La voragine di Ispinigoli (Dorgali – Nuoro)

Cronaca d’arcani riti d’età punica

Introduzione

 

Il racconto che segue trae spunto dalle scoperte archeologiche effettuate dal Gruppo Grotte Nuorese nella voragine di Ispinigoli, una cavità carsica che si apre alle pendici di Monte Sospile, in prossimità della costa orientale della Sardegna.
L’autore ha imbastito la trama del racconto, con l'intento di offrire al lettore un quadro utile ad ambientare le vicende legate ai sacrifici umani effettuati nella voragine di Ispinigoli durante il periodo di dominazione punica nella Sardegna Orientale. Nella narrazione sono evidenziati con particolare attenzione i sentimenti del vecchio re preposto ad officiare il rito sacrificale: questo personaggio, con l'animo proteso alla conoscenza, per lui incompiuta, dell'ignoto, è rappresentato come l'antesignano dell'esploratore speleologo moderno, il cui agire è indirizzato alla ricerca degli aspetti naturali presenti negli ambienti carsici ipogei. Il racconto che segue, nel quale i riscontri oggettivi di carattere archeologico sono inseriti in un’ambientazione certamente di fantasia, non deve quindi intendersi come un'interpretazione storica di quelle vicende di 2500 anni fa ma vuol solamente proporre una chiave di lettura, proposta da speleologi, dell'affascinante e misterioso contesto nel quale furono effettuati quei riti tanto tragici ed arcani.

 

Il Signore del Buio

 

Seduto all'ombra del grande oleastro, che lo proteggeva dai raggi del sole avviato al tramonto, il vecchio re stava eretto, immobile per lunga abitudine. I guerrieri, già riposati, erano pronti a riprendere le portantine sulle robuste spalle coperte di pelli di capra. Di lì a poco, il corteo avrebbe ripreso il cammino per affrontare l'ultimo tratto di salita che conduceva all'ingresso della "Casa del Buio", nascosta dalla vegetazione a metà costa della piccola montagna. Sdraiate, anch'esse all'ombra, su giacigli di fronde intrecciate e circondate dal vigile rispetto dei guerrieri, le fanciulle apparivano tranquille, forse ancora stordite dalle bevande offerte loro, a più riprese, durante il giorno. Dopo aver partecipato alla concitata animazione delle danze e dei festeggiamenti, durante i quali erano state poste al centro dell'attenzione di tutti, gli sguardi delle giovani vagavano ora assenti, come trasognati, e inconsapevolmente le loro mani andavano ad accarezzare, con gesti languidi, i preziosi monili e le bellissime vesti con cui erano state adornate in occasione della Cerimonia del Ringraziamento.

Il pericolo era stato grande e solo per volere del Dio ci si era accorti in tempo degli stranieri che entravano, da predatori, nel loro territorio. E fu in occasione di quell'incombente pericolo che il vecchio re decise di stringere alleanza con il Popolo del Fiume, riuscendo, insieme a quelle genti, a respingere i guerrieri venuti da lontano. Moltissimi di quegli invasori erano stati uccisi ma anche tanti forti guerrieri, e tra questi quel figlio che un giorno avrebbe dovuto sostituirlo alla guida della tribù, erano morti nella battaglia. I più valorosi tra questi, ormai, giacevano deposti nei ripari di roccia più segreti della montagna, ornati di tutte le loro armi. E in quelle tombe, secondo gli antichi costumi, erano stati affiancati ai corpi di quegli eroi tutti i doni e gli oggetti necessari ad affrontare la misteriosa continuazione della vita che è la morte.

Del trascorso pericolo, il re sapeva di dover essere grato al dio Molk, così come era già avvenuto al tempo della grande alluvione, quando la gente del fiume era dovuta fuggire, abbandonando le abitazioni minacciate dalle acque tumultuose, per chiedere aiuto ed ospitalità alla sua gente. Ed insieme a lui, tutti i capi erano consapevoli di dover ripagare, come allora, quella divina benevolenza, immolando alcune tra le vergini più belle allo Spirito dell'Oscurità.

Imbracciate le armi e gli scudi di sughero rinforzati da piaste di bronzo, i capi si avviarono, fieri e silenziosi, verso la grotta.

Quei re, adorni dei loro grandi elmi cornuti da cui spuntavano, ispide e lunghe, le barbe e le capigliature, aprivano il corteo dei giovani guerrieri portatori che incedevano verso la scoscesa montagna. Tutti gli altri si fermarono attorno ai fuochi accesi nel luogo della sosta, nell’attesa del loro ritorno e della notizia del sacrificio compiuto, foriero della rinnovata benevolenza dello Spirito del Buio.

Assorto, il vecchio re si abbandonò al ritmico dondolio della portantina, costruita con solidi ed antichi tronchi di ginepro. Quel seggio, ricavato da legni pazientemente scelti sulla montagna per la loro particolare forma, era certo degno di un grande capo e dimostrava, con la lucida levigatezza di molte sue parti, l'antico uso fatto da i re che vi presero posto. Docile alla natura, che sembrava torcerlo talora spietatamente, quel legno durissimo resisteva tenacemente al tempo e agli sforzi degli uomini, quasi partecipasse direttamente della forza divina della natura stessa. Lo stesso legno si nobilitava anche nel fuoco, ove si dissolveva, senza quasi lasciar residuo alcuno, in fiamma limpidissima e profumata. Ed era proprio la luce di quella fiamma che rischiarò i suoi primi approcci con la "Casa del Buio". Rivivendo quella ormai antica memoria, il vecchio re riprovò lo sgomento e l'angoscia che l'aveva attanagliato la prima volta che violò l'antro della montagna, quando si era sentito avvolgere dalle tenebre come da un pesante mantello. Pur tuttavia, quei sentimenti non erano stati sufficientemente forti da respingerlo e scoraggiarlo: tra le pieghe di quel mantello, infatti, era celato qualcosa d’irresistibile che lo aveva attirato, chiamato, soggiogato, quasi a voler affermare su di lui la propria forza, mostrandogli, nello stesso tempo, benevolenza. Di ciò aveva potuto rendersi ben conto quando, in occasione di una delle prime visite alla caverna, la sua torcia di schegge di ginepro cadde in un anfratto stretto e profondo, spegnendosi. Quella volta rimase immobile per lungo tempo, agghiacciato dal terrore e quasi incapace di muoversi, teso nell'ascoltare i cento rumori che, prima impercettibili, gli erano parsi subito ingigantiti dalla paura, evocatrice di mostri orrendi. Scorrendo lentamente su di lui come una lunghissima carezza, il tempo l'aveva blandito, a poco a poco, quasi a rassicurarlo di non essergli ancora nemico. A mano a mano che il suo cuore si andava placando, quei rumori, fonte di paure e densi di minacce sconosciute, gli si mostravano nella loro semplice realtà: lo stillicidio delle gocce d'acqua dalle pareti, il rotolare di una pietruzza, il volo di un pipistrello, il muoversi furtivo di un piccolo animale, su, verso l'ingresso. Nell'attesa del verificarsi di quei rumori era stato come se i suoi sensi, acuitisi, avessero imparato a comunicare direttamente con il profondo dell'animo. Con questa nuova disposizione dello spirito prese coscienza della vastità della caverna, dell'ombra in cui si trovava immerso e soprattutto di quel silenzio denso, che agiva su di lui in modo accattivante e dolcissimo, tanto che, insensibilmente, anche la sua anima cominciò a divenirne parte, dissolvendovisi. E forse fu proprio il turbinio di queste emozioni tanto straordinarie a donargli la profonda consapevolezza che la conoscenza della realtà delle cose fosse lo strumento per dominare sul mistero della natura e sugli uomini. Il respiro, gradatamente, tornò regolare e gli occhi, abituatisi alla flebile luce che proveniva dall'ingresso, avevano preso lentamente a distinguere le forme delle grandi pareti, della maestosa colonna centrale e delle rocce tra le quali si trovava. Muovendosi con circospezione ma con sempre maggior sicurezza, riuscì a ritrovare il passaggio attraverso il quale si era calato e, come rinato, rivide con occhi nuovi la luce piena del giorno.

Un senso di angoscia e di impotenza, invece, s'impadroniva del suo cuore ogni volta che tornava ad avvicinarsi al grande pozzo scuro, posto in fondo alla caverna, dove mai nessun chiarore era riuscito a penetrare. Nell'Abisso anche la luce della sua torcia brillava inutilmente, quasi fosse risucchiata e infinitamente diluita in quell'oscurità impenetrabile. Gli echi che risalivano erano sordi e profondi e sempre gli pareva che, dal basso, salisse, quasi impercettibile, un cupo e lontano respiro, quello della divinità che credeva attendesse, nel cuore della montagna, le offerte donate dalle piccole esistenze provenienti dal mondo della luce.

Una volta che la testa del corteo giunse all'imboccatura della caverna, quei ricordi del passato si stemperarono nella mente del re. E rivide la roccia bianca e dilavata, irta di spigoli e di lame di roccia taglienti che, nell'antro, erano addolcite da colate e pilastri arrotondati, come plasmati dall'opera di una divinità artefice. Tra quelle colate ed i pilastri riconobbe il ballatoio, che cingeva il grande vuoto nero della caverna come un palco, dal quale si poteva scorgere la parte superiore dell'enorme ed altissima colonna che sembrava sorreggere l'immane struttura ipogea. La portantina fu adagiata. Il re si sollevò lentamente dal suo seggio, protendendosi verso la vallata sottostante dove, attorno ai bivacchi fumanti, la gente era in attesa. Alzò le braccia con un gesto propiziatorio e, volgendosi verso l'antro, avanzò verso il buio. Dopo che furono accese le prime torce, si accinse ad affrontare la discesa insieme ai guerrieri iniziati alla comunione con il Dio. Il trascorrere degli anni aveva causato l'inevitabile debilitazione del vecchio capo, il quale compensava le diminuite forze con una maggiore sicurezza nei movimenti, mentre la leggerezza del corpo, asciutto ma ancora vigoroso, bilanciava la perduta agilità. Il vecchio, durante la discesa, percepiva chiaramente la tensione che cresceva in coloro che lo accompagnavano: quegli uomini, che nessun nemico avrebbe potuto far esitare, sembravano sorretti solo dall'orgoglio profuso nel tentativo di celare quella debolezza, la quale, tuttavia, si rendeva manifesta nella fugacità degli sguardi pieni d’apprensione che quei guerrieri lanciavano al re.

Giunti alla base della maestosa colonna il vecchio ordinò che venissero calate le fanciulle. Queste, durante la discesa, restarono aggrappate al cordame, annichilite da un terrore che toglieva loro ogni volontà. Numerose altre torce furono accese, e le loro fiamme illuminarono tenuemente il caotico ammasso di rocce spalmate d'ocra che coprivano il fondo della caverna. Il corteo proseguì nel suo lento e silenzioso cammino. Quel silenzio contribuiva a gonfiare il cuore di tutti i guerrieri d’oscuro terrore e quando i loro sguardi tentavano di superare il cerchio di luce vacillante, percepivano come reale la presenza, oltre quel chiarore, della maligna essenza dell'oscurità, pronta ad assalire e fagocitare ciascuno di loro da ogni lato. E ad ogni sguardo il timore così faticosamente represso s'ingigantiva, appesantendosi sempre più sul loro animo. Il vecchio re, reggendo alta la torcia, cercava i passaggi che portavano in fondo all'antro. Solo per lui quel silenzio non significava paura, anche se riconosceva, ancora una volta, il sopravvenire, lento ed impercettibile, di quell'angoscia che, come nelle altre occasioni, avrebbe raggiunto il culmine una volta arrivato laggiù, davanti all'ultimo mistero, a quell'oscurità che sapeva non sarebbe mai riuscito a penetrare e davanti alla quale si sentiva infinitamente impotente.

Era il sopravvenire della stessa angosciosa sensazione da cui si era sentito sfiorare, lungamente e ripetutamente, durante le sue escursioni ipogee meditative e solitarie. Ma, n’era convinto, laggiù risiedeva quella divinità che non avrebbe mai potuto conoscere, celata nei recessi più oscuri della montagna che li sovrastava. Per stemperare quel sentimento usava sovrapporre a questo, nel suo animo, l'orgoglio di sentirsi l'unico, il prescelto: nessuno degli altri, di cui intuiva il tremore nascosto, sarebbe riuscito a ripercorrere senza di lui la via, pur facile, dell'uscita: non i più forti guerrieri, il cui smarrimento profondo, impastato com'era di ripugnanza istintiva e viscerale per l'ignoto, annientava in loro il desiderio di salvezza, non le vittime, nei cui sguardi riconosceva lo stesso terrore impotente già visto negli occhi sbarrati dei capretti e degli agnelli immolati. Ma quella sensazione d'orgoglio, non meditata come quel profondo sentimento d'impotenza, lasciava sempre nell'animo del re il gusto amaro dell'insoddisfazione. E la consapevolezza che, tra non molto tempo, anche la sua vita avrebbe avuto termine, come quella di tanti altri prima di lui, accresceva in lui il sentimento della propria debolezza. Sarebbe rimasta, invece indistruttibile, ne era certo, quella inconoscibile ed oscura presenza nell'Abisso, che per tutti altro non era che sacro terrore: la divinità nascosta ed onnipresente che sovrastava e presiedeva ai giorni di ciascuno e che avrebbe deciso le sorti della sua gente, generazione dopo generazione. Proprio per conservare la benevolenza nelle decisioni dello Spirito del Buio si accingeva ad onorare la divinità, in nome di tutto il suo popolo.

In fondo al grande antro il corteo giunse, attraverso uno stretto passaggio tra i grandi massi accatastati, su un ripiano non più grande di uno stabbio per capretti, al di là del quale si apriva il grande vuoto nero. La luce delle fiaccole illuminava debolmente il piano inclinato della roccia ma quel flebile chiarore, sotto, pareva assorbito inesorabilmente dal buio più completo. E da quel buio emergevano echi lontani e misteriosi, che divenivano terrificanti quando il cielo tuonava incollerito e avvolgeva il villaggio nei suoi grandi veli di pioggia. Volgendosi verso i presenti, il re raccolse ancora l'ansia dei loro sguardi. Pur silenziosamente, le vittime sacrificali cercavano adesso, vanamente, di dibattersi, istintivamente consapevoli d’essere l'oggetto d’eventi irreparabili. Con rudezza, nervosamente, i guardiani torsero loro i polsi, costringendole ad inginocchiarsi. Il re si scostò, indietreggiando in un anfratto laterale e sopraelevato. Si volse verso il buio, alzando lentamente le braccia e recitando un’antica, cantilenata invocazione. L'urlo della prima vittima coprì quelle parole: la fanciulla, spinta violentemente in avanti, rotolò cercando inutilmente di appigliarsi alla roccia inclinata, che subito le venne a mancare.

Il tonfo della prima vittima fu coperto dall'urlo della seconda fanciulla ed il secondo tonfo riportò bruscamente il silenzio in tutto l'antro. Immobile e profondamente assorto, con le braccia ancora alzate, il re ascoltò lungamente gli echi che sembravano sorgere dal buio. Già dopo i primi istanti, tesi fino allo spasimo, al vecchio parve che tutto tornasse al suo giusto posto, come nel rapido ricostituirsi di un perduto equilibrio. Gradatamente riconobbe i rumori più fievoli della grotta e questi gli ridiedero tranquillità. Quel silenzio, indisturbato da alcunché d’estraneo, neppure dal più lieve respiro dei seguaci, pareva indicare che nulla era cambiato e che tutto avrebbe continuato a svolgersi favorevolmente. Lo Spirito del Buio aveva certamente apprezzato una così grande offerta e la sua gente avrebbe potuto condurre la vita di tutti i giorni, certa della protezione divina, forse anche per moltissimo tempo.

Quando le braccia divennero troppo pesanti il vecchio re si mosse e, quasi senza vederli, passò tra i guerrieri immobili, impietriti dal terrore, dirigendosi verso il passaggio che portava all'esterno. Ed in quell'incedere, come mai prima, sentì il cuore traboccare di quell'insopportabile sentimento d'impotenza per tutto ciò che, inevitabilmente, era destinato a rimanere a lui ignoto.

 


 

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