EUGENIO MONTALE

 

 

LA VITA

1896

Nasce a Genova da un'agiata famiglia della media borghesia (il padre è titolare di una ditta importatrice di

prodotti chimici). Trascorre gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza fra Genova e Monterosso, nelle Cinque

Terre, dove i Montale possiedono una villa.

1917

Porta a termine gli studi di ragioneria, più brevi e meno impegnativi dei lunghi studi classici, che i suoi

genitori hanno preferito a causa della salute malferma del piccolo Eugenio. Nello stesso anno Montale

comincia a prendere lezioni di canto dal maestro Ernesto Sivori (vuole diventare baritono) e a frequentare

assiduamente la Biblioteca comunale, ponendo le basi di una cultura vastissima, perseguita per lo più da

autodidatta, con la sola "guida" della sorella maggiore Marianna (iscrittasi, nel 1916, alla Facoltà di Lettere),

appassionata studiosa di filosofia.

1917

Viene chiamato alle armi: frequenta il corso di allievi ufficiali a Parma, dove tra altri letterati e scrittori

conosce Sergio Solmi, il quale lo introdurrà poi nell'ambiente degli intellettuali torinesi raccolti intorno a

Pietro Gobetti. Viene inviato al fronte in Trentino, prima a Valmorbia e poi a Rovereto. Al finire della

guerra comanderà il campo di prigionia di Lanzo Torinese.

1918

Congedato, fa ritorno a Genova, e qui entra in amicizia con il poeta Camillo Sbarbaro, con Angelo Barile,

con Adriano Grande e con altri esponenti della vita letteraria e culturale della città.

1922

Collabora a "Primo Tempo", rivista torinese di Giacomo Debenedetti e Sergio Solmi.

1925

Collabora anche alla rivista di Piero Gobetti, "Il Baretti". Nello stesso anno firma il Manifesto degli

Intellettuali Antifascisti di Giovanni Amendola e Benedetto Croce. Conosce Roberto Bazlen, singolare

figura di letterato triestino culturalmente aggiornatissimo, il quale fa conoscere a Montale le opere di Svevo:

sono proprio gli articoli montaliani sulla narrativa sveviana pubblicati fra il 1925 e il 1926 a dare inizio alla

fortuna critica italiana ed europea di Svevo.

1926

Dopo la morte tragica, nel 1926, di Piero Gobetti, esule a Parigi per le persecuzioni fasciste, stringe amicizia

con Italo Svevo, con il quale intratterrà un importante carteggio. A Trieste, ospite di Svevo, conosce

Umberto Saba. In quell'anno collabora ad importanti riviste come "Il Convegno" e "La Fiera letteraria".

1927

Viene assunto come redattore della casa editrice fiorentina Bemporad. Deve quindi trasferirsi a Firenze, in

quegli anni vera capitale culturale della nazione.

1929

E' direttore della Biblioteca del Gabinetto Vieusseux fino a quando è allontanato dall'incarico perché si è

rifiutato di prendere la tessera del Partito fascista. Questi anni sono caratterizzati da una straordinaria

intensità di rapporti umani e culturali: assiduo frequentatore delle "Giubbe Rosse", il caffè punto d'incontro

degli intellettuali fiorentini, Montale conosce, fra gli altri, Elio Vittorini, Carlo Emilio Gadda, Salvatore

Quasimodo, Arturo Loria, Guido Piovene, Gianna Manzini e i critici Giuseppe de Robertis e Gianfranco

Contini.

Scrisse di sé: "Io ho vissuto trentun anni in Liguria. Vicino al mare, perché sebbene a Genova il mare si

veda per lo più solo col cannocchiale, i mesi dell'estate noi li passavamo nelle Cinque Terre, Monterosso,

dove il mare entrava quasi in casa (...). Questa è una stagione molto fortunata; però ha anche costituito

l'avvio a l'introversione, ha portato ad un imprigionamento del cosmo (...). Questa è stata una stagione

molto formativa, ripeto. Ma sotto il profitto della maturazione culturale, i vent'anni che ho passato a Firenze

sono stati i più importanti della mia vita. Lì ho scoperto che non c'è soltanto il mare ma anche la

terraferma; la terraferma della cultura, delle idee, della tradizione, dell'umanesimo. Vi ho trovato una natura

diversa, compenetrata nel lavoro e nel pensiero dell'uomo. Vi ho compreso che cosa è stata, che cosa può

essere una civiltà".

