschere, c’è
quella dei carri allegorici.
A Piazza di Pandola, invece della tarantella, si danza il “ballo
in trezzo”.
Nelle zone limitrofi di Avellino (Bellizzi, S. Potito, Cesinali) la
festa del Carnevale è espressa dalle Zeze. L’azione è retta da
quattro personaggi: Pulcinella, sua moglie Zeza, la loro figlia
Vincenzella e Don Nicola pretendente di Vincenzella.
“Azione puramente rituale, la canzone di Zeza, rappresenta la
figura di un anno, padre ormai morente il quale cede a rassicurare
con un nuovo matrimonio sulla continuità di un ciclo naturale e
rigenerativo. La figura di Pulcinella padre, infatti, conserva tutti
i caratteri del tradizionale maschio patriarcale prevalentemente
geloso
ed inconsciamente amante della figlia, mentre Zeza, emblema della
madre fallica
25)
A. Rossi / R. De Simone, Carnevale si chiamava Vincenzo, De
Luca Editore, Roma, 1977, pag. XV.
46
e cioè di un matriarcato tuttora esistente in
Campania, risolve il dramma contribuendo alla castrazione del
marito” (26).
Agli innegabili aspetti culturali fanno riscontro i bisogni
economici, singoli e collettivi, auspicanti un mutamento sociale in
questa direzione: il travestimento maschile e l’uso di abiti
borghesi nelle Zeze (desiderio di cambiare la propria posizione
socio-economica).
Il movimento scenico nelle Zeze e soprattutto il ballo nelle
tarantelle risentono di gesti naturali, derivanti dal lavoro
quotidiano, magici, sacrali e di imitazione degli animali.
Le componenti possono essere così sintetizzate: componenti di
protezione, d’angoscia, di liberazione, di morte e di sesso.
“Nelle danze popolari, l’oscillazione o dondolio ugualmente
riveste i molteplici esposti. Tale gesto esprime un istinto
biologico (desiderio di muoversi, desiderio della culla, della
madre, desiderio sessuale), si ricollega a stati angosciosi
dell’individuo ed esprime in ultima analisi col suo significato
comunemente una affermazione o una negazione. Ritmica-sessuale la
relazione e la comunicazione col mondo dei morti” (27).
In alcune zone (Nusco, Ponteromito, Lioni), durante la sfilata, si
procede alla questua; vengono raccolte offerte in denaro o in
natura.
“Affacciativi
signurinu
ca
vogli nu capu ri sasicchiu
e
si nun mi lu vuliti rà
ca
vi pozza nfraciutà,”
Una
volta alla richiesta di Pulcinella la gente dava salsicce, formaggio
e vino.
A Montefusco, invece, vengono recitati, davanti alle case dei
giovani sposi, i cosiddetti ‘“ngiarmi”, componimenti a rime
baciate.
Le maschere di Solofra si distinguono per il travestimento e
sono chiamate “zingarelle”.
26)
A. Rossi / R. De Simone, op. cit., pp. 101-102.
27)
A. Rossi / De Simone, op. cit., pag. 24.
47
A
Grottolella, Capriglia e Summonte è consuetudine che i giovani si
mascherino e si presentino davanti alle case degli amici (28). A
Morra de Sanctis, si rappresenta la tragicommedia “Cecilia”.
Il Carnevale con la sua diversa sopravvivenza dà nuovi impulsi alla
vita, alle sue difficoltà, e permette la continuità della “festa
dei poveri”, riproponendo, anche se con minore intensità, i suoi
significati di “esorcizzazione del negativo, del grottesco, del
ridicolo, della festa come liberazione”.
L’ultimo atto è il processo e la morte di Carnevale. Con la
lettura del testamento gli si fanno fare e dire le cose più
impensate.
In alcuni paesi irpini la tradizione è ancora viva (Montemarano,
Nusco, S. Potito); a Montella è sopravvissuta fino a pochi anni fa:
era l’occasione perché alcune maschere, travestite da personaggi
ed animali, apprezzabili opere di artigiani locali, denunciassero le
magagne dei cittadini.
Il testamento è costituito da componenti satirici che hanno il
manifesto intento di far conoscere le malefatte e le beghe della
vita paesana.
“Coloro che sono colpiti sopportano la rivelazione di esse che,
fuor di quel momento, non tollererebbero in alcun modo. Tutto ciò
risponde a quella mentalità a cui si ispira la confessione
collettiva dei peccati ben nota a chi si occupa di Storia delle
Religioni, e il cui scopo mira ad espellere, con la confessione, il
male-peccato, in modo che la collettività possa muovere pura e sana
verso il nuovo anno” (29).
28 C. Piscopo, Saggi di
Storia delle tradizioni popolari (Due studi di folklore irpino),
op. cit.
