Cercatrici di luoghi altri

Etty Hillesum, "vedetta" della Verità 

Maria Giovanna Noccelli

Nei giorni più bui di questo secolo una giovane donna ebrea ha vissuto ed espresso in un diario e alcune lettere un'esperienza interiore illuminante e profetica, a conferma della portata culturale "alternativa" del pensiero femminile di ricongiunzione tra pensiero e vita.

E' noto come il pensiero femminile o pensiero della differenza, sulla scia della filosofia heideggeriana e post-heideggeriana, abbia tentato di riformulare il discorso filosofico, le sue peculiari domande, secondo i modi e le intuizioni proprie della femminilità. Le donne hanno "impugnato" la pretesa maschile di dire la "Verità" sull'uomo, sul mondo, sulle relazioni; una verità troppo spesso marcata dall'esclusione del femminile, una verità cioè formulata nei modi propri di una parzialità sessuata che misconosce all'origine la natura relazionale e plurisemantica dell'"Essere".

E' stata una affermazione di Luisa Muraro a sollecitare questo approfondimento del rapporto tra pensiero femminile e verità attraverso la parola di una donna, Etty Hillesum. La filosofia - ha detto in una recente intervista la Muraro - "è impegno a rendere dicibile l'essere; impegno perché qualcosa di vero possa essere detto"; più avanti essa precisa che "il filosofo non è un testimone o un profeta e può tacere": il suo compito rimane l'impegno perché le parole si prestino a dire quello che è, l'impegno per la dicibilità del vero.

Il filosofo non è un testimone o un profeta, tuttavia l'impegno per la dicibilità del vero è in qualche modo sempre anche una trasmissione di esso (il vero non si inventa), se pure nelle forme dell'interpretazione; dunque, in qualche modo, questa dicibilità ha sempre a che fare con la testimonianza e la profezia (interrogandosi sul legame tra conoscenza e linguaggio, E. Levinas ha espresso il concetto della conoscenza come Dire teso verso un detto, come potenza del dire umano al servizio di una verità che lo supera e trascende). Quelli del "vero" sono sempre, in qualche modo, luoghi altri: l'approdo ad essi richiede una ricerca, un ascolto, una parola, una fatica diversi. Le donne, se pure dai luoghi del sapere non accreditato, hanno compiuto, lungo i secoli, questa fatica come e forse più degli uomini, che pure sono stati i detentori della dicibilità del vero attraverso il linguaggio filosofico; l'hanno compiuta per la loro maggiore capacità di coinvolgimento esistenziale, di dare visibilità e incarnazione all'astrattezza speculativa del vero. Aprire, con la propria anima e carne di donne, sentieri nuovi o interrotti della "verità"; essere voci altre nel deserto del senso esistenziale, dove la Babele dei discorsi sulla "verità" non ha il potere di risorgere il Dio morto di questo secolo, da Nietzsche ad Auschwitz: questo è stato il frutto dell'impegno sia logico che testimoniale di donne come Etty Hillesum, Simone Weil, Edith Stein, non a caso accomunate dall'appartenenza ad una medesima Tradizione. E' difficile d'altronde oggi - nel tempo della filosofia (e della teologia) dopo Auschwitz - produrre un senso che sia soltanto logico; rinunciare al linguaggio testimoniale, se si vuole avvicinare l’ "Essere" per una strada altra dall'astrattezza speculativa.

Etty (Esther) Hillesum, ebrea olandese, non era una filosofa. Dal marzo 1941 all'ottobre 1942 annotò in un diario il suo itinerario interiore: dal campo di smistamento di Westerbork, anticamera di Auschwitz, continuò a scrivere agli amici fino alla cartolina postale ("abbiamo lasciato il campo cantando"), datata 7 settembre 1943, gettata dal treno che la condusse ad Auschwitz, dove morì il 30 novembre; aveva ventinove anni. Un diario e alcune lettere sono dunque gli scritti in cui è stato detto esservi "un pensiero per il dopo Auschwitz". 

