Istituto Comprensivo Statale
"T. Caggiano" Taurasi - Avellino


Chiare, fresche e dolci acque ... Il fiume Calore: una storia millenaria

Indice
L’Istituto Comprensivo
Presentazione
Presentazione
Introduzione
La storia del Calore - Il fiume Calore - L’antico “Calor” - Dove è finita l’acqua del Calore? - L’acquedotto Cassano-Caposele - Scheda di approfondimento n.1 - Scheda di approfondimento n.2
Il Calore in rime
I ponti - Ponte Appiano - Ponte Medievale - Ponte “re Zoccoletti” - Ponte di S. Anna - Il ponte dei Diavoli - Il ponte della Lavandaia - Le passerelle - Scheda di approfondimento n.3 - Scheda di approfondimento n.4
Le antiche tecniche di pesca - Pesca con il “caggiuolo” - Pesca con l’idrossido di potassio - Pesca con la polvere pirica - Pesca con i capi - Pesca con le mani - “Preta ’ncoppa a preta” - Pesca “c’o cannizzo”
Tutti al “mare”
I mulini - Preistoria dei mulini - Il levigatoio - Il mortaio - Il levigatoio a tramoggia - Macina girevole - Il macinello - Il pistrino - Mulini ad acqua - Notizie sugli antichi mulini di Cassano Irpino - Il mulino di Castelfranci - Il mulino di Lapio: ricchezza dei Filangieri - I mulini di Mirabella Eclano - Costruzione del mulino comunale di Montella - Notizie sugli antichi mulini di Paternopoli - Gli antichi mulini di Taurasi


Chiare, fresche e dolci acque ... Il fiume Calore: una storia millenaria

 Collana delle pubblicazioni dei lavori realizzati dalle scuole ai sensi della Legge 39/85 Anno 2003 / N° 11

 Pubblicato con il contributo:

Regione Campania

Provincia di Avellino

Comunità Montana “Terminio-Cervialto”

Comune di Taurasi

Comune di Luogosano

Tutti i diritti sono riservati, la riproduzione con qualsiasi mezzo effettuata, è severamente vietata

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CHIARE, FRESCHE E DOLCI ACQUE … IL FIUME CALORE: UNA STORIA MILLENARIA

 

 
“Chiare, fresche e dolci acque” (F. Petrarca) - Foto P. Renna -

 

Coordinatori: Prof.ssa Mazzarella Vincenza Gerarda, Prof. Pizzano Baldino  
Realizzazione Grafica: Prof. Marano Orazio, Prof. Pizzano Baldino
(Adattamento HTML ed Edizione WEB a cura di Stefano Casale)

Hanno collaborato:
Prof.ssa De Simone Giuliana Prof.ssa Panza Adelina Prof. Palmariello Raffaele

Si ringraziano:
Il Presidente della Regione Campania, Antonio Bassolino Il Presidente della Provincia di Avellino, Ing. Francesco Maselli Il Presidente della Comunità Montana “Termino-Cervialto, Dott. Nicola Di Iorio Il Sindaco di Taurasi, Prof. Emiliano De Matteis Il Sindaco di Luogosano, Prof. Giovanni Ferrante Il Sindaco di Morra De Sanctis, Dott. Rocco Di Santo Il Dirigente Scolastico dell’I.C. “L. De Simone” di Guardia dei Lombardi, Prof. Angelo Cobino Il Dott. Guido Penta e la consorte Marinella Il Sig. Elio Capobianco Il Sig.Felice D’Amato Il Sig. Rinaldo De Angelis Il Sig. Gerardo Morena L’Arch. Italo De Blasio Il Prof. Annibale Cogliano Il Prof. Eugenio Renna Il Prof. Gennaro Granata Il Prof. Prisco De Luca Il Sig.Antonio Fratestefano

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L’Istituto Comprensivo è intitolato al capitano “Teobaldo Caggiano”, eroe della nostra terra, morto a Corfù, il 24 settembre 1942, trucidato dai soldati tedeschi. Teobaldo Caggiano nacque il 24 novembre del 1914 a Taurasi in provincia di Avellino. Fedele interprete delle direttive superiori, organizzò e diresse l’azione dei propri subalterni in modo particolarmente efficace, distinguendosi per zelo, capacità professionale, alto senso del dovere e spirito di sacrificio.

 
Ritratto del Cap. Teobaldo Caggiano realizzato dal “maestro d’arte” Felice D’Amato

Molti furono gli atti di valore patriottico da lui compiuti nella seconda guerra mondiale per cui ha meritato attestazioni di lode. Partecipò, con la 1a compagnia del 7o battaglione mobile carabinieri, alle operazioni di guerra alla frontiera greco-albanese. Si distinse brillantemente nella lotta per la liberazione e per la difesa dell’isola di Corfù in Grecia, assediata da ingenti forze tedesche. Catturato dai nemici, fu barbaramente trucidato. Per questi atti eroici, per il fulgido esempio di tanta dedizione agli ideali della Patria, per le sue cospicue doti di valente studioso e professionista, la figura del capitano Teobaldo Caggiano oggi è collocata nel novero degli eroi della Resistenza.

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CLASSI IIIA – IIIB ANNO SCOLASTICO 2002 – 2003

DENTE Luana GENNUSO Cassandra GENZALE Francesco G. IORIO Mariagrazia MORENA Tonino PANZONE Annibale PASTORE Antonio PESCATORE Mario PETRONE Maria Stella PORCIELLO Maria ROSSETTI Iolanda TAMMARO Simona VENEZIA Fabio ALFIERI Carmela CAPUTO Ugo CEFALO Corine DANIELE Alain Alfred DE PRISCO Cristian Carmine DE PRISCO Luca DE SIMONE Valentino GAMBINO Marianna LONARDO Martina LUONGO Valerio PALERMO Michelangelo PIZZANO Paolo PORCIELLO Daniele SANTOSUOSSO Sabrina

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Presentazione Il caro amico Angelo Di Talia, Dirigente dell’Istituto Comprensivo “T. Caggiano” di Taurasi, mi ha incaricato di presentarvi questo lavoro svolto dalle classi III A e III B nell’anno scolastico 2002/2003. Vi dico subito che gli alunni delle suddette terze classi, sotto la guida dei docenti coordinatori, hanno prodotto una grande ed accurata ricerca interdisciplinare. Il fiume Calore, che i Romani chiamavano “Calor” è una parte essenziale della storia della nostra Provincia e ciascuno di noi dovrebbe conoscere in maniera sempre più ampia ed approfondita. Viene opportunamente evidenziato con riferimenti storici come le più antiche civiltà si svilupparono lungo i fiumi. Lungo il fiume Calore, l’uomo si insediò sin dai tempi preistorici, come è testimoniato dalle scoperte archeologiche avvenute nei comuni di Mirabella Eclano, Montemiletto, Torre le Nocelle e Taurasi, sin da circa quarantamila anni fa. Del fiume Calore e delle sue sorgenti utili per l’irrigazione, per la pesca, per i mulini e persino per la navigabilità e, quindi, per le comunicazioni ed il commercio si dice molto e tutto ciò che viene detto, viene anche rappresentato con disegni, schemi e fotografie. Oggi, purtroppo, l’Irpinia, nonostante le sue grandi risorse idriche del passato, non può programmare uno sviluppo agricolo-ambientale per carenza di acqua. Infatti, in quest’ultimo periodo, il fiume Calore è diventato “un rigagnolo maleodorante”. Il Calore ha dato tanto: vegetazione, prodotti agricoli, energia elettrica. È servito ad alimentare l’acquedotto Cassano-Caposele e l’intero acquedotto delle Puglie. Oggi appare stanco e malato. Ai mulini alimentati con le sue acque, alle varie tecniche impiegate per la molitura del grano, alla pesca e ai vari modi impiegati per catturare i pesci viene riservato ampio spazio. Complessivamente si può affermare che trattasi di un lavoro originale e molto interessante sotto molteplici punti di vista. Considerevole è la bibliografia citata che può servire per eventuali ulteriori approfondimenti. Auguri, pertanto, di tanti successi e complimenti per il lavoro svolto.