29) P. Toschi, Il folklore,
op. cit., pag. 70.
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48
Superstizione
e religione
I
momenti diversi e contrastanti della superstizione e della religione
contadina non si prestano ad essere ben definiti.
La
continuità, l’integrazione e la confusione dei due aspetti
producono un gioco di parole: religione superstiziosa o
superstizione
religiosa?
Il
mondo contadino, pervaso da oscure forze del male e restio alle
innovazioni, non ha mai rinunciato alle vecchie divinità e a certe
pratiche; ha fuso, abilmente, in un sincretismo religioso, la
vecchia
cultura pagana con la religione cristiana.
Ma
la convivenza lascia spazio al contrasto dei “due punti di vista
che si contendono reciprocamente il campo: la fede in un potere
divino, non contaminato dalla vita quotidiana, e una concezione
magica, espressa da una miriade di santi e superstizioni, in cui il
cosmo è stato ridotto, com’era in origine, a proporzioni umane
e reso operante nelle minute difficoltà di ogni giorno...” (30).
Pur
seguendo le pratiche liturgiche cristiane, il contadino non rinuncia
a quelle magiche e sciamaniche, in cui non trascura invocazioni a
Dio, alla Madonna a ai Santi.
Tale
ampliamento dell’orizzonte religioso gli garantisce la presenza
di Dio e gli evita il conflitto della situazione peccaminosa.
La
stessa richiesta di grazia, generalmente rivolta ai Santi (con i
quali esiste un rapporto di familiarità e di solidarietà), se
soddisfatta, viene ripagata con ex voto o con doni in denaro.
Da
questo convincimento derivano i continui pellegrinaggi nei
santuari.
La
devozione, senza ignorare l’evasione, coinvolge soprattutto la
donna-madre “che ha ragioni culturali profonde di tenere in vita
un legame con la devozione, quale si concreta nel voto del
pellegrinaggio:
e che per ciò stesso tende a mantenere, presso il
marito e i figli, saldo il prestigio della
devozione e delle
30)
F.G. Friedmann, in G.A. Marselli, La civiltà contadina e la
trasformazione delle campagne, op. cit., pag. 129.
49
condizioni di culto che
vi sono collegate” (31).
La
richiesta di protezione serve a ridurre la minaccia dell’ignoto
e del negativo.
Questa
cultura religiosa, testimoniata in prevalenza da donne avanzate
negli anni, rivela i caratteri propri della miseria, di una
deficienza psicologica e non quelli di “una dimostrata affinità
dei processi socio-culturali di emarginazione”.
La
religione popolare è una proiezione della cultura della povertà
e dell’emarginazione; queste condizioni sono conseguenza dei
mancati processi socio-culturali da cui dipendono i comportamenti,
i consumi e la solidarietà.
Secondo
De Martino “l’equazione religiosità popolare povertà
s’articola in due diverse direzioni, una esistenziale e una
storica” (32).
Nella
prima la religione soddisfa, simbolicamente, i bisogni legati
all’esistenza; nella seconda, non potendo incidere nel presente,
si rifugia nel passato e nel futuro come “generica forma di
coscienza-conoscenza umana”.
L’impossibilità
e l’incapacità di raggiungere risultati positivi e di crescita
difendono, perciò, l’esercizio della sua vita religiosa.
Il
contadino invoca la mediazione, per ridurre gli eventuali malefici;
si accontenta di non subire il male e poco gli importa di affrontare
processi evolutivi o di cambiamento.
L’opportunismo
rinunciatario e la fiducia nella protezione mediata fanno capire
le sue virtù che non sono “cristiane, ma le virtù naturali di un
popolo realistico che vive entro i confini sociali e cosmici della
“miseria” (33).
Tutta
la sua vita è avvolta dalla paura e dal mistero: persino la morte e
le sofferenze sono conseguenze della miseria.
In
questa visione del quotidiano, sempre prossimo all’apocalittico,
l’imprevisto e il malefico possono provocare danni irreparabili
e mettere in crisi la pace e la fortuna familiare.
La
morte, ad esempio, costituisce la nota negativa maggiore; essa
rompe ogni equilibrio, provoca eccessi di dolore e crea un rituale
di pianto e di lamenti con cui si celebrano le memorie e gli affetti
del defunto.
31)
G. Giarrizzo, Mezzogiorno e civiltà contadina, in Campagna e
movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia, De Donato Ed. vol.
II, 1979, pag. 328.
32)
E. De Martino, in G. Giarrizzo, op. cit., pag. 338. 33; F.G.
Friedmann, in G.A. Marselli, op. cit., pag. 128.