L'itinerario interiore della Hillesum si svolse contemporaneamente ai fatti storici esterni che andarono coinvolgendo in maniera sempre più drammatica la gente ebrea: questo dramma la sollecitò fortemente alla ricerca di un atteggiamento da tenere sia di fronte alla propria storia personale che alla "grande" Storia, l'abisso di assurdità e ingiustizia che si compiva sotto gli occhi di quella generazione di ebrei.

Etty è quel "nuovo" soggetto della speculazione la cui interrogazione radicale si traduce in coinvolgimento esistenziale, la cui speculazione origina dalla vita stessa e si riveste di essa (e, in questo caso, non muore con essa: "I suoi scritti continuano per lei la sua battaglia", ha osservato Tzvetan Todorov ). Etty fu una donna che riuscì a darsi delle risposte e meglio ancora a vivere una risposta, lasciando di sé, secondo le testimonianze, l'eredità di una "personalità luminosa" ; Todorov ritiene questa donna "un essere straordinario, e non del tutto appartenente a questo mondo".

Di fronte a quest'ultima affermazione, mi sembra importante sottolineare l'atteggiamento iniziale di Etty, segnato dalla consapevolezza di una grande fragilità di fronte alla vita: "Paura di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di fiducia. Repulsione" . Né il suo essere ebrea agì il lei come punto di forza a partire da una convinzione intellettuale di fede, benché oggi sia leggibile come forza di una Tradizione operante e rivissuta nella sua persona. Trovo che l'affermazione della propria debolezza come punto di partenza renda questa giovane donna ebrea estremamente "comprensibile" in quanto la sua umanità si fa significativa, conformemente alla vocazione di esemplarità del suo popolo, dell'umanità che tutti portiamo.

"Con tutta la mia chiarezza di pensiero a volte non sono che un povero diavolo impaurito", scrive ancora Etty all'inizio del suo diario : la sottolineatura del proprio limite nell'affermazione della paura è già un collocarsi nella verità all'inizio della domanda esistenziale che segna il suo itinerario di pensiero e di vita. Pronunciata nel momento e nel luogo storico delle estreme conseguenze della ragione totalizzante, della sua pretesa regolatrice, l'affermazione di Etty fa da involontario contrappeso alla presunta chiarezza della ragione cartesiana.

Etty Hillesum fu definita dai suoi amici e compagni di prigionia il cuore pensante del lager; lei stessa esprime più volte, nei suoi scritti, il desiderio di essere "l'anima" nuovamente vivente di una realtà dove la morte esistenziale precedeva di gran lunga quella fisica (questo suo essere cuore pensante mi sembra qualcosa di simile all'intuizione che della propria vocazione ebbe Teresa di Lisieux entro la realtà della Chiesa allorché sentì di esserne il centro amante). In un momento in cui la disperazione, il sentimento dell'assurdo, il conseguente rifiuto stesso di pensare erano la reazione più diffusa attorno a lei, questa donna svolse nel senso più eminente, per se stessa e per i compagni di sventura, il compito intellettuale dell'umano, l'esercizio del pensiero per ridare alla disgregazione e nudità dei fatti la veste di un senso veritativo. "Non si tratta di conservare questa vita ad ogni costo, ma di come la si conserva. Se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare - se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione, allora non siamo una generazione vitale. Certo non è così semplice, e meno che mai per noi ebrei; ma se non sapremo offrire al nostro mondo impoverito del dopoguerra nient'altro che i nostri corpi salvati ad ogni costo, e non un senso nuovo delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e desolazione, allora non basterà".