Preside Pasqualeantonio Gambino

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Presentazione Pensare e praticare la Scuola dell’autonomia senza basare l’attività didattico-educativa sulla costruzione di un nuovo rapporto tra mondo scolastico e territorio è semplicemente assurdo, perché ogni azione sarebbe a dir poco pretestuosa se non impensabile. Il territorio, la città, il paese, il quartiere sono fonti ricche di stimoli reali e virtuali che determinano il vissuto del ragazzo, il suo sapere, di oggi e di domani, con il suo essere individuo irrepetibile. Tocca spesso, però, alla scuola saper rendere vivi, palpitanti e interessanti questi “mondi”, “mettendosi in rete” per aprirsi a tutti i soggetti e spalancare le sue porte per esplorare la realtà. L’importanza di un fiume, nella società e nell’economia di un popolo, si è rivelata decisiva fin dall’apparire dell’uomo sulla terra: non sfugge, certo, l’importanza avuta dal fiume Calore per gli “Hirpini” e per i Samnites in particolare. Questo è ciò che gli alunni delle classi terze A e B dell’Istituto Comprensivo “T. Caggiano” settore media di Taurasi hanno saputo e voluto fare sotto la guida attenta, capace, stimolante e persuasiva dei docenti, mai però invasiva o limitante, per scoprire e descrivere quello che era il fiume Calore ieri e quello che è oggi: “pattumiera assetata”! Ebbene, il fiume Calore, per le persone di una certa età, è, purtroppo nel ricordo, simbolo di vita, di vita allegra e spensierata, quando non solo ci si bagnava in esso, ma ci si dissetava, anche, senza alcun pericolo. Chi oggi si affaccia da Taurasi, balcone naturale sul Calore, su quella che una volta era una “valle incantata”, a stento scorge tra gli alberi un rigagnolo: il fiume Calore! Eppure lì c’era e c’è ancora il fiume; ma quanta differenza, quanta acqua è passata sotto i ponti e sotto le “passerelle”. Acqua che ora non passa più perché disseta altri popoli e irriga i territori di altri paesi rendendoli fertili e produttivi. Chissà se queste popolazioni conoscono veramente l’esistenza del Calore ed il suo ricco bagaglio di storia millenaria. Eppure è quello stesso Calore che segnò tanta gloriosa storia nei tempi che furono e che oggi … langue, quasi abbandonato al suo destino …: morire! Questi meravigliosi giovani, con il loro appassionato studio, rivogliono il “loro” fiume Calore, rivogliono il Calore di cui tanto hanno sentito parlare, rivogliono il fiume dei loro nonni e dei loro padri. Sognano forse? Chissà! Sognare a quattordici anni è lecito, bello e necessario. Noi con loro, però, continueremo a parlare dell’impetuoso fiume Calore, delle piene straripanti dei misteri e delle storie affascinanti vissute sulle sue rive per ricordare quanto per noi, alla loro età, era lecito considerarlo il “nostro mare”. Un ringraziamento particolare va ai docenti per lo spirito di abnegazione, al di là di ogni possibile ricompensa, per aver “dedicato” il loro tempo nella ricerca, nella guida e nel sostegno degli allievi. Ai ragazzi va il plauso per aver posto tanto impegno e tanta cura nel ricercare, catalogare, selezionare, studiare i vari documenti e nell’aver prodotto un “capolavoro” di impegno. Il giudizio sul lavoro ognuno lo trarrà da sé, con la consapevolezza che non si è voluto stravolgere quelli che sono stati i pensieri, le idee e le proposte dei nostri ragazzi. Ai lettori e alle Istituzioni preposte l’augurio di una riflessione sulla “morte del Calore” e un impegno, per quanto di propria competenza, nel farlo risorgere.

Prof. Angelo Di Talia Dirigente Scolastico dell’I. C.. “T. Caggiano” Taurasi

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Introduzione Può un sogno dare l’avvio ad un lavoro? Si, è proprio ciò che è accaduto. Dal sogno o, meglio dire, dall’incubo vissuto da una nostra compagna e raccontato in classe: “Fontane senza zampilli, ghiaccioli senza ghiaccio, rubinetti a secco... ..” è nato il desiderio di conoscere, quanto più possibile, le risorse idriche del nostro Paese. Durante le nostre ricerche siamo venuti in possesso di una serie di documenti che ci hanno incuriosito a tal punto, da far nascere in noi il desiderio di conoscere sempre di più; di allargare i nostri orizzonti, fino a giungere ad uno studio sistematico ed approfondito del più importante bacino idrografico della nostra provincia: il Calore. Il fiume, un tempo ricco di acqua, culla di antiche civiltà (le cui vestigia sono ancor visibili lungo le sue sponde), luogo di amenità, oggi ricorda solo pallidamente il glorioso passato. Il nostro lavoro, prettamente scientifico, pertanto, ha voluto dare un sia pur modesto contributo, per porre fine al suo lento, ma inesorabile declino, dovuto al prosciugamento, che, come abbiamo dimostrato, non è stato determinato solo dalle variazioni climatiche, ma dal prelevamento delle sue acque da parte della Regione Puglia. Tante le domande che ci siamo posti, ad alcune di esse non siamo stati in grado di trovare delle risposte; tanti i ricordi con cui ci siamo confrontati; tante le ricerche effettuate. Ci siamo improvvisati, con l’aiuto dei nostri docenti, poeti, ingegneri, chimici, artisti, “topi di biblioteca” . . ., nell’intento di capire per proporre soluzioni al problema. Non ci aspettavamo di riuscire a reperire un numero tanto considerevole di documenti e di oggetti, che i Taurasini conservano con cura e gelosamente. Il nostro ringraziamento va a tutti coloro che hanno collaborato fornendoci notizie e materiale necessario ed, in particolare, al Dirigente Scolastico Prof. Angelo Di Talia, che ha creduto fermamente nel nostro lavoro, dandoci sempre il suo appoggio, attivandosi per reperire i fondi necessari per la pubblicazione. Grazie a lui noi possiamo, oggi, presentare il nostro libro, orgogliosi del nostro lavoro e fiduciosi che esso possa avere una ricaduta positiva su quanti lo leggeranno.