50
Tale
lamento è un’altra proiezione della miseria: si piangono e si
cantano, nello stesso tempo, le lodi ovvero le gesta epiche dei
morti per evitare il loro ritorno — secondo De Martino — come
una “rappresentazione ossessiva o come immagine allucinatoria”.
La
popolazione contadina sospettosa, impaurita, credulona, ammaliata
dagli stati di possessione, affida le sue paure e le sue difficoltà
alla magia.
“Il
culto dei santi e dei defunti, il suo Cristo eternamente
agonizzante,
la sua ossessione dello sguardo malefico e delle fatture, le sue
dimestichezze con i monacelli e le tarantole, la sua vertigine degli
oracoli, dei Sogni e della Sorte” (34), sopravvivono ancora in
Irpinia, ma si avvertono ovunque segni di erosione e di poca
consistenza.
Le
invocazioni propiziatorie, che servivano per piantare un albero e
per far covare le uova dalla chioccia, sono state soppiantate.
Restano,
invece, nell’uso e con rinnovata credibilità alcune tradizioni:
il maiale non va ammazzato nello stesso giorno della settimana in
cui capita, in quell’anno, la festa di S. Sebastiano; neppure i
salami possono essere confezionati in quel giorno; identico
comportamento
viene mantenuto per la preparazione delle salse, per
l’imbottigliamento del vino e per la conservazione degli ortaggi.
Fa
pure meraviglia l’importanza riconosciuta al sogno: tuttora
esercita una funzione di predizione e di ammonimento. Anche se il
condizionamento non viene riconosciuto apertamente, esso può
determinare
l’agire: anticipa o ritarda i tempi di esecuzione di una faccenda,
assicura o distoglie da un investimento, avvalora o rinnega scelte
o decisione da adottare.
Una
considerazione a parte va fatta per i sogni che interessano le
apparizioni dei morti. Tale specificità assicura, nel quotidiano,
la presenza del defunto, che chiede suffragi o parla dell’aldilà;
ne derivano giudizi e consigli, in una comunione extrasensoriale,
che fa tenere, nella giusta considerazione e con la dovuta
apprensione, la figura del trapassato.
Il
sogno conserva le virtù proprie del presagio, non tutte
riconducibili a convinzioni di suggestione e di magia, se si pensa
quale considerazione gode, in psicologia, il pensiero onirico.
Nonostante
queste resistenze, il mondo civile continua, imperterrito, la sua
azione demolitrice.
34)
Ivos Margoni, in A. Rossi / R De Simone Carnevale si chiamava
Vincenzo. op. cit., pag. XIV.
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51
Magia
e credenze*
L’alternativa
fra “magia” (1) e “razionalità”, scriveva un ventennio fa
il De Martino, “è uno dei grandi temi da cui è nata la civiltà
moderna” (2). L’affermazione aveva ed ha un suo innegabile fondo
di verità. La storia dell’umanità, infatti, è stata
caratterizzata da tutta una serie di compresenze di manifestazioni
“irrazionali” e “razionali” che col passare degli anni,
consolidandosi, si sono trasformate in pratiche, credenze,
usanze, conquistandosi, in tal modo, un loro spazio di
credibilità.
La
lotta tra questi due mondi, quello fondato sulla “magia” e
quello fondato sulla “razionalità”, non venne sempre esercitata
con rigore scientifico.
Nel
Mezzogiorno, in particolar modo, la partecipazione della cultura
“alta” alla polemica antimagica conobbe aspetti positivi solo
quando la “polemica antimagica entrò nella sua forma più
pertinente
di alternativa fra magia e razionalità, fra esorcismo ed
esperimento,
fra incantesimo e scienza riformatrice” (3).
In
questi ultimi anni il dibattito ha assunto toni completamente
diversi. Lo sviluppo economico e il contemporaneo risanamento
dei dislivelli sociali preesistenti hanno fortemente condizionato
l'esercizio
*
II paragrafo “Magia e credenze è, nella sua integrità,
uno studio di Alessandro Di Napoli.
1)
Per una corretta definizione del termine “magia”, che in
questo nostro lavoro noi usiamo nel suo significato più estensivo,
si consiglia la seguente bibliografia: E.B. Tylor, Primitive
Culture, New York, 1871; J.G. Frazer, The Golden Bough, London,
1922 (trad. it. Il
Ramo d’oro, Torino, 1965); B. Malinowski, Argonauts of
the Western Pacific: Native Enterprise and Adventure in Melanesion
New Guinea, London, 1922; IDEM, Magic, Science and Religion
and Other Essays Glencoe, Illinois, (trad. it.. Magia,
scienza e religione. Roma,
1976); E. Durkheim, Les formes elementaires de la vie religiouse,
Paris, 1912, (trad. it., Le forme elementari della vita
religiosa. Roma, 1973); L.
