IL
GIOCO NEL MEDIOEVO
[...]
Quando siamo alla taberna,
non
ci curiamo piu’ del mondo;
ma
al giuoco ci affrettiamo,
al
quale ogni ora ci accaniamo.
Che
si faccia all’osteria,
dove
il soldo fa da coppiere,
questa
e’ cosa da chiedere:
si
dia ascolto a cio’ che dico.
C’e’
chi gioca, c’e’ chi beve,
c’e’
chi vive senza decenza.
Tra
coloro che attendono al giuoco,
c’e’
chi viene denudato,
chi
al contrario si riveste
chi
di sacchi si ricopre.
Qui
nessuno teme la morte,
ma
per Bacco gettano la sorte. [...]
Anonimo, In taberna quando sumus, XII secolo
[...]
Quando si parte il gioco de la zara,
colui
che perde si riman dolente,
repetendo
le volte, e tristo impara;
con
l’altro se ne va tutta la gente. [...]
Dante,
Purgatorio, VI, vv. 1-4
Le
taverne erano considerate nel XIII secolo dei luoghi di malaffare a causa
dei suoi frequentatori piu’ assidui, vagabondi senza fissa dimora, goliardi,
meretrici e giocatori d’azzardo. Qui infatti si praticava, piu’ che in altri
luoghi, il gioco illecito.
Nel
XIII secolo le due forme principali di gioco erano i “dadi" e le “tavole".
Alea
era sinonimo di ‘tavola’:
indicava prevalentemente la pedina che veniva utilizzata in tutti i giochi
da tavola. Il taxillus indicava invece il dado puntato di sei lati; il suo nome
deriva dal termine talus che veniva
utilizzato per indicare l’ossetto del piede posteriore degli agnelli chiamato
anche astragalo. Questi ossetti venivano utilizzati dai bambini per giocare
durante le festivita’ pasquali; presso i popoli indo-germanici erano invece
adoperati per interrogare il destino e riceverne il responso.
Il
gioco da tavola piu’ praticato era quello della trenta pedine, le alee che, collocate su un
tabolarium, cambiavano posto in
base alla combinazione dei dadi che venivano lanciati.
La
zara era un gioco fatto
con tre dadi che venivano disposti su un banco: vinceva chi, prima che i dadi
fossero lanciati, indovinava la combinazione vincente, proclamandola ad alta
voce. Il termine zara si riferiva
alla combinazione sfavorevole, cioe’ a quella che aveva meno probabilita’
di uscire.
Il
sozum era un gioco simile
alla zara in cui vinceva chi, lanciando
i dadi, totalizzava il numero maggiore. A partire dal XV secolo il gioco della
zara, con le sue varianti, sara’ sostituito dai giochi di carta o naibi
(tarocchi).
La
gherminella era un gioco d’abilita’ molto diffuso, consisteva nel
far apparire e scomparire una cordicella dentro una bacchetta cava tenuta
fra le mani del giocatore.
Lo
sbaraino era invece un
gioco da tavola in cui vinceva chi, lanciando due dadi, per primo sbarazzava
la tavola dalle pedine.
In
tutti gli statuti delle citta’ italiane dei secoli XIII-XIV era permesso il
gioco lecito; il gioco d’azzardo era tale solo se interessato da una scommessa
in denaro. Era permesso giocare durante il periodo natalizio, cosi’ come durante
le feste dei santi locali e i giorni di fiera. Il gioco era particolarmente
tollerato nei dodici giorni intorno a Natale, “le liberta’ di dicembre”, feste
considerate un’eredita’ di antiche festivita’ pagane come i Saturnalia.
In questo breve periodo era consentito il sovvertimento provvisorio dell’ordine,
e le proibizioni contro l’azzardo si facevano piu’ lievi.
Il
diritto di giocare in pubblica piazza conduceva direttamente alla nascita
della bisca pubblica, cioe’ alla baratteria. In alcuni comuni dell’Italia
settentrionale la baratteria era tassata, indice del grande giro d’affari
che gravitava intorno al gioco pubblico.