Agli occhi di Etty, il "grave rischio di diventare apatici e insensibili" era morte peggiore della deportazione: "Lo sentiamo dire ogni giorno e in tutti i toni: "Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, vogliamo dimenticare il più possibile". Certo, accadono cose che la nostra ragione non avrebbe creduto possibili. Ma forse possediamo altri organi oltre la ragione, organi che allora non conoscevamo, e che potrebbero farci capire questa realtà sconcertante" . Il "cuore pensante" è, forse, quest'organo oltre la ragione: una facoltà in cui, nell'integralità dell'esser umano, impegno critico e adesione all'esistenza siano di nuovo alleati nel compito ermeneutico fino al suo punto più alto: quell' amore per il reale di cui parlava S. Weil. Il pensiero di Etty Hillesum mi fa pensare proprio a quanto espresso dalle parole e dalla vita della Weil: non c'è filosofia perché non c'è amore del sapere, ma esiste amore della realtà. Amore del sapere e amore della realtà hanno comune cittadinanza se intesi come amore per la verità .

Amante della filosofia, della letteratura, della poesia, insegnante di russo per sopravvivere, all'amore per il sapere Etty dedicò il tempo della sua vita precedente all'internamento (che non fu forzato, bensì volontario) a Westerbork; un tempo che fu il primo nucleo formativo della sua esperienza. In relazione a quel tempo, la Hillesum sottolineò la continuità tra sapere e vita della sua esperienza, secondo una modalità conoscitiva cara al pensiero femminile; da Westerbork scrisse: "La miseria che c'è qui è veramente terribile; eppure, alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce - non ci posso fare niente, è così, è di una forza elementare - e questa voce dice: la vita è una cosa splendida. Ho amato tanto la vita quando ero seduta alla mia scrivania ed ero circondata dai miei scrittori, dai miei poeti, dai miei fiori. E là, tra le baracche popolate di uomini scacciati e perseguitati, ho trovato la conferma di questo amore" .

Questo amore per la vita, questa "accettazione amante" della realtà è motivo costante dei suoi scritti, ed è a mio parere il lascito più prezioso di Etty. Nella sua esperienza colpisce la capacità di cogliere la bellezza ovunque si trovi, disseminata nei particolari, anche se contraddittoriamente affiancata al male e al dolore (nel mezzo della miseria morale e materiale di Westerbork, un semplice arcobaleno provocò in lei lacrime di commozione). La vita è per lei infinitamente ricca perché tutto è sollecitazione dell'umano nel suo livello più profondo e prezioso, più degno di questo nome; tutto è una convocazione a una risposta, a una trasformazione interiore del male in bene. La vita, per Etty, è come un tutto di cui fanno parte ("esistono allo stesso titolo", direbbe S. Weil) tanto le cose belle come i gelsomini, i campi di grano e l'arcobaleno quanto i tedeschi e i campi di concentramento; ciò non vuol dire porre il male sullo stesso piano del bene, o, peggio, darne una giustificazione razionale: quella di Etty non è una sintesi razionale (per esempio, di tipo hegeliano) ma, appunto, una intuizione della verità posta ad un livello altro dal contingente, e passante per esso. 

C'è una sua affermazione che mi colpisce particolarmente: "Sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ogni giorno; ma sono anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una vita c'è posto per tutto. Per una fede in Dio e per una misera fine". Queste parole mi dicono quell'atteggiamento fondamentale, sottolineato da Todorov in Etty, che consiste nell'aver spostato se stessi come centro e misura di tutte le cose . Nella vita c'è posto per tutto perché, pur riconoscendo e soffrendo e non giustificando il male, Etty comprese che la vita non è possibile misurarla col metro logico della sola ragione umana, che decide totalmente (come stavano appunto facendo i tedeschi hitleriani, che lei si rifiutò di imitare nell'odio) cosa deve esserci e cosa no, cosa è bene e cosa è male.