Lèvy-BruhI, La Mentalità primitiva, Torino, 1966); M. Mauss,
Teoria generale della magia, Roma, 1975; E. De Martino, il
mondo magico, Torino, 1948; E. De Martino, Sud e magia,
Milano, 1959.
2)
Cfr., E. De Martino, Sud e magia, op. cit.
3)
E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 9.
52
delle più diffuse pratiche magico-rituali, facendo, di pari passo,
regredire l’uso di tecniche ad esse direttamente collegate,
perché
ritenute storicamente superate.
I
documenti in nostro possesso, e le continue osservazioni sul
territorio dimostrano che l’uso di tali tecniche è del tutto
scomparso o, se praticato, esso è limitato a situazioni precarie
di tipo molto particolare.
In
questo lavoro, oltre ad una esplorazione di alcune tra le più
diffuse sopravvivenze irpine, tenteremo di determinare la
struttura delle tecniche magiche, la loro funzione psicologica, il
regime di esistenza che ne favorisce lo sviluppo e la scomparsa.
Infine, tenteremo di scoprire le ragioni che hanno,
definitivamente, messo in crisi la credibilità di gran parte di
alcuni cerimoniali che, un tempo, dominavano la vita delle piccole
e indifese comunità agricole della provincia di Avellino.
[
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Il malocchio
Uno
dei temi fondamentali della bassa magia cerimoniale irpina, ma
praticato con altre denominazioni in tutto il Mezzogiorno (4), è la
fascinazione (in dialetto: maluocchio). “Con questo termine si
indica una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al
tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza
altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine
l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di
scelta” (5).
In
provincia di Avellino il trattamento della fascinatura si
fonda
sulla esecuzione di un particolare cerimoniale da parte di operatori
non necessariamente specializzati (6).
Ad
Andretta, secondo l’usanza ancora diffusa, soprattutto tra la
popolazione rurale, una vecchia si pone il bambino, che si
sospetta
sia stato preso dal malocchio, sulle ginocchia,
gli fa il
segno della croce sulla
4)
E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pp. 13-65; Cfr.
E De Martino, Morte e Pianto Rituale nel Mondo Antico,
Torino, 1958.
5)
E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 13.
6)
In Lucania si richiede la partecipazione di operatori
specializzati (Cfr. E. De Martino, Sud e magia, op. cit.,
pag. 13 e sgg.). In Alta Irpinia, invece, la pratica del malocchio
può essere realizzata da chiunque e con la stessa efficacia.
53
fronte, sul petto e sulla pancia e ripete per tre volte il
seguente
scongiuro:
Dui
occhi ci tengo in fede,
quattro
me ne salvo occhi passandoli core crescendo; In nome del Padre, del
Figliuolo e dello Spirito Santo. Schiattano i mal’uocchi e
crescono buon’occhi (7).
Ma
la pratica più diffusa, per eliminare il malocchio, è la seguente:
Due
occhi ti offendono (8),
tre
ti difendono,
il
Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Due
occhi t’hanno visto,
tre
t’hanno flagellato
e
lo Spirito Santo t’ha liberato (9).
Subito
dopo aver pronunciato la formula si fanno una infinità di croci,
alle tempie e sulla fronte, alla persona sottoposta alla pratica.
A
Monteverde, invece, per evitare di essere colpiti dal malocchio si
portano addosso alcuni oggetti (forbici, corno, ecc.) e si ripete
la seguente formula:
Uocc
t’hann affascinat,
Sant l’hann aiutai Angil sant da li cielo
calast,
Panne e ngiens tu purtast,
Lu purtast appi la via
Leva
‘st’affascu ra cimma a ‘sta criatura mia (10).
7)
Cfr. A. D’Amato, Nuovo contributo al folklore irpino,
Catania, 1933.
8) Variante del melfese:
Doi
uocchi t’hanno aducchiato
e tre sand t’hanno aita;
A
nnome d lu Patr
d
lu Figli e d lu Spird sant,
non
t’aiutu come a figli miei
ma
coma a figli d Marei.
Scatta
maluocchie
e
crisci bonucchie.
Cfr.,
R. Nigro, Tradizioni e canti popolari lucani: il Melfese,
Bari, 1976.
9) Cfr., A. D’Amato, Nuovo contributo al folklore
irpino, op. cit., pag. 10.
10)
Cfr. A. D’Amato, ivi, pag. 13.
54
A
S. Andrea di Conza si spargono sul fuoco incenso, foglie secche di
ulivo e sale e, mentre il bambino viene mantenuto sul fumo, la
fattucchiera dice quando segue:
Duie
uocchie t’affennono, tre te salvano,
Lo Padre, lo Figliuolo, lo Spirito Santo,
Scattate maluocci tutti quanti (11).