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FONTANE SENZA ZAMPILLI, GHIACCIOLI SENZA GHIACCIO, RUBINETTI A SECCO, …

 
C.da Orno - Fontanarosa (1955) - Foto P. Renna -

 

 
Fontana Cortile De Rosa - Fontanarosa (1955) - Foto P. Renna -

Simona, Simona, è la voce di mia madre che chiama, il tono è concitato. Corro. Oh! mio Dio, in giardino: alberi rinsecchiti, fiori appassiti, animali sfiniti…, sembra un immenso deserto. Acqua, acqua! Sembra sussurrare il vento. Acqua, acqua! Chiedono i fiori. Il sole arde, i miei genitori si agitano; tutto sembra morire. Guardo lontano, osservo il mio paesino: è spettrale. “Cosa accade”? Corro in cucina, apro i rubinetti, nulla, nulla! Un silenzio totale mi circonda. “Il pozzo”, che stupida a non averci pensato prima!
“Cosa succede? Dov’è l’acqua”? Alla fontana del paese, presto! Mi armo di recipienti, ma una nuova delusione mi attende. Le persone sembrano impazzite; fontane senza zampilli, bestie ansimanti, carcasse di animali, polvere ovunque, terra arsa e solcata da crepe, paesaggi lugubri. “Simona, Simona, svegliati”! E’ la voce di mia madre; qualcuno mi scuote con fermezza, apro gli occhi e mi guardo intorno! Oh! I miei fiori sono lì, il mio bel pesco fiorito! Tutto è al suo posto, la natura è quella di sempre. Allora è stato solo un brutto sogno? Si, ma per alcuni è realtà!

Gli alunni

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LA STORIA DEL CALORE

Il fiume Calore Il fiume Calore, chiamato dai Romani “Calor”, nasce ai confini tra la provincia di Avellino e Salerno da una dorsale montuosa, che con le cime dei monti Accèllica (1660 m), Serralonga (1210 m) e Sovero (1049 m), costituisce la propaggine nord-occidentale del sistema orografico dei monti Piacentini. Esso nasce dalla stessa montagna che genera il Sabato, che è l’Accèllica, le rispettive sorgenti distano in linea d’aria poche centinaia di metri. I due corsi d’acqua hanno origine dalle falde del Varco Colle Finestra e, precisamente, il Calore dal versante Nord, mentre il Sabato dal versante Sud. Quest’ultimo, che diventa affluente del Calore a Benevento, si orienta subito verso Ovest, segnando, per un lungo tratto, il confine fra la provincia di Salerno e Avellino.

 
Cassano Irpino: mucche al pascolo in prossimità della Sorgente Bagno della Regina, già affluente del fiume Calore (1950) - Foto P. Renna -

Il Calore percorre inizialmente un tratto montano di circa 8 Km in direzione SW-NE, successivamente descrive un’ampia curva, aggirando il centro urbano di Montella, per poi assumere immediatamente una direzione appenninica (NW). Tale direzione viene conservata, per circa 47 Km, fino alla stazione di Apice, che è il primo paese della provincia di Benevento ad essere bagnato dal Calore. Qui, dopo aver segnato un arco di 90°, si orienta verso Ovest, mantenendo tale direzione fino alla confluenza con il torrente Ienga in territorio di Castelpoto. Il corso d’acqua a questo punto, si dirige verso Nord proseguendo per 8-10 Km. Prima del centro abitato di Ponte riprende la direzione Ovest e, dopo un percorso di circa 25 Km, va a confluire nel Volturno. Il fiume Calore ha una lunghezza di 115 Km. Il suo bacino idrografico (fig.1) interessa 91 comuni delle province di Avellino, Benevento e Campobasso. Sono 16 i Comuni bagnati dal Calore in provincia di Avellino, essi sono: Montella, Bagnoli Irpino, Cassano Irpino, Nusco, Montemarano, Castelvetere sul Calore, Castelfranci, San Mango sul Calore, Paternopoli, Luogosano, Lapio, Taurasi, Montemiletto, Torre le Nocelle, Venticano e Mirabella Eclano. Come si può desumere, due di essi riportano nel nome la dicitura “sul Calore”.

Misura del letto del fiume Calore e dei suoi affluenti in Provincia di Avellino

Letto principale Km Affluenti di destra Affluenti di sinistra
Dal suo inizio (varco Colle Finestra) fino al ponte di S. Francesco a Folloni 10,500 44,000 20,500
Dal ponte di S. Francesco a Folloni alla stazione di Castelfranci 12,000 34,500 4,000
Dalla stazione di Castelfranci a quella di Lapio 13,000 119,800* 24,500
Dalla stazione di Lapio a Ponterotto, confine della Provincia di Benevento 11,200 20,000 47,000
TOTALE 46,700 218,300 96,000

*In questo dato è compresa la lunghezza del torrente Fredane (20 Km) e dei suoi affluenti (99,800 Km).

Sommando tutti i corsi d’acqua, primari e secondari, che interessano il bacino idrografico del Calore, si ottiene una lunghezza pari a 2078 Km (duemilasettantotto chilometri) di cui circa 1225 in provincia di Avellino, 760 di Benevento e 93 di Campobasso, tanto da formare una valle lunga il doppio dell’Italia. La maggior parte degli affluenti sono valloncelli, valloni e torrenti di piccola lunghezza che scorrono in strette valli, la cui portata è notevole quando ci sono piogge abbondanti e nulla durante l’estate o negli inverni rigidi e scarsamente piovosi. Non mancano, però, affluenti di una certa importanza come: il Sabato, l’Ufita, il Miscano, il Tammaro ed il Fredane.

 
Fig.1- Reticolo idrografico del fiume Calore (da S. Equino).

Bibliografia
- M. Galasso, La conservazione dell’ambiente naturale in Irpinia, Economia Irpina edita dalla Camera di Commercio di Avellino, Anno XXXVIII, n.3/4, 2000.
- E. Gramignani, Il bacino di bonifica del Calore, Economia Irpina edita dalla Camera di Commercio di Avellino, 1968.
- S. Equino, Riflessione sul degrado ambientale del fiume Calore (Campania), Economia Irpina edita dalla Camera di Commercio di Avellino, Anno XXXVIII, n.3/4, 2000.
- S. Equino, Una diga per salvare il Calore in agonia, Il Mattino, 22/09/2000.

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L’antico “Calor”

L’uomo della preistoria è stato per lo più nomade, o meglio seminomade che, con il suo gruppo parenterale, era spesso alla ricerca di un territorio migliore, più ricco di caccia e più ospitale. La sia pur limitata permanenza in un luogo imponeva, tuttavia, la costruzione di “abitazioni” le quali erano delle semplici capanne pavimentate con delle zolle erbose o con delle pietre spianate, quando il luogo le metteva a disposizione. L’uomo primitivo, nella sua vita da nomade, preferiva spostarsi lungo i fiumi e abitare nelle sue vicinanze. I fiumi, da sempre, infatti, hanno costituito una strada naturale le cui rive pianeggianti, durante la stagione invernale, non erano esposte al freddo intenso e raramente erano coperte di neve. Lungo i corsi fluviali, l’uomo aveva a disposizione acqua e erbe per il bestiame, la possibilità di praticare la pesca e tendere agguati agli animali che andavano ad abbeverarsi; allontanandosi dal fiume, invece, la vegetazione era più alta e più fitta, il camminare era meno agevole e più pericoloso e diminuiva anche la possibilità di avvistare gli animali predatori. Se ai vantaggi sopraindicati si aggiunge l’irrigabilità e la fertilità dei terreni derivante dallo straripamento dei fiumi, appare evidente il motivo per cui i primi stanziamenti umani sorsero lungo le rive dei fiumi. Alcuni degli insediamenti, con il passare dei secoli o millenni, fecero registrare una crescita, non solo demografica, ma anche nell’organizzazione sociale, trasformandosi in città cinte da mura e ricche di palazzi. Non a caso, le più antiche e potenti civiltà si sono sviluppate lungo i grandi fiumi (fig.2).

