SILENZIO, GALATEO E GRANDI ABBUFFATE
Vizi e virtù dei monaci medievali a tavola

a cura di Erika Monticone 

"Colui che deve in religione parlare di spiriti celesti, parla di spezie terrestri"

    Così suona il rimprovero ai monaci di un ignoto scrittore vissuto intorno all'XI secolo. Il quale con arguzia ed ironia sottolinea una grande verità intorno ai vizi culinari dei monaci medievali.
È risaputo come nei ricchi monasteri, si prestasse grande attenzione verso la buona cucina ed il buon vino, tanto da ritenere che le origini della gastronomia vadano ricercate all'interno dei monasteri: la stessa necessità di imporre divieti terribili con regole e raccolte di usi, rispetto l'assunzione di determinate pietanze, ci fa capire quanto queste fossero desiderate. Sottoposti ad una dieta talvolta severa, interrotta da digiuni ed astinenze. Minacciati dal terribile freddo invernale e dalla monotonia.
    Desiderosi di sottolineare attraverso i cibi la successione di feste solenni e celebrazioni di santi, i monaci divennero naturalmente portati a migliorare la preparazione del proprio cibo, avendo spesso a disposizione un limitato numero di ingredienti (non tutto, come si sa, era permesso).
    Una raccolta di usi ci fornisce interessanti indicazioni su quanta attenzione fosse posta verso determinati cibi e bevande, di per sé molto semplici, quali la birra e le fave. Queste ultime, insieme al pane ed al vino costituivano l'elemento base dell'alimentazione medievale e la loro preparazione meritava quindi particolare cura.
"Dopo che i monaci cuochi si sono lavati le mani ed il volto ed hanno fatto le tre preghiere prescritte, lavano le fave in tre fasi successive, poi le pongono a bollire sul fuoco, in un recipiente pieno d'acqua. Quando l'acqua bolle forte e fa la schiuma, quest'ultima va tolta con uno schiumarolo che levi contemporaneamente le fave che galleggiano che serve a smuovere quelle sul fondo, perché non vanno mangiate le fave che si sono bruciate".
    Tolte dal fuoco le fave venivano chiuse in un recipiente cosparso di lardo, e qui riposavano per qualche minuto. Il sugo che si formava serviva poi per insaporire gli altri legumi verdi. In Italia era comune l'utilizzo dell'olio di oliva come condimento, mentre nel resto dell'Europa risultava essere quasi introvabile e sostituirlo non era cosa semplice. Sia l'olio di noci che di nocciole diventava rancido velocemente dando alle pietanze un gusto sgradevole. Tanto che i monaci per sostituire i condimenti oleosi spesso sgranocchiavano noci e nocciole. In breve tempo si diffusero quindi il lardo, lo strutto, l'olio di noci, l'olio di pesce ed il grasso delle carni arrostite. Questi divennero elementi indispensabili, salvo i periodi di Quaresima, in cui la Chiesa vietava l'utilizzo del burro di origine animale. Le razioni quotidiane di cibo per i monaci e per le monache normalmente piuttosto abbondanti, anche se costituite nella quasi totalità da farinacei, glucidi e leguminose. In una giornata tipo, il monaco medievale consumava all'incirca 1,5-2 kg di pane, 70-100 grammi di formaggio, 135-230 grammi di legumi secchi, 60-110 grammi di miele e 50 grammi di grassi. La razione di vino e birra si aggirava intorno al litro e mezzo. Il tutto per un totale di circa 4.700 calorie. Non calcolando erbe, "radici" e frutti. La salute fisica e psichica dei monaci risentiva della scarsità di proteine e vitamine: panciuti e rubicondi, sdentati in giovane età, erano afflitti da flatulenze e digestioni interminabili.
    Ma come si comportavano i monaci a tavola? Sicuramente il fatto di vivere a stretto contatto in una comunità di individui ha generato naturalmente una serie di regole di pacifica convivenza basate sul costante autocontrollo. Innanzitutto il monaco doveva essere puntuale per il pasto e lavarsi le mani prima di andare a tavola. Doveva attendere accanto alla sedia ed in religioso silenzio l'arrivo dell'abate che recitava De Verbo Dei. Tenere gli occhi abbassati sul piatto, non osservare ciò che mangiavano i propri compagni, e fare segno, con discrezione, se mancava qualcosa al confratello vicino. Ringraziava inchinando la testa, non si soffiava il naso nel tovagliolo ne se ne serviva per pulirsi i denti o asciugarsi il sangue dal naso. Terminato il pasto doveva raccogliere le briciole con il proprio coltello o u-na piccola spazzola, evitando di tagliare o macchiare la tovaglia, (in alcuni conventi si usava fare, ogni sabato, una specie di budino liquido unendo le briciole con le uova).
    Il monaco non poteva reclamare se per distrazione non veniva servito. Poteva però richiamare l'attenzione del cellario o di colui che serviva a tavola quando mancava qualcosa ad un suo confratello. A questo proposito vi è un divertente aneddoto: un monaco vedeva dibattersi nel proprio piatto un bel topolino (o due scarafaggi...). Cosa fare? Reclamare era proibito. Non mangiare lo era ugualmente. Ma era caritatevole e giusto intervenire in favore del confratello vicino. Il monaco, dunque, con discrezione e spirito pio, rivolgendosi al servitore mormorava: "Perché padre Anselmo non ha diritto, anche lui, a un topo o a due scarafaggi?".
Discrezione, autocontrollo e, soprattutto, silenzio erano dunque fondamentali per una pacifica vita in comune: "II silenzio è il padre di tutte le virtù" recitavano
gli ordini e le regole. Il silenzio doveva regnare nella chiesa, nel refettorio, nel dormitorio, nel chiostro. 0gni operazione, dal bagno al salasso, alla fabbricazione delle ostie doveva essere fatta nella quiete più assoluta. Ma, come potevano i monaci comunicare non venendo meno al dovere della taciturnitas? Tre raccolte di usi redatte nell'XI secolo tra cui quella di Bernardo di Cluny ci "parlano" del linguaggio attraverso i segni. A Cluny c'erano 35 segni riguardanti il cibo: per chiedere del latte il monaco metteva il dito mignolo in bocca, come fanno i neonati. Per avere del pane normale disegnava un cerchio con il pollice e le due dita vicine. Per avere della focaccia faceva una croce nel palmo della mano poiché questa era un pane che si divideva. Con altri segni distinguevano i tipi di vini. Mielate, rosso, piccante, aromatizzato. Le donne e le trote avevano lo stesso segno: passarsi un dito da un ciglio all' altro. (Nelle donne per indicarne la frangetta, per le trote perché appartenevano semplicemente al genere femminile). Come una vera e propria lingua straniera questo linguaggio cambiava da un ordine all'altro. Un monaco di Cluny per indicare la senape appoggiava la prima falange del mignolo contro il pollice. Uno di Grandmont si chiudeva il naso con le dita che si sollevavano. Altri giravano le dita chiuse nel palmo della mano, per ricordare il gesto del cuoco che preparava la salsa.

 

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