L’ideologia
della fascinazione, come già si è cercato di mettere in evidenza,
costituisce il tema dominante della bassa magia cerimoniale irpina,
in quanto le altre forme di magia sono in stretta connessione
psicologica con l’esperienza di dominazione su cui poggia la
fascinazione. Per quanto riguarda la fascinazione magica della
malattia è da notare che, in provincia di Avellino, le
testimonianze sono abbastanza rare. Generalmente, i ragazzi colpiti
da malore si incensano. Il rituale, in questa occasione, è molto
semplice: sul fuoco del braciere o del caminetto si versa
dell’incenso e, mentre questo brucia, si prende il ragazzo, per
le braccia, e lo si agita a modo di croce. Contemporaneamente, la
madre si esprime con un apposito scongiuro:
Mamma
t’incensa
dalla capo allo pere
e chi ti ha fatto ro male
ti face ro bene (12).
Per
allontanare, invece, il mal di pancia si formula il seguente
scongiuro:
Santo
Pietro venia ra Roma, (13)
in casa re ‘na ronna fu alloggiato;
11)
A. D’Amato, Nuovo contributo al folklore irpino, op. cit.,
pag. 13.
12)
A. D’Amato, ivi, pag. 10. 33) Variante di Ferrandina:
S.
Pietro da Roma venia
Chiaggendo
e lacrimando scia.
Acchiò
o maestro pè via:
—
Ce jè Pietre ca vai chiaggendo?
—
Stà zitte maestro mio,
tengo
la rugna e la capa pennata
e
da tutti sò schifate,
—Piagghia
nu poco d’uogghio
e
nu poco de pisciate
e
la tigna t’è sanate!
Cfr.
R. Nigro, Tradizioni e canti popolari lucani,
op. cit.
55
piglia
nfossa e ossa sporpate,
male re ventre te sia passato (14).
Subito
dopo lo scongiuro si fanno tre croci sulla pancia del paziente.
In
Irpinia la possibilità di fascinare e di essere fascinato trova un
terreno particolarmente fertile nella vita amorosa: solo che, mentre
gli scongiuri contro il malocchio e l’invidia dei parenti, degli
amici e dei vicini tentano di istituire una difesa dell’energia
maligna
che insidia le persone, gli incantesimi d’amore sono quasi sempre
impiegati per stringere a sé la persona che si ama.
Questo
tipo di fascinazione, è bene sottolinearlo, viene praticato,
essenzialmente, dalle donne mentre l’uomo ricorre ad essa solo in
rarissime occasioni.
La
donna, infatti, per la sua particolare condizione di sudditanza,
almeno sino a qualche anno fa, si affidava molto più facilmente,
considerata anche la sua condizione di elemento tradizionalmente
passivo nella vicenda d’amore, alla piccola strategia dei filtri
amorosi, delle pratiche augurali e divinatorie. Il sangue
catameniale, la secrezione femminile e il sangue delle vene hanno,
secondo una tradizione ancora oggi diffusa, il potere di legare a
sé l’uomo desiderato (15). Non esistono, comunque, per questo
tipo di pratica né rituali prestabiliti né formule precise,
anche perché in questo ultimo decennio, data l’evoluzione
culturale delle zone interne, la pratica è quasi scomparsa.
[
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Credenze
e superstizioni
Le
superstizioni, le piccole credenze, senza particolari implicazioni
magiche, sono praticamente scomparse, anche se esse trovano terreno
fertile soprattutto in quelle aree dove la diffusione della cultura
moderna ha trovato poca incisività.
Un
piccolo elenco di esse ci consentirà di valutare, con un certo
rigore scientifico, l’entità del fenomeno e il valore sociale che
esse assumono
in un contesto culturale ed economico ancora in via di sviluppo.
14)
A. D’Amato, Nuovo contributo al folklore irpino, op. cit.,
pag. 10.
15)
Cfr, E. De Martino, Fascinazione ed eros, in Sud e
magia, op. cit., pp. 17-19.
56
1.
Ogni favilla che si sprigiona dai carboni o dai “tizzoni”
semispenti rappresenta un’anima che vola nell’altro mondo.
(Bisaccia)
2.
Se nel dire il rosario si spezza la corona è segno che la
grazia richiesta è stata soddisfatta. (Monteverde)
3.
Quando canta la civetta, (la cristarella) sul tetto di
un’abitazione, è segno che, nell’altra abitazione, quella
guardata appunto dalla civetta, qualcuno deve morire.
4.
I capelli caduti, mentre le ragazze si pettinano, devono
essere
subito bruciati, in quanto si teme che qualcuno, trovandoli, possa
servirsene per fabbricare una fattura.