 
Fig.2 - I fiumi: culle delle antiche civiltà

 
Fig.3 - Principali siti preistorici della media e alta valle del Calore 4. Montemiletto, cava Brogna, paleolitico medio; 12. media valle del Calore (?), neolitico medio e medio eneolitico; 20. Torre le Nocelle, neolitico finale, eneolitico; 27. Mirabella Eclano, Madonna delle Grazie, eneolitico; 28. Taurasi, San Martino, eneolitico; 29. Taurasi, Macchia dei Goti, eneolitico; 30. Taurasi, Fontana Lardo, eneolitico; 37. Taurasi, Pozzillo, bronzo antico; 41. Mirabella Eclano, S. Pietro – Torre d’Elia, bronzo antico; 48. Mirabella Eclano, Cernito, bronzo medio; 50. Bagnoli Irpino, Portara, bronzo (?).

 

 
Fig.4 - Carta topografica del territorio di Montemiletto2

 

Relativamente al fiume Calore, nel tratto che bagna la provincia di Avellino, dai dati messi a disposizione dall’archeologia ufficiale, possiamo affermare che le prime tracce della presenza dell’uomo sono state rinvenute tutte nella media valle del Calore: MontemilettoTorre le Nocelle, ma soprattutto sul territorio di Taura-si e di Mirabella Eclano, (fig.3)1. I primi rinvenimenti, in queste zone, risalgono al 1976-1977 e provengono dal giacimento del paleolitico medio scoperto nei pressi del paese di Montemilet-to, nella cava di Brogna, (fig.4) “dove i lavori di estrazione del materiale misero in luce un lembo di deposito terroso stra-tificato residuo del riempimento di una grande frattura beante che si apriva nei calcari dell’allora piano di campagna, a circa 20 m di altezza rispetto al piazzale della cava. Il giacimento, scoperto da Cesare Porcelli, e da lui segnalato nel 1975 all’Istituto di Antropologia e Paleontologia Umana di Siena, fu oggetto di una prima visita nel corso dello stesso anno, in occasione di una serie di sopralluoghi a numerosi giacimenti paleolitici del territorio di Avellino e Benevento. L’importanza della serie stratigrafica e l’importanza che essa poteva avere per lo studio del paleolitico di questa parte della Campania, indussero l’Istituto di antropologia di Siena ad intervenire sollecitamente presso la Soprintendenza alle Antichità di Salerno, allo scopo di bloccare il lavoro di escavazione, nella parte della cava in cui si trovava il lembo di deposito rimasto fortunatamente intatto. Nel maggio-giugno del 1976 veniva condotta una prima campagna di scavo nella parte basale e terminale del deposito e una seconda nel giugno 1977, che permetteva di esplorare completamente l’intera serie stratigrafica” 4. “Il riempimento comprendeva tre momenti principali di sedimentazione: sedimenti fini (argille) nella parte più bassa, grossolani (sabbie) nella parte mediana e ancora fini (limi) in quella alta. L’industria litica, raccolta in tutti i livelli, e omogenea nell’intera serie, è riferita ad un Musteriano e denticolati, caratterizzato da una scarsa varietà di tipi; in genere su scheggia piatta, di tecnica debolmente levallois”5 (fig.5). Essa è, quindi, “collocabile a circa quarantamila anni fa nell’ambito della glacializzazione di Wurm”6. Di una certa importanza sono i ritrovamenti avvenuti sul territorio del Comune di Torre le Nocelle in contrada Felette risalenti al neolitico finale-eneolitico (V-IV millennio a.C.). Tale località, per la sua posizione geografica, controlla il comodo passo tra Montemiletto e Montaperto che consente un rapido e diretto collegamento tra la valle del Sabato e quella del Calore. Le scoperte archeologiche più significative, però, risalgono al periodo eneolitico, seconda metà del terzo millennio a.C. (4000-4500 anni fa). Resti furono rinvenuti nei siti di: Fontanalardo, Macchia dei Goti e San Martino, tutte contrade del Comune di Taurasi. Il più importante di essi, perché dimostra l’esistenza di un insediamento preistorico, è quello di San Martino dove “sono state scavate interamente sino ad oggi cinque capanne di forma e dimensioni diverse e altre sono state indiziate sul sito” 7. Quattro delle cinque capanne di forma e dimensioni diverse “sono dornate da un muro perimetrale in pietra a secco (fig.6), che costituisce uno zoccolo di base sul quale doveva poggiare un elevato, composto da una struttura lignea ricoperta da frascame rivestito di argilla (incamiciato) (…) 8. All’interno della capanna sono stati rinvenuti numerosi reperti, “strumenti litici e soprattutto ceramica d’impasto, (…). Una particolare categoria di reperti è rappresentata da numerosi vasi, di forma e tipologia diverse, che hanno funzione di cinerari” 9.

 
Fig. 5 - Industria litica proveniente dalla cava Brogna (Montemiletto) 3

 

 
Fig.6 - Taurasi - Contrada S. Martino - Pianta di capanna a forma di ferro di cavallo 10

 

 
Ceramica della capanna di Contrada S. Martino a Taurasi, cultura del Gaudo, eneolitico11

 

Del periodo del Gaudo finale (1500 a.C.) è la necropoli (fig.7) (insieme di tombe a grotticelle scavata nel tufo) rinvenuta a Madonna delle Grazie, frazione di Mirabella Eclano, distante solo 2 Km dal fiume Calore. Essa è situata su un banco di tufo, eroso su due lati dalle acque meteoriche di due torrenti, il Grottone che funge da confine tra i Comuni di Mirabella Eclano e Taurasi e la Pescara che ha origine dalle pendici della collina di S. Caterina e scorre per tutto il suo percorso in territorio di Mirabella Eclano. Le tombe sono: “pozzetti circolari scavati per la profondità di circa due metri nel banco di tufo” .

 

 
Tombe a pozzetto di Madonna delle Grazie, Mirabella Eclano12.

 

 
Fig7.- Pianta parziale delle tombe neolitiche di Madonna delle Grazie, Mirabella Eclano; in alto la tomba del “capo tribù”13. Disegno: Claudio D’Indio.