Nel
1287 ad Amalfi era in vigore una gabella sul gioco della zara
per una somma annua di 45 once. Questo dimostra la presenza della baratteria
anche in Italia meridionale.
I
barattieri di solito erano individui di condizione vile che, non avendo ne’
lavoro ne’ fissa dimora, conducevano una vita irregolare e dissoluta. Sono
loro che organizzavano all’interno delle citta’ le attivita’ illecite; conosciuti
dalle autorita’ per le attivita’ clandestine che praticavano, spesso servivano
il comune nei lavori piu’ umili come quello del boia o del pulitore di pozzi.
L’attivita’ del barattiere si incrociava con quella delle meretrici; accomunati
dall’illegalita’ e dallo stesso luogo di ritrovo, la taberna, spesso intrecciarono rapporti di lavoro in quanto i barattieri-giocatori
divennero ben presto i protettori delle prostitute.
[...]
stabiliamo che coloro che giocano a dadi, facendolo di continuo, al punto
di non avere altra attivita’ della quale vivere, i frequentatori di taverne,
che eleggono le taverne come proprio ambiente naturale, coloro che possiedono
giochi d’azzardo o dadi per metterli a disposizione dei suddetti giocatori,
siano dichiarati infami, e percio’ non siano ammessi a testimoniare ne’ a
ricoprire un pubblico ufficio [...]
Le
Costituzioni di Melfi, III, XC: L’infamia delle alee e dei dadi
I
giocatori quindi erano accusati di infamia e per questo non erano ammessi
a testimoniare ne’ a ricoprire un pubblico ufficio. Se “l’infame" era un giudice,
un avvocato, un notaio, venivano rimossi dal loro incarico. Se l’infame era
un cavaliere, era allontanato per sempre dalla testimonianza e perdeva il
diritto di adire i tribunali particolari concessi alle persone insignite del
cavalierato.
Nelle
Costituzioni di Melfi, emanate nel 1231 dall’imperatore Federico II, il gioco
d’azzardo non era proibito in funzione di se’ stesso, ma per le conseguenze
che avrebbe potuto procurare: la frode e la bestemmia.
La
societa’ medievale considerava molto negativamente l’imprecazione contro Dio
e la Madonna: la bestemmia, atto supremo di offesa, aveva il potere di attirare
la collera divina non solo sul singolo individuo, autore dell’imprecazione,
ma su tutta la collettivita’, minacciandone l’integrita’.
Gia’
nelle Assise di Messina (1220 circa) l’imperatore, pur riconoscendo il diletto
procurato dal gioco dei tasselli e dei dadi ai suoi sudditi, proibiva il gioco
d’azzardo in quanto occasione di bestemmia.
La
pena per i giocatori d’azzardo era molto severa, infatti chi si destreggiava
con il gioco dei tasselli veniva mutilato sia della lingua che della mano
destra, per evitare all’uomo di continuare a giocare e a bestemmiare.
Il gioco era considerato dunque un delitto contro i buoni costumi in quanto spingeva il giocatore a inveire contro la divinita’ turbando la tranquillita’ della comunita’, nonche’ l’integrita’ del singolo. Erano frequenti infatti, durante i giochi, le risse che, a volte, sfociavano in omicidi.
Per
il predicatore francescano Bernardino da Siena, vissuto nel XV secolo, il
gioco d’azzardo rappresentava un furto continuo ai danni del prossimo, un’appropriazione
indebita di denaro che un vincitore guadagnava senza lavorare. Il gioco avvalendosi
del tempo di Dio poteva considerarsi, per la facilita’ con cui si accumulava
denaro, alla pari dell’attivita’ dell’usuraio. L’azzardo alimentava l’avarizia
e la cupidigia, il giocatore disposto a tutto per vincere e guadagnare sperperava
cosi’ interi patrimoni; alla rovina materiale seguiva quella personale.
Per
i predicatori medievali l’atmosfera delle taverne, gli eccessi che qui venivano
praticati conducevano gli uomini alla depravazione, ed e’ per questo che i
luoghi maledetti venivano definiti i “templi
del diavolo".
Un luogo caratterizzato dall’attivita’ illecita, dalla liberta’ sessuale,
dalla bestemmia e dall’inganno.