5.
Il vino che si rovescia sulla tovaglia, durante, prima o dopo
i pasti, è malesegno (16).
6.
Il fischio all’orecchio è segno di buone notizie, segnale
di avvenimenti lieti.
7.
Il singhiozzo è segno che qualcuno sta parlando di noi.
8.
Il sale e l’olio, versati sul tavolo, sono segni di
sventura.
9.
Sciogliere o legare le scarpe vicino al focolare acceso porta
sfortuna.
10.
L’ombrello non va mai aperto in casa.
Tutte
queste superstizioni, osservate sino a qualche anno fa con
particolare vivacità, stanno quasi scomparendo. Le nuove
generazioni,
infatti, non solo non le osservano, ma, molto probabilmente, le
ignorano persino. I genitori, d’altra parte, passati da una
cultura
rurale ad una cultura pre-industriale e di massa, non amano più
neanche tramandarle o, cosa più giusta, farne, con i figli, oggetto
di studio e di dibattito.
Questo
mondo, come si auspicava il Di Fronzo (17), sta veramente
scomparendo.
A
questo punto se ci si chiedessero le ragioni che hanno contribuito
a far sopravvivere, sino a qualche anno fa, un’ideologia così
arcaica, rozza e mal definita nei suoi più intimi connotati, la
risposta non potrebbe essere che questa: sino a qualche anno
addietro, nella nostra provincia, nonostante le pressioni della
civiltà moderna, regnava un regime di vita precaria, capace di
condizionare fortemente l’esistenza
16)
Maleaugurio, Cfr. P. Di Fronzo, La superstizione, in
Vecchio mondo in declino, Lioni, pp. 9-13.
17)
P. Di Fronzo, op. cit., pp. 7-8.
57
di larghi strati sociali della popolazione irpina.
In
questa situazione esistenziale “la precarietà dei beni elementari
della vita, l’incertezza della prospettiva concernente il futuro,
la passione esercitata sugli individui da parte di forze naturali e
sociali non controllati, la carenza di forme di esistenza sociale,
l’asprezza della fatica nel quadro di una economia agricola
arretrata, l’angusta memoria di comportamenti razionali efficaci
con cui fronteggiare realisticamente i momenti critici
dell’esistenza costituiscono altrettante condizioni che
favoriscono il mantenersi delle pratiche magiche” (18).
D’altra
parte, come potevano i contadini, privi d’istruzione, privi di
qualsiasi bene materiale, fronteggiare la presenza del precario e
del negativo lungo tutto l’arco di vita individuale, della propria
famiglia, del proprio gruppo sociale? Quali risposte potevano essi
formulare di fronte alle presenze di forze oscure che non riuscivano
ad individuare e a definire?
I
temi della forza magica, della fascinazione, della fattura, della
possessione, dell’esorcismo, sono, quindi, senza ombra di dubbio,
in stretta connessione con la straordinaria potenza del negativo
quotidiano, che esercita la sua forza, la sua presenza sugli
individui
dalla nascita alla morte. Infine, come è possibile non pensare che
le ideologie magiche relative alla gravidanza, al parto, all’allattamento,
allo svezzamento, ai rischi cui è esposto il bambino nei primi anni
di vita, non siano in stretto rapporto “con i dati relativi
all’alto numero delle gravidanze e degli aborti spontanei, alla
natimortalità, ai disturbi dell’allattamento, alla carenza di
forme assistenziali per la gestante, la partoriente, la madre, il
bambino” (19)?
Probabilmente,
di fronte ad un fenomeno di così vasta portata, se si pensa che in
taluni paesi dell’Alta Irpinia, questi cerimoniali della bassa
magia venivano quasi, quotidianamente, praticati, si dovrebbe
andare al di là di certi giudizi di tipo illuministico e
positivistico
(ignoranza, analfabetismo, ecc.) per cercare di capire le ragioni
psicologiche fondamentali che hanno determinato la nascita e quindi
lo sviluppo e l’uso di tali pratiche.
Infatti,
questo elemento psicologico, di cui abbiamo parlato e sul quale già
si era soffermato ampiamente il De Martino, mette in
luce l’esistenza “ di un negativo più
grave di qualsiasi mancanza di un
bene
18)
E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 66.
19)
E. De Martino, Sud e magia, ivi.
58
particolare: mette in luce il rischio che la stessa presenza
individuale si smarrisca come centro di decisione e di scelta, e
naufraghi
in una negazione che colpisce la stessa possibilità di un qualsiasi
comportamento culturale” (20).
La
magia in Irpinia, come tutta la magia meridionale, è un insieme di
tecniche, fortemente socializzate e socializzanti, rivolte,
soprattutto, a proteggere quanti la praticano dalla possibile caduta
nel “negativo”, nel “male” religiosamente e moralmente inteso.