Mi sono chiesta se l'accettazione di Etty Hillesum per la realtà, il suo "dimorare" nei nudi fatti, sia in qualche modo accostabile al messaggio delle "etiche dell'immanenza" che compongono il quadro della filosofia contemporanea, (cf. l'accettazione lucida e assoluta del reale di C. Rosset) . Ma quella di Etty è invece, al contrario, una prospettiva che celebra, con e nella vita, la dimensione trascendente dell'uomo, il cui riconoscimento è stato "ucciso" nel tentativo di liberarsi dall'aspetto "metafisico" della filosofia. Piuttosto che con le etiche dell'immanenza, il cuore pensante, il nuovo involontario cogito di Etty, ha maggiormente a che fare con le filosofie dell'alterità.

La celebrazione della vita di Etty non può infatti essere disgiunta da quella progressiva "assunzione" di Dio in sé che avvenne in lei contestualmente alla ricerca del senso della propria identità personale e storica. La prima "alterità" che compare nell'esperienza di Etty è quella di Dio: dialogando col proprio intimo -con tutta quella onestà intellettuale che è una delle migliori espressioni di Simone Weil- Etty giunse a scoprirlo come il luogo di una alterità preziosa dentro di sé (l'alterità nel cuore dello stesso di ricoeriana memoria) tanto profondamente incarnata nel suo essere da farle dire: "La parte più profonda e ricca di me, in cui riposo, la chiamo Dio" . Sì che la soggettività umana che Etty riscopre nell'esercizio del suo pensiero non è mai solipsismo o narcisismo, ma diventa una sorta di "cammino a due" ("la mia vita è ormai un ininterrotto dialogo con te, mio Dio") in progressiva apertura agli altri, al proprio destino, alla vita nella sua globalità e poi alla morte, e si fa testimonianza indiretta della presenza di Dio nel cuore dell'umano, interlocutore della sua solitudine; presenza come risposta, più che presenza per una risposta. In orizzontale, il rapporto di Etty con l'alterità (l'io nell'altro) si traduce nel privilegiare un modo di vivere che sia risposta alle attese dell'alterità (significative le ultime parole del Diario: "Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite") e nell'essere convinta che il male che l'altro palesa è una possibilità anche dell'io, della mia umanità: "Il marciume che c'è negli altri, c'è anche in noi; e non vedo nessun'altra soluzione, veramente non ne vedo nessun'altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. E' l'unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove...".

Da qui il rifiuto della "via corta e a buon mercato" dell'odio nei confronti dei tedeschi: "E' un problema attuale: il grande odio per i tedeschi che ci avvelena l'animo. Se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest'unico tedesco meriterebbe di essere difeso, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero" (parole che fanno pensare al testo biblico del dialogo tra Dio e Abramo in cui quest'ultimo intercede per Sodoma).

Spesso, le parole di Etty segnano il passaggio epocale dalla morte di una certa comprensione di Dio e dell'uomo alla necessità di un nuovo approdo del senso: la domanda che segna il pensiero contemporaneo, quale Dio dopo Auschwitz, è vicinissima alla dolente affermazione di Primo Levi, se questo è un uomo. In un luogo e momento storico dove tutto parlava di questo duplice e collegato "lutto" divino e umano Etty Hillesum riscoprì in se stessa la verità dell'uomo come luogo della sopravvivenza della presenza di Dio; intuì l'intimo legame delle sorti dell'uno e dell'altro e si dette il compito di custodire, preservare, più che la propria vita fisica, il proprio nucleo interiore più profondo: "Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me. Siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l'unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, Dio. Difendere fino all'ultimo la tua casa in noi". Una verità non certo di facile apparenza, quella della presenza di Dio nell'uomo; una verità "difficile", per la quale occorreva il duplice sguardo di chi quella Presenza divina la portava, quale relazione vivente, in sé: in una lettera, Etty stessa, di fronte al volto degli aguzzini che caricavano il treno per Auschwitz, dirà "mi sono trovata nei guai con la Parola che è il tema fondamentale della mia vita: "E Dio creò l'uomo a sua immagine. Questa Parola ha vissuto con me una mattina difficile" .

Quella di Etty quindi più che la testimonianza di una fede è testimonianza di una relazione. Il pensiero femminile oggi sottolinea particolarmente l'importanza della dimensione incarnata quale modalità peculiare del rapporto femminile con Dio. Particolarmente vicine all'esperienza di Etty mi appaiono le parole di C. Heyward riportate in un recente saggio di L. Irigaray: "Nella relazione con Dio, Dio è commosso dall'umanità e dalla creazione. Con noi, grazie a noi, attraverso di noi Dio vive, Dio diviene, Dio cambia, Dio parla, Dio agisce, Dio soffre e muore nel mondo" . Nello stesso saggio anche A. Zarri, parlando di una cultura alternativa veicolata dal femminile, esprime qualcosa di molto vicino alla testimonianza vissuta di Etty: "L'uomo del modello antropologico prevalente ha ben scarse capacità contemplative; la preghiera, questo modo di essere, di vivere e di venire vissuti dal Dio che abita in noi, quest'attitudine di gratuità, di ascolto, di concavo silenzio, gli è assai difficile" . Così si esprime Etty nel suo diario: "In fondo, la mia vita è un ininterrotto ascoltare me stessa, gli altri, Dio. E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell'altro. Dio a Dio". "Dio a Dio": questa espressione del cuore del mistero-in-rapporto uomo-Dio - è, potremmo dire, la sintesi filosofico- teologica di questa donna nel secolo della parola delle donne.

Etty Hillesum fu una donna libera in mezzo alla schiavitù umana prodotta dai nazisti. Un altro motivo ritornante nel suo pensiero è la consapevolezza della non - determinanza dei fatti esterni di fronte all'estrema libertà lasciata alla creatura umana, quella di decidere il proprio comportamento ("quel che un uomo ha in mano è il proprio orientamento interiore verso il destino" ). E' difficile esplicitare il senso profondo di questa libertà: una riflessione casuale di Etty è illuminante. Ripensando a un episodio del caos della deportazione, in cui un uomo aveva scelto spontaneamente di salire sul treno per Auschwitz ribadendo nonostante tutto il proprio diritto alla "libertà di partire quando piaceva a lui", Etty scrisse: "[Quell'episodio] mi ha fatto pensare a quel giudice romano che aveva detto a un martire: "Sai che io ho il potere di ucciderti?", al che il martire aveva risposto: "Ma sai che io ho il potere di essere ucciso?" (come non pensare all'episodio evangelico di Gesù e Pilato, in Gv 19, 10-11, in cui, poco prima, c'è anche la famosa e significativa affermazione di Pilato di fronte ad un Cristo-uomo abbattuto e sanguinante: "Che cos'è la verità?"). Nella vita di Etty si manifesta la stessa cosa: pur nel progredire della fragilità della propria vita, della esposizione agli eventi, alla violenza altrui, fino alla morte fisica, nessuno ebbe il potere di uccidere la sua anima, che è tuttora parlante; il vero potere fu piuttosto il suo, di dare la propria vita nell'assunzione consapevole, quotidiana e appassionata di essa; nell'appropriarsi del suo destino nello stesso tempo in cui apparentemente lo subiva da mano altrui. Per cui, a breve distanza dalla morte, Etty Hillesum, questa vedetta - dal luogo dell'orrore del reale - di un'altra verità, scrisse: "La strada principale della mia vita è tracciata per lungo tratto davanti a me e già arriva in un altro mondo. La vita qui non consuma troppo le mie forze più profonde - fisicamente si va forse un po' giù e spesso si è immensamente tristi - ma il nostro nucleo interiore diventa sempre più forte. Vorrei che fosse così anche per voi. Perciò vi raccomando: rimanete al vostro posto di guardia, se ne avete già uno dentro di voi"..

 

Biografia di Etty Hillesum

il Dio di Etty Hillesum

dal Diario 1941-1943
A te cuore pensante

Il mio amore ha mille anni

Opere di Etty Hillesum
Il cuore moltiplicato del mondo

L'amore per la vita

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