In quegli anni collabora a "Solaria", la rivista di Carocci, Ferrara e Bonsanti e a "Pegaso", di Ojetti, Pancrazi

e De Robertis. Conosce numerosi scrittori come Vittorini, Gadda, Loria e Drusilla Tanzi, la "Mosca", che

diventerà poi sua moglie (allora era moglie del critico d'arte Matteo Marangoni).

1937

E' allontanato dal Gabinetto Viesseux. Collabora a "Campo di Marte" di Gatto e Pratolini e a "Letteratura"

di Bonsanti.

1940

Cominciano i duri anni di guerra. I compensi per poesie e articoli pubblicati in varie riviste e per alcune

traduzioni sono i soli proventi.

1944-5

Si iscrive al Partito d'Azione e lavora per il Comitato Nazionale di Liberazione toscano; nel '45 fonda, con

Bonsanti, Loria e Scavarelli, il quindicinale "Il Mondo", che diresse per due anni.

1948

Dopo un periodo di collaborazione alla "Nazione", si trasferisce a Milano, dove lavora come redattore al

"Corriere della Sera" (cui ha cominciato a collaborare nel 1946) e critico musicale del "Corriere

dell'informazione".

1967

E' nominato a senatore a vita.

1975

Ottiene il premio Nobel. Aveva già ricevuto la laurea honoris causa dalle Università di Milano e di Roma.

1981

Fino agli ultimi anni continua a vivere, solo (la moglie era morta già nel 1963), a Milano, città che

prediligeva perché anonima e discreta. Muore il 12 settembre 1981.

 

 

 

 

 

 

LA POESIA DI MONTALE

Il motivo di fondo della poesia di Montale è una visione pessimistica e desolata della vita del nostro tempo,

in cui, crollati gli ideali romantici e positivistici, tutto appare senza senso, oscuro e misterioso. Vivere, per

lui, è come andare lungo una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia (Meriggiare pallido e assorto)

e che impedisce di vedere cosa c'è al di là, ossia lo scopo e il significato della vita.

Né d'altra parte c'è alcuna fede religiosa o politica (chierico rosso o nero, egli scrive in Piccolo testamento,

con chiara allusione al cristianesimo e al marxismo), che possa consolare e liberare l'uomo dall'angoscia

esistenziale. Nemmeno la poesia, che per Ungaretti e in genere per i poeti del Decadentismo è il solo

strumento per conoscere la realtà, può offrire all'uomo alcun aiuto.

Perciò, egli scrive, "non domandarci la formula che mondi possa aprirti", ossia la parola magica e

chiarificatrice, che possa darti delle certezze, come pensano di dirla "i poeti laureati". L'unica cosa certa

che egli possa dire, è "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", ossia gli aspetti negativi della nostra vita.

Di fronte al "male di vivere" non c'è altro bene che "la divina Indifferenza", ossia il distacco dignitoso dalla

realtà, essere come una statua o la nuvola o il falco alto levato (Spesso il male di vivere).

Questa indifferenza non è sempre concessa al poeta, il quale è spesso preso dalla nostalgia di un mondo

diverso, dall'ansia di scoprire "una maglia rotta nella rete / che ci stringe", "lo sbaglio di natura", "che ci

metta nel mezzo di una verità".

La negatività di Montale oscilla tra la constatazione del "male vivere" e la speranza vana, ma sempre

risorgente, del suo superamento. Questa speranza di trasformare in inno l'elegia è evidente negli ultimi versi

di Riviere, che chiude la raccolta Ossi di seppia:

Potere

simile a questi rami

ieri scarniti e nudi ed oggi pieni

di fremiti e di linfe,

sentire

noi pur domani tra i profumi e i venti

un riaffluir di sogni, un urger folle

di voci verso un esito; e nel sole

che vi investe, riviere,

rifiorire!"

Basta guardarsi intorno, suggerisce Montale, per scoprire in ogni momento e in ogni oggetto che

osserviamo il male di vivere, come nei paesaggi aspri della Liguria, nei muri scalcinati, nei greti dei torrenti,

nel rivo strozzato che gorgoglia, nella foglia riarsa che s'accartoccia, nel cavallo stramazzato di Spesso il

male di vivere.