In
tal senso l’uso della bassa magia esercitava ed esercita, laddove
essa ancora sopravvive, una forte funzione protettiva che non sempre
trova riscontri oggettivi pertinenti nell’analisi del vissuto
quotidiano delle nostre zone interne.
20)
E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 66.
[
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59
CONCLUSIONE
La
ricerca fin qui effettuata, necessita di un rapido consuntivo, sia
per constatare la metodologia intenti-risultati, sia per assicurare
la continuità e lo sviluppo dei problemi e delle prospettive.
L’eredità emersa, ancora in fase di trasformazione, non ha dati
acquisiti e duraturi ma offre al temporaneo rilievi e risposte che
non possono essere ignorati.
Il disinteresse e la poca accortezza procurano poche illusioni per
un destino già segnato.
L’impossibilità di far resuscitare una civiltà (che è un
processo continuo e non uno stato di cose) non distoglie, tuttavia,
dal conservare testimonianze, ancora vive, prima che vengano
dimenticate o diventino reperti, soggetti alle varie
interpretazioni.
La famiglia contadina, violentemente esposta ai nuovi processi, non
è più portatrice della vecchia cultura, non esalta più i suoi
valori, divenuti, oggi, poco funzionali, in una società pragmatica
e antagonista nella produzione.
In poco tempo le immagini di qualche decennio si sono sbiadite,
acquistando connotati non ancora definibili, per il persistere di
aspetti diversi e contrastanti.
Le ripetute aggressioni della civiltà, un nuovo sistema di vita
incontenibile per capacità ed organizzazione, e la poca consistenza
di un logorato modello di difesa familiare e culturale, ormai
prossimo al collasso, hanno favorito il processo di disgregazione e
di trasformazione.
Il nuovo corso non registra accettazioni passive o facili
integrazioni ma fa vivere situazioni di conflitto, perché il
contadino conserva forme di sospetto e di incertezza.
Il sottosviluppo, l’assenza di livelli di elementi di dinamicità,
la mancanza di articolazione professionale, la diffidenza per le
innovazioni, la mancata modernizzazione concorrono a mantenere uno
stato di bisogni, di inquietudine e di sottomissione.
Il tardivo sviluppo implica processi economici non
facilmente ribaltabili o convertibili, trovando
“precisi
60
riferimenti
esplicativi nell’eredità storica delle sue strutture di classe”
(1).
La lenta o la mancata elevazione sociale, altrove realizzabile e in
tempi più brevi, l’energia e le capacità perdute con l’emarginazione,
divenuta talora permanente, hanno mantenuto in poca considerazione
le richieste avanzate, proprio per lo scarso peso rivendicativo.
Gli stessi rappresentanti del potere pubblico si sono poco curati di
scrutare attentamente in queste strutture sociali, per scorgervi i
consumi poveri e regressivi e per modificare la rigidità di
tecniche socializzative. Si sono preoccupati unicamente di
consolidare il potere, accentuando le dipendenze clientelari e
sacrificando lo sviluppo collettivo.
Sono queste le classi che, strettamente collegate alle borghesie
locali, determinano il sottosviluppo e lo sfruttamento (2).
La formazione sociale e la produzione economica sono, perciò il
risultato di una particolare disgregazione, conseguenza propria di
uno sviluppo capitalistico favorito e controllato da classi sociali
esterne a tale area.
In quest’emarginazione coatta le sensazioni emozionali sono poche
ed impediscono gli slanci e le proiezioni generose.
In questo compromesso avvilente la liberazione sembra lontana,
soffocata dal conformismo e dall’interesse privato che non è soltanto
la preoccupazione contingente della famiglia, ma dello stesso potere
pubblico, che tende a privatizzare e a gestire in proprio gli
interessi comunitari.
La crisi ideologica della famiglia, a cui si fa riferimento da più
parti, è nella fattispecie irpina una crisi economica e sociale che
va oltre la sua struttura gerarchica.
Il cambiamento diventerà possibile solo se la famiglia supererà i
suoi fattori ascrittivi, limitati all’ottica della sopravvivenza e
dell’arrangiamento; dovrà costruire, tramite una nuova politica
di investimenti, di associazionismo e di solida
programmazione
culturale, un’ impresa economica capitalistica,
tale da
1)
P.P. Donati, Famiglia, stratificazione e classi sociali,
in Nuove Questioni di Sociologia, Editrice la Scuola, Brescia, n.
3, 1976, pag. 177.