Sul fondo si aprono una o due camere sepolcrali (celle) chiuse da un blocco di tufo”. “Si tratta in alcuni casi di sepolture collettive, in cui nel tempo vengono inumati più individui, probabilmente appartenenti ad un unico gruppo familiare ( …), in altri di tumulazioni bisome o singole. Tra queste ultime assai celebre è quella cosiddetta del “capo tribù” 14. Dopo la deposizione della salma, in una delle camere sepolcrali, “il pozzetto veniva riempito di terra e per non perdere il segno della sua ubicazione si elevava un piccolo tumulo oppure si piantava nella terra un pezzo di tufo” 15. Non mancano testimonianze dell’età del bronzo localizzate nelle contrade: Cerzito, Pozzillo e Portara, rispettivamente ubicate nei comuni di Mirabella Eclano, Taurasi e Bagnoli Irpino; come non è da considerarsi di secondaria importanza la tomba dell’età del bronzo, rinvenuta in territorio di Mirabella Eclano, contrada Torre D’Elia a qualche centinaia di metri dal fiume Calore, in prossimità del torrente Pescara. “La tomba conteneva il cadavere di un uomo di alta statura, con al fianco una lunga spada di ferro, seppellito supino nel terreno. La sua tomba, (…) era soltanto un recinto di pietre” 20. Grande importanza ebbero il fiume Calore e i suoi affluenti anche durante il periodo sannitico, ciò è ben evidenziato dal Salomon, il quale nella monografia “Samnium and Samnites”, nel descrivere l’orografia del Sannio chiamò il Volturno “Il fiume sannita”, ma subito dopo affermò che tale definizione spettava più propriamente ad uno dei suoi affluenti, “ il non trascurabile Calore (l’antico Calor), l’unico corso d’acqua interamente incluso nel Sannio”21. Da una lettura attenta della cartina dell’Italia meridionale prima dei Romani, di G. De Sanctis (fig.8) non si può fare altro che confermare la tesi del Salomon; da essa, infatti, si evince che il Volturno non era incluso nei territori sanniti, ma ne segnava solo il confine ad Ovest. Esso fu sicuramente il fiume lungo il quale scendevano i “sacrati” durante i riti della “Primavera Sacra” alla ricerca di nuove terre da coltivare, per poi risalire gli affluenti: il Calore, l’Ufita e il Sabato, ma di sicuro esso non fu il fiume più importante, se non come elemento di difesa del territorio.

 
Vasi rinvenuti in tombe della necropoli eneolitica di Madonna delle Grazie 16

 
Armi litiche della tomba del capo tribù
(Madonna delle Grazie – Mirabella Eclano) 17

 
Interno della tomba del capo tribù
(Madonna delle Grazie – Mirabella Eclano) 18

 
Il disegno riproduce il fondo di una capanna portata alla luce negli anni ’50, in località Madonna delle Grazie (Mirabella Eclano) durante una campagna di scavi condotta dal Prof. G. Oscar Onorato. Essa si trova a circa 1,50 m al di sotto del piano di coltivazione. Si accedeva attraverso un corridoio scoperto ed inclinato ad un ambiente circolare al cui centro vi era una depressione della profondità di 30 cm, nella quale probabilmente veniva acceso il fuoco 19. Disegno: C. D’Indio L’archeologia del nuovo millennio ipotizza, invece, che si tratti di una carcara medievale.

 

 
Fig.8 - L’Italia meridionale prima dei Romani: “Atlante corografico” del Regno delle due Sicilie. G. De Sanctis – Napoli 1856 22

Il fiume Calore è stato anfiteatro di numerose battaglie tra i Romani e i Sanniti. É stato testimone anche di quella in cui il console Lucio Cornelio Scipione conquistò “Taurasia e la Cisaunia”. Tale conquista fu così importante per Roma e per il console, che le due città furono menzionate nell’epitaffio scolpito sul suo sarcofago. Secondo il Romanelli “Taurasia” era la capitale del Sannio Irpino e sorgeva a circa 1,5 Km. dal Calore, il quale fu anche spettatore dell’ultima battaglia (275 a.C.) tra Pirro e ,,i Romani. A tal proposito si riportano le parole del Romanelli. “La piana ove avvenne la battaglia si trova alla diritta ed alla sinistra del fiume Calore, in quella parte in cui oggi si vede il piccolo oppido di Taurasi” 23. “Anche l’ufficiale romano Frontino S. G. ci informa che la battaglia ebbe luogo in quella pianura, detta Isca - dal latino Escam - e tanto sangue scorse, che le acque del fiume, allora abbondanti, si tinsero di rosso” 24. Oltre all’ufficiale Frontino, molti autori romani, nel descrivere gli eventi bellici avvenuti in Irpinia, hanno parlato del Calore; si ricordano: Cluverio nel libro IV cap.8, Tito Livio nella “Storia di Roma” libro XXVI cap.14 e Appiano che lo chiama correttamente Aloren.

Bibliografia


 1. P. Talamo, Enciclopedia Hirpinia – L a preistoria, Sellino e Barra Editori, Stampa:Incisivo – Salerno, 1996. 2. A. Musto, Montis Militum et Montis Aperti Historia (Storia del Comune di Montemiletto dalle origini ad oggi). 3. A. Musto, Montis Militum et Montis Aperti Historia (Storia del Comune di Montemiletto dalle origini ad oggi). 4. A. Galiberti, Estratto dagli Atti della Società Toscana di Scienze Naturali. 5. A. Musto, Montis Militum et Montis Aperti Historia (Storia del Comune di Montemiletto dalle origini ad oggi). 6. P. Talamo, Enciclopedia Hirpinia – L a preistoria, Sellino e Barra Editori, Stampa:Incisivo – Salerno, 1996. 7. P. Talamo, Relazione sui risultati degli scavi , 1993 e 1995-96 in contrada S. Martino. 8. P. Talamo, Enciclopedia Hirpinia – L a preistoria, Sellino e Barra Editori, Stampa:Incisivo – Salerno, 1996. 9. P. Talamo, Relazione sui risultati degli scavi , 1993 e 1995-96 in contrada S. Martino. 10. P. Talamo, Enciclopedia Hirpinia – L a preistoria, Sellino e Barra Editori, Stampa:Incisivo – Salerno, 1996. 11. P. Talamo, Enciclopedia Hirpinia – L a preistoria, Sellino e Barra Editori, Stampa:Incisivo – Salerno, 1996. 12. N. Gambino, La chiesa di Madonna delle Grazie – Meta del pellegrinaggio di Mirabella. 13. N. Gambino, La chiesa di Madonna delle Grazie – Meta del pellegrinaggio di Mirabella. 14. N. Gambino, La chiesa di Madonna delle Grazie – Meta del pellegrinaggio di Mirabella. 15. N. Gambino, La chiesa di Madonna delle Grazie – Meta del pellegrinaggio di Mirabella. 16. A.Ferri, Taurasi – Rassegna geologica storica economica, Tipografia Valsele, Materdomini (AV), 1982. 17. A.Ferri, Taurasi – Rassegna geologica storica economica, Tipografia Valsele, Materdomini (AV), 1982. 18. A.Ferri, Taurasi – Rassegna geologica storica economica, Tipografia Valsele, Materdomini (AV), 1982. 19. N. Gambino, La chiesa di Madonna delle Grazie – Meta del pellegrinaggio di Mirabella. 20. N. Gambino, La chiesa di Madonna delle Grazie – Meta del pellegrinaggio di Mirabella. 21. G. Pescatori Colucci, Enciclopedia Hirpinia, Aeclanum romana: Storia di una città, Sellino e Barra Editori, Stampa:Incisivo – Salerno, 1996. 22. D. Cambria, Hirpi – Storia dei Sanniti - Hirpini – Scuderi Editrice, 2002. 23. D. Romanelli, Antica topografia istorica del Regno di Napoli, Stamperia Reale, Napoli, 1818. 24. A.Ferri, Taurasi – Rassegna geologica storica economica, Tipografia Valsele, Materdomini (AV), 1982.