Ogni paesaggio e ogni oggetto è visto da Montale contemporaneamente nel suo aspetto fisico e metafisico,

nel suo essere cosa e simbolo della condizione umana di dolore e di ansia. E' questa la tecnica del

"correlativo oggettivo", teorizzata dal poeta inglese T.S. Eliot, consistente nell'intuizione di un rapporto tra

situazioni e oggetti esterni e il mondo interiore.

La stessa visione tragica della vita ispira le liriche della seconda raccolta, Occasioni (1939). In essa

Montale rievoca le "occasioni" della sua vita passata, amori, incontri di persone, riflessioni su avvenimenti,

paesaggi, ricordati non per nostalgia del passato a consolazione del presente, come avviene in Quasimodo,

ma per analizzarle e capirle nel loro valore simbolico, come altre esemplificazioni del male di vivere, così

che anche il recupero memoriale, tema consueto del Decadentismo, il Montale si risolve in una conferma

della propria solitudine e angoscia esistenziale.

Il male di vivere è, per esempio, in Dora Markus. Dora Markus è una donna che il poeta ha conosciuto a

Porto Corsini presso Ravenna. Nella prima parte la donna è colta nella sua inquietudine e incertezza, che

cerca di scongiurare affidandosi a un amuleto, un topo bianco d'avorio, racchiuso nella borsetta. Nella

seconda parte è colta nella sua casa di Carinzia, ripresa dalle sue abitudini casalinghe, ignara che su lei,

ebrea, e sull'Europa indifferente "distilla veleno / una fede feroce": è il presentimento delle persecuzioni

naziste e della guerra.

In un'altra poesia (Non recidere, forbice), Montale accenna alla forza disgregatrice del tempo, che ci porta

via anche i ricordi più belli. Nella memoria che si sfolla, da cui cioè svaniscono persone e cose care, non

recidere, o forbice, invoca il poeta, l'ultimo volto caro che vi è rimasto. Ma è inutile supplicare, un colpo di

scure colpisce la vetta dell'albero e l'acacia ferita lascia cadere il guscio di una cicala nel primo fango di

novembre. Tutto dunque svanisce lasciando l'uomo in una fredda solitudine.

Nella Casa dei doganieri il poeta ricorda la casa a strapiombo sulla scogliera, che era stata luogo degli

incontri con la donna amata; ma il ricordo di quella casa è vivo solo in lui, mentre la donna, frastornata da

altre vicende, ha dimenticato. Anche qui la rievocazione del passato si risolve per il poeta in una conferma

del "male di vivere", della nostra solitudine.

Temi analoghi, tutti centrati sul male di vivere si leggono nelle due ultime raccolte di liriche, La bufera ed

altro (1957), in cui la guerra è l'altra "occasione" di meditazione del poeta, e Satura (1971), che comprende

una serie di colloqui del poeta con la moglie Drusilla Tanzi su episodi di vita passata.

Questa sostanziale identità di temi, da Ossi di seppia a Satura, discosta Montale da Ungaretti. Mentre in

Ungaretti l'"uomo di pena" si trasforma in uomo di fede, Montale rimane sempre solo uomo di pena.

 

 

 

                                                    OSSI DI SEPPIA

 

 

 

Spesso il male di vivere

 

Spesso il male di vivere ho incontrato

era il rivo strozzato che gorgoglia

era l'incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

 

Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

 

 

 

COMMENTO

Il tema di questa poesia è il male di vivere: il dolore che il poeta ha incontrato nella sua vita.

I due poli della poesia sono "male" e "bene", attorno ad essi sono costruite le due strofe.

Nella prima ruota tutto intorno al "male" difatti ci sono tre frasi che fanno capire questo: il ruscello ostacolato dal suo corso; la

foglia che si incartoccia e il cavallo stramazzato.

Nell'altra quartina, invece, ruota tutto intorno al "bene", parla dell'Indifferenza che è un prodigio e l'unico "bene" di cui si ha

esperienza.

 

Meriggiare pallido e assorto

 

Meriggiare pallido e assorto

presso un rovente muro d'orto,

ascoltare tra i pruni e gli sterpi

schiocchi di merli, frusci di serpi

 

Nelle crepe del suolo o su la veccia

spiar le file di rosse formiche

ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano

a sommo di minuscole biche.

 

Osservare tra frondi il palpitare

lontano di scaglie di mare,

mentre si levano tremoli scricchi

di cicale dai calvi picchi.

 

E andando nel sole che abbaglia

sentire con triste meraviglia

com'è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

 

COMMENTO

È una poesia giovanile (1916) di Montale poi passata negli Ossi di Seppia di cui rappresenta, con molta chiarezza, la tematica di

fondo. I versi evidenziano quella riviera ligure di Monte Rosso, divenuta testimonianza del male di vivere col suo paesaggio e le

povere creature di una natura arsa dal sole. È' stata scritta in un afoso pomeriggio estivo, dove il poeta trascorreva le ore più calde

in un piccolo giardino osservando le piccole cose che lo circondavano. Il tema montaliano della vita come cammino assurdo lungo

un itinerario di dolore che mai rivela la sua finalità, come un destino ostile irto di invalicabili "cocci di bottiglia" si offre, nell'ultima

strofa, con immemorabile incisività. La muraglia della poesia, lungo la quale l'uomo cammina rasente, simboleggia la vita. Invece i

cocci di bottiglia impediscono di guardare al di là del muro, per trovare qualcosa che giustifichi la vita stessa. Vi è anche la

metafora delle formiche che vanno avanti e indietro senza una meta e rappresentano la routine priva di senso dell'uomo (biche: è il

termine utilizzato per sancire il parallelo tra regno umano e animale). Il mare, che scorgiamo tra le fronde, rappresenta la libertà, la

possibilità e la verità.

 

Forse un mattino andando in un'aria di vetro

Forse un mattino andando in un'aria di vetro,

arida,rivolgendomi vedrò compirsi il miracolo:

il nulla alle mie spalle,il vuoto dietro

di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto

alberi case colli per l'inganno consueto.

Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto

tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

 

 

 

                                               LE OCCASIONI

 

 

Non recidere forbice quel volto

Non recidere, forbice, quel volto,

solo nella memoria che si sfolla,

non far del grande suo viso in ascolto

la mia nebbia di sempre.

Un freddo cala...Duro il colpo svetta.

E l'acacia ferita da sè scrolla

il guscio di cicala

nella prima belletta di Novembre.

 

 

Altro su Montale

 

 

 

 

LINGUAGGIO

Nelle opere di Montale si può evidenziare un andamento discorsivo, narrativo, quasi prosastico.

Il suo linguaggio è concreto, spesso tecnico, antiletterario e antidannunziano (Limoni e Non chiederci la parola). Le parole usate

ricercano la precisione ma hanno il grande pregio di cercare la via più diretta e breve con gli oggetti e i particolari. Rifiuta il tono

elevato e oratorio e preferisce un modo discorsivo, spesso ironico e epigrammatico.

 

PENSIERO

Il pensiero di Montale è di origine esistenzialista ed è caratterizzato da una visione pessimistica e sconsolata del mondo e della vita

umana. Ispirandosi alle caratteristiche del paesaggio ligure, il poeta riesce a definire la vita come "una muraglia che ha in cima

cocci aguzzi di bottiglia" (teologia negativa e negatività dell'essere: una volta costatata l'inutilità del vivere, ne deriva angoscia

esistenziale). Ma quello di Montale è un pessimismo dialettico, non statico, che proviene dall'intuizione che qualcosa nasconde la

verità, le fa schermo, ne impedisce la conoscenza. Di qui la ricerca di un varco che permetta di superare l'ostacolo e che ci metta

in contatto con la vita autentica.

 

STILE

La poesia di Montale muove sempre da un dato reale, da oggetti, da cose che, in una precisa occasione, gli si offrono come segnali

per interpretare la realtà. L'oggetto si trasfigura in simbolo. Montale riprende da Eliot l'idea del correlativo oggettivo: esprime le

emozioni affidandole ad oggetti, in questo modo da una parte diminuisce l'enfasi romantica dall'altra la rafforza donandole

un'oggettività. Esempi: muraglia/vita; cavallo stramazzato/male di vivere; falco alto levato/divina indifferenza.

 

POETICA

Il poeta "veggente" ha scoperto l'arido vero, sa, ma tale consapevolezza lo rende "indifferente", "diverso" nell'affrontare il dolore.