2)
Cfr. C. Donolo, Sviluppo ineguale e disgregazione sociale
nel Meridione. Note per l’anili delle classe nel Meridione, in
“Quaderni Piacentini”, 1972 n.47, pp. 101-128; L. Libertini, Integrazione
capitalistica e sottosviluppo. I nuovi termini della questione
meridionale, Bari, Laterza, 1968; N. Zitara, II proletariato
esterno, Milano, Jaca Book, 1972.
61
incidere
nella crescita propria e della comunità, pur sapendo che la
funzione produttiva sarà sempre diretta dal mercato e dal capitale.
I mutamenti auspicabili permetteranno di superare l’odierna
contraddizione antagonista, che isola ed espelle chi non è
portatore dei nuovi modelli.
Il restare nei campi non dovrà significare né una maledizione né
una costrizione ma l’acquisizione di un nuovo ruolo sociale e
produttivo della famiglia.
Essa resta, ancora, una sovrastruttura, una forma ideale di
sicurezza e di assistenza reciproca dei suoi membri, con capacità
non ancora utilizzate di solidarietà collettiva.
La famiglia rurale, il gruppo sociale più provato e che ha pagato
al progresso un prezzo molto caro, risulta il punto di riferimento
più importante per l’identificazione e per la ricomposizione
della vita quotidiana, della socializzazione dei figli,
dell’istruzione e della stabilizzazione psicologica della persona
adulta. Una funzione culturale caratterizza il suo nuovo ruolo,
anche se la cultura, in senso ampio, resta prerogativa della
struttura pubblica.
Certo è che il suo patrimonio di civiltà, abbastanza ridimensionato
nei valori tradizionali e nelle funzioni educative, è oggi legato
alle esigenze della realtà.
La cultura dei poveri, non più tale, viene assorbita e riproposta
sotto forma di folklore; gli stessi rappresentanti della civiltà
rurale, non più disponibili a difendere gli archetipi culturali,
sono diventati consumatori della loro stessa civiltà.
L’apostasia della vecchia cultura con tutti i deterrent
negativi di sottosviluppo, di arretratezza e di miseria, diviene con
un abile raggiro (una riconversione culturale) una nuova cultura.
La nuova esperienza, perciò, conserva intatti i significati di un
passato, che se non ha molto da insegnare, neppure può essere fatto
oggetto di rifiuto e di cancellazione. La cultura resta sempre
l’immagine speculare di un popolo, un supporto che motiva le
ansie, le aspirazioni e le richieste.
E impensabile a questo punto un ritorno nostalgico a certe forme
comportamentali — anche se le vecchie generazioni spesso le
rimpiangono — ma neppure sembra corretto e logico un rigetto totale
ed immotivato di quanto sa di vecchio e di tradizionale.
L’affannosa corsa per bruciare le tappe, pur di raggiungere
determinati fini, non ha avuto tempi materiali sufficienti per
riflettere e conservare.
La passata ingenuità non è in assoluto sinonimo di plagio, di
dabbenaggine e di ignoranza. Certe azioni hanno goduto di libertà
espressive e comportamentali tanto da diventare momenti
significativi della storia
62
e
della letteratura popolare.
Il recupero e la salvaguardia, non limitati al folklorico, devono
stimolare una ricerca integrale della precedente civiltà, facendone
oggetto di analisi sul territorio, mediante continue operazioni scolastiche,
sociali e culturali.
La stessa famiglia potrà rientrare in possesso della sua civiltà,
sia per non rinnegare la propria identità, sia per poter constatare
i graduali momenti di crescita, di conflittualità e di affermazione
sociale.
Questa riqualificazione familiare e culturale esige un sostegno e
chiede riforme sociali e servizi collettivi “per l’edificazione
di una società in cui a tutti siano date garanzie di un’esistenza
non precaria, un dignitoso livello di vita per far fronte ai
bisogni” (3).
La richiesta non passa in silenzio; è la rivendicazione d’oggi,
per superare l’elemosina e l’asservimento di ieri.
Sotto le pietre accumulate dal sisma sono rimaste sepolte la
miseria, la rassegnazione e l’umiliazione ma non la civiltà di un
popolo e la sua fiera dignità che gridano, nei nuovi bisogni, il
diritto umano della solidarietà e dell’uguaglianza.
Tanta presenza riafferma il diritto inalienabile della
partecipazione, forza della comunità e dei suoi membri che,
insieme, propongono, controllano, costruiscono e crescono.
La soluzione dei problemi non riconosce più deleghe né gestioni
a mezzo servizio, ma vede gruppi di individui unirsi ed informarsi
per allontanare gli impostori, gli intriganti e i possibili gestori
di nuove miserie.
L’alba nuova ha dimensioni più credibili e meno lontane!
3)
M. Wynn, in P.P. Donati, Famiglia stratificazione e
classi sociali, op. cit., pag. 234.
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63
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