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Dove è finita l’acqua del Calore?

Da un’indagine svolta tra i cittadini più anziani di Taurasi, si è appreso che il fiume Calore, fino agli anni ’60, aveva una portata di gran lunga maggiore di quella attuale. Non mancano documenti che confermano quanto asserito; vengono, pertanto, riportati alcuni stralci di opere di insigni storici meridionali, che rafforzano tali ricordi; anzi, alcuni studiosi dimostrano che il fiume fosse navigabile sino a Benevento. “A tal proposito il prof. W. Johannowsky, intervenendo nel novembre ’93 alla conferenza organizzata dal centro studi “ G. Dorso”, di Avellino, sul tema: “L’Irpinia in epoca romana”, ebbe modo di affermare che “la prova più evidente della navigabilità di questo importantissimo fiume, (erano) gli enormi blocchi di marmo utilizzati a Benevento, sicuramente provenienti solo per via fluviale”. (Cfr. S. Salvatore, Il fiume Calore era navigabile in “Il Mattino”, anno CII – 13-11-1993)1

 

 
Cassano Irpino: Sorgente Pollentina – Portata media 1150 litri/s. (1910)2

“Calore. Fiume della provincia di Montefusco, il quale nasce nella montagna di Serino, scorre per Cassano (…) Verso la sorgente dà trotte squisite, anguille, e granchi; e nelle vicinanze di Benevento da squame”3. “Ai piedi di quell’altipiano a circa Km 1,5 il vecchio Calore, allora gonfio di acque spumeggianti, scorreva forte fra sponde boscose ed incassate, qua e là stretto, altrove più libero per riuscire subito dopo a ribollire fremente, animoso su vasti e fertili pianure”4.

 

 
Cassano Irpino: La sorgente Pollentina (da un quadro del pittore Martelli -1874) 5

“Alle molte e belle varietà dei siti, che nella regione formano i rami dell’Appennino, come per accrescerne le vaghezze si unisce il Calore, cosiddetto da tempi immemorabili (…) si scarica nel Volturno, donde sarebbe navigabile in sino a Benevento, come il Volturno stesso dalla foce alla confluenza”6.

 

 
Cassano Irpino: Sor-gente Pollentina allo stato naturale di trabocco, prima di essere incanalata nell’ac- quedotto pugliese7

Se dovessero persistere ulteriori dubbi, essi potrebbero essere dissipati dalle parole del dott. Elio Gramignano riportate ne “Il Mattino” del 15 ott. 1953 , dove egli, dopo essere stato spettatore di innumerevoli piene ed alluvioni, causati dal fiume Calore e dai suoi affluenti, cercò di sensibilizzare le autorità competenti e i politici sulla “impellente necessità” di una legge che riconoscesse zona di bonifica il bacino del Calore. “Che esso fosse considerato a sé stante o che l’azione del già istituito Consorzio dell’Ufita fosse estesa al nuovo bacino in parola”8.

 

 
Sullo sfondo Cassano Irpino - In primo piano l’emissario della Sorgente Pollentina in località Pollentinella, dove oggi è posta la piscina coperta, prima di essere incanalato nell’acquedotto pugliese (1910) 9

Sorge spontanea, a questo punto, la domanda: “Dove è finita l’acqua del Calore?”. La risposta è data dallo stesso dott. E. Gramignani, il quale nel 1969così scriveva: “E si dovrebbe arrivare a questo assurdo fantastico, che mentre l’Irpinia è stata munta della maggioranza delle sue sorgenti, non solo per dissetare, con l’Acquedotto cosiddetto Pugliese (sarebbe giusto chiamarlo del Sele) e con quello di Serino, circa 8 milioni di italiani, ma per di più consentire le mostre di altissimi getti d’acqua, nelle piazze delle città di quella che, un tempo, senza l’acqua irpina, era chiamata “la sitibonda Puglia” mentre qui da noi ci sono, se pur pochi, paesi che non hanno acqua potabile a sufficienza, per dissetare i suoi abitanti e per gli indispensabili usi domestici. Ma c’è, anche, l’impossibilità di vedere estendere l’irrigazione sulle nostre terre”10. Se E. Gramignano già un trentennio fa lanciava il suo grido di allarme, oggi a noi non resta che prendere atto che la provincia di Avellino, pur essendo una delle più ricche di acqua, è quella che, dopo la Sicilia, soffre di più a causa della crisi idrica sia per uso igienico che per uso irriguo. La Puglia, al contrario, sfruttando le acque delle regioni limitrofe, è divenuta la prima regione d’Italia produttrice di ortaggi. Con tali osservazioni, non si vuole affatto negare l’acqua. Essa è, da sempre, l’elemento base della vita e non può essere considerata di proprietà di nessuno; è un bene dell’umanità e quindi fruibile da tutti. D’altronde, in un paese come il nostro, in cui i principi religiosi sono alla base del vivere comune, non si possono ignorare le seguenti massime: “Dar da bere agli assetati” “Gli sarà dato il Pane , avrà l’acqua assicurata” Né si possono dimenticare le parole di Francesco D’Assisi: “Sora acqua la quale è multo humile et utile et preziosa et casta”.

 

 
La Sorgente Vagno negli anni 30

 
La Sorgente Pollentina come appare oggi

D’altro canto, però, non possiamo non tener conto che l’Irpinia, nonostante tutte le risorse idriche di cui dispone, oggi si trova nelle condizioni di non poter programmare uno sviluppo agricolo e turistico-ambientale a causa della carenza di acqua a cui è soggetta. I paesi bagnati dal fiume Calore, infatti, nonostante siano ricchi di opere d’arte, quali: scavi archeologici, chiese, castelli medievali, antiche centrali idro-elettriche, mulini ad acqua, ponti e resti di ponti romani, nonché di ottimi prodotti agricoli (vini, castagne, olive, nocciole…) non possono proporre itinerari ecologici-ambientali. Durante il periodo estivo, il Calore si riduce ad un rigagnolo maleodorante, sul quale si posano zanzare dalle dimensioni gigantesche. Oggi esso è molto lontano dal bel corso d’acqua pescoso, ombreggiato, le cui acque erano limpide, pure, cristalline ed abbondanti ed offrivano riposo e relax lungo le sue sponde e sulla sabbia limacciosa lasciata dalle copiose inondazioni. La pesca fluviale e l’agricoltura erano le attività più diffuse e praticate lungo il Calore. Le acque procuravano ricchezza ai contadini, che vivevano nelle vicinanze; essi si recavano presso il fiume per lavorare i terreni e anche per pescare.


Alunni delle classi IIIA e IIIB in località Ponterotto: prelievo di un campione d’acqua del fiume Calore – Novembre 2002 

I pescatori di frodo e i mugnai prelevavano il pesce agevolmente in quanto collocavano “cannizzi”, (manufatti di canne) o reti, a valle delle paratoie di scarico dei mulini o facevano esplodere petardi. Si pescavano anguille, sardine, trote, cavedani e barbi. Il pescato, quando era abbondante, oltre a servire come alimento alle famiglie dei pescatori, veniva anche venduto agli abitanti del luogo, o, il più delle volte, barattato. Gli strumenti più utilizzati per la pesca erano le “capaie”, costruite in vimini, il “forchettone”, formato, generalmente, da cinque denti ed il “caggiuolo”, usato per illuminare l’acqua, in modo da individuarne le prede. La fiorente vegetazione presente lungo le rive del Calore, faceva sì che la gente si recasse sul posto per raccogliere: canne, giunchi e virgulti di piante acquatiche; quest’ultimi erano utilizzati, in particolare, per la costruzione di ceste, panieri e per impagliare sedie. Dopo le piene spesso ci si ritrovava lungo le rive per raccogliere legna da ardere. Chiunque avesse, sia pure un piccolo appezzamento di terra vicino al fiume, poteva considerarsi fortunato, perché, grazie alla fertilità del suolo legata alla irrigabilità, poteva coltivare: granone, fagioli, ceci, miglio (i semi di questi ultimi erano utilizzati come cibo per le galline e la parte fibrosa per costruire scope) e ortaggi (patate, pomodori, peperoni, melanzane, cetrioli) e avere fogliame per sfamare il bestiame. Oggi noi ci chiediamo: è possibile porre rimedio a questo sconcio, a questa grave situazione di degrado del nostro bel fiume che fino a pochi anni fa era il fiore all’occhiello della nostra economia? Si, tutti possiamo contribuire, rispettando l’ambiente: evitando inutili sprechi di acqua e limitando le cause che determinano forme di inquinamento. In particolare, è l’acquedotto Pugliese che dovrebbe farsi carico di questo problema, anche a costo di qualche rinuncia da parte dei propri utenti; dovrebbe, come previsto per legge (183/89, 36/94), lasciar defluire una quantità di acqua sufficiente a garantire il flusso minimo necessario per la vita della flora e della fauna fluviale che sta man mano venendo meno e provvedere ad assicurare una maggiore manutenzione alle condotte, che, come è risaputo, a causa della loro fatiscenza perdono dal 30% al 40% di acqua.


Le acque delle sorgenti Bagno della Regina nel territorio di Cassano Irpino prima di essere incanalate nell’acque-dotto pugliese. Portata media 1800 l/s11.

 


Cassano Irpino: Le acque della Sorgente Peschiera come si presenta oggi. Portata media 300 l/s.

 


Cassano Irpino: Lavori di incanalazione delle sorgenti Bagno della Regina12.

Tutto ciò in attesa che si realizzi l’opera proposta nel lontano 1969 dal già citato dott. E. Gramignano. “Ho dato inizio a questo mio scritto prendendo lo spunto dalle recenti alluvioni ed indicando che tali catastrofi si verificano periodicamente, apportando alla nostra Irpinia ed al Sannio dei gravi disastri. Proponendo la costituzione di un Comprensorio di Bonifica per il Bacino del Calore, sorge fra l’altro, immediato il problema che il complesso sistema dei fossi, dei valloni, dei torrenti e dei fiumi, che intersecano il Comprensorio stesso, trasportano verso la loro destinazione ultima, il mare, acque che una volta regimentate con vaste opere di ingegneria idraulica, non potranno più portare devastazioni, danni e morte ma riunite e conservate rendendole sottomesse alla volontà degli uomini, saranno di ausilio alla nostra agricoltura. Non è di mia competenza trattare delle grandiose opere occorrenti e necessarie per raccogliere ed utilizzare le acque per l’irrigazione; dirò solo che ogni fosso di una certa importanza può dar luogo ad un modesto laghetto collinare, capace di irrigare 5 o 6 ettari; se si tratta di un torrentello, è evidente che il predetto laghetto può diventare un serbatoio di una certa capacità, atto a fornire l’acqua per l’irrigazione ad una più vasta superficie di quella sopra citata. Ora se si pone mente che di fossi e torrentelli, nel bacino del Calore se ne incontrano a centinaia, è evidente che le superfici irrigabili possono assommare a diverse migliaia di ettari. Ma c’è di più: il Calore considerato per la sua portata nel tratto primitivo e con l’asporto di pochi affluenti è capace di dar vita (specialmente nella zona montana e collinare da esso percorsa) ad un bacino di raccolta d’acqua e, con la sua caduta, è capace di produrre energia elettrica misurante parecchie migliaia di Kwt.; e così i suoi principali affluenti quali il Sabato, l’Ufita, il Tammaro. Ed è risaputo che dopo il salto nell’apposite condotte, l’acqua può seguire il corso del fiume od essere convogliata con opportune tubature o canali e distribuita per l’irrigazione di migliaia di ettari. Soltanto a pensare a questa enorme possibilità, per l’incremento della nostra agricoltura, vengono le lacrime per la commozione”14.

 


Cassano Irpino: Il complesso delle Sorgenti Pollentina, Peschiera e Prete13

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L’Acquedotto Cassano-Caposele

L’Acquedotto Cassano-Caposele fu ideato contemporaneamente a quello Pugliese (acquedotto del Destra del Sele), ma la sua realizzazione richiese tempi molto lunghi. Il primo progetto di massima risale, infatti, al lontano 1926; i lavori di trivellazione furono, però, avviati solo nel giugno del 1953 per accertare le caratteristiche idrogeologiche del sottosuolo al fine di individuare il tracciato più idoneo per la canalizzazione delle acque.


Caposele: le acque di Cassano Irpino prima di confluire nell’acquedotto del Destra del Sele15.

La realizzazione dell’opera iniziò nel 1958. La sua inaugurazione ed entrata in funzione avvenne il 25 maggio 1964, quando, per la prima volta, le acque di Cassano si congiunsero con quelle di Caposele (acquedotto Pugliese). “A somiglianza delle sorgenti di Caposele, anche queste sono copiose e raggruppate, pur manifestandosi in due distinti gruppi, separati e distanziati di cinquecento metri circa. Il primo gruppo sorgentizio è proprio ai piedi di Cassano Irpino e addirittura nella cinta urbana, altra somiglianza con Caposele, nel Parco Comunale delle Rimembranze dedicato ai Caduti della I Grande Guerra Mondiale. Comprende tre sorgenti: la Pollentina, la Peschiera e la Prete o Lavatoio, che globalmente danno una portata media annua di 1.600 lt/s. Il secondo gruppo, denominato Sorgenti Bagno della Regina, è vicino, a 500 m. al di là delle contigue strada statale Croci di Acerno-Paternopoli e strada ferrata Rocchetta Sant’Antonio-Avellino, dopo e lungo il Vallone Valchiera, che segna il confine dell’agro di Cassano Irpino con l’agro di Montella, però interamente nell’agro di Montella, per cui volendo riferire le Sorgenti del Basso Calore ai Comuni nei quali essi affiorano è più appropriato denominarle Sorgenti di Cassano Irpino-Montella.

 
Caposele: edificio che accoglie le acque di Cassano in contrada S. Lucia

La portata delle sorgenti Bagno della Regina è quasi pari alle portate complessive delle tre sorgenti di Cassano Irpino, e perciò dimostra più coerenza con la realtà l’aggiunta di Montella nella designazione dei due gruppi sorgentizi”16.

 
Caposele: scarico delle acque superflue dell’acquedotto del basso Calore

 

Bibliografia

 1. V. D’ambrosio, Ponte appiano - Un viadotto di venti secoli , in “Vicum” marzo-dicembre 1994 - Poligrafica Irpina, Lioni, 1994. 2. Foto messa a disposizione dall’associazione “Guido Ninni” di Cassano Irpino. 3. F. Sacco, Dizionario geografico-istorico-fisico del Regno di Napoli, Flauto, Napoli, 1745. 4. D. Romanelli, Antica topografia istorica del Regno di Napoli, Stamperia Reale, Napoli, 1818. 5. Quadro di proprietà dell’E.P.T. di Avellino. 6. N. Corcia, Storia delle due Sicilie, Virgilio, Napoli, 1845. 7. V. Caruso, Compendiario sugli Acquedotti Pugliesi e Lucani, Casa Editrice Michele Liantonio, Palo del Colle (BA), 1976. 8. E. Gramignani, Il bacino di bonifica del Calore, Economia Irpina edita dalla Camera di Commercio di Avellino, 1968. 9. Foto messa a disposizione dall’associazione “Guido Ninni” di Cassano Irpino. 10. E. Gramignani, Il bacino di bonifica del Calore, Economia Irpina edita dalla Camera di Commercio di Avellino, 1968. 11. V. Caruso, Compendiario sugli Acquedotti Pugliesi e Lucani, Casa Editrice Michele Liantonio, Palo del Colle (BA), 1976. 12. V. Caruso, Compendiario sugli Acquedotti Pugliesi e Lucani, Casa Editrice Michele Liantonio, Palo del Colle (BA), 1976. 13. V. Caruso, Compendiario sugli Acquedotti Pugliesi e Lucani, Casa Editrice Michele Liantonio, Palo del Colle (BA), 1976. 14. E. Gramignani, Il bacino di bonifica del Calore, Economia Irpina edita dalla Camera di Commercio di Avellino, 1968. 15. V. Caruso, Compendiario sugli Acquedotti Pugliesi e Lucani, Casa Editrice Michele Liantonio, Palo del Colle (BA), 1976. 16. V. Caruso, Compendiario sugli Acquedotti Pugliesi e Lucani, Casa Editrice Michele Liantonio, Palo del Colle (BA), 1976.

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SCHEDA DI APPROFONDIMENTO N° 1

VEGETAZIONE FLUVIALE

 

SCHEDA DI APPROFONDIMENTO N° 2

ANTICHI MESTIERI LEGATI ALLA VEGETAZIONE FLUVIALE

 

L’impagliatore di sedie - foto di G. Brusa da "Varese Mese" - Aprile 2001 Fotoclub il Sestante, Gallarate

 

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Il Calore in rime

 

Tiempi belli e’na vota
Come eri bello o fiume Calore, quando acqua pura e cristallina avevi, e con gente semplice e allegra vivevi. Quante persone, sulle tue sponde, hai fatto dissetar e alle massaie allegramente i panni sciorinar! Or sei diventato un fiumicello e le tue sponde cantano il dolor. Ricordi con tristezza i tempi belli quando udivi le tue acque gorgogliar. Tu spettator di gloriose gesta ora assisti impotente al tuo degenerar. Non vi son fiori intorno alle tue sponde, né il dolce frinir delle cical. Di te non resta che una vaga visione Che quando in mente torna, mi rattrista il cor.
Gli alunni della classe III A

Fiume in declino
Ancor prima che sulle tue sponde s'insidiasse l’umano, le tue tiepide acque zampillavano dal tepor di uno spento vulcano. Dai vergini luoghi, libero, per balze e pendii scorrevi schizzante, poi lento ti gettavi al piano. Nel tempo, le valli ubertose dell'Irpinia hanno fruito della tua musica in sordina; nelle tue acque, dolci e cristalline, guizzavano i tanti pesciolini; mentre quel mormorio di cadenti ruscelli argentati irrompeva nel silenzio della notte dilagandosi per la flora offuscata. Non mancarono in te giorni funesti, quando l'invasor odiato turbò la quiete del tuo abitato.
Della tua fauna più non c’è vita; gli avanzi hanno imputridito i tuoi lidi; or, nelle tue vene scorrono soltanto veleni. Nelle tue acque c’è la tempesta; il rovo infestante si unisce dall'una all’altra sponda e fa di te una squallida foresta. Fiume Calore! Dov’è più il tuo bagliore? Rio Irpino! Quando finirà il tuo declino? Un giorno sarai ancora suggestivo e bello? Come sempre, porterai con te, verso il mare, il profumo dall’agro taurasino, dell'aromatico aglianico doc, il buon vino? È quanto sperano I tuoi vicini.
Prof. Pasquale Colella

Il fiume Calore
È una bella giornata di pieno sole. Il vecchio fiume Calore ci avrà e ognuno coi sogni del primo richiamo d'amore. Ricostruiremo i pozzetti sul rezzo, ghiaioso e affideremo i grandi messaggi del cuore agli astucci di canna verde, mezzana. Spieremo le lavandaie operose, discinte, con l'occhio teso e voglioso di satiro, le giovani ninfe sognate per spose.
Rivedremo le bisce, i pesci guizzanti, i ramarri sornioni, i mostruosi granchi, sui cespi i bianchi ombracoli del fresco bucato. All'ombra dei pioppi e tozzi salicastri spiluccheremo le erbe e i calami di avena masticando succhieremo, la prima pena celando. Salteremo, giovani ranocchi, turbati, nell'azzurro dell'acqua e insidieremo le ninfe che vergognose si nascondono il seno. E le madri con lanci di pietre, prudenti, un sorriso stringendo, allontaneranno noi ragazzacci dal sacro recinto, vietato alla caccia.
Prof. Pasquale Martiniello

 

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I PONTI

Ponte Appiano A poca distanza da Calore, frazione di Mirabella Eclano, località situata nelle immediate vicinanze dell’omonimo fiume, si possono osservare gli imponenti resti del “ponte Appiano”. In questo luogo l’architettura romana ha lasciato, in mezzo ad una rigogliosa vegetazione, la sua impronta, che tutt’oggi testimonia la notevole capacità raggiunta dai Romani di utilizzare materiali come: il mattone cotto, il calcestruzzo, tufi, pietre di fiume e blocchi di pietre di discreta grandezza. Il ponte denominato dagli abitanti del posto “Ponterotto”, “conserva tutta la sua antica bellezza e la sua possanza” e, ancora oggi, continua a sfidare lo scorrere del tempo; i suoi resti, cospicui ed imponenti, si trovano in una zona compresa fra le province di Avellino e Benevento.

 
Ponterotto: resti del pilastro bizantino e di un arco su cui è ben visibile l’impronta delle pietre che l’ornavano “prima che venisse depredato dall’uomo e logorato dal trascorrere del tempo”

L’area interessata appartiene ai Comuni di Mirabella Eclano, Bonito, Venticano e, in minima parte, i resti sono ubicati nel territorio di Apice. Il ponte romano, situato a circa dieci miglia romane (1 miglio = 1481 m) da Benevento e cinque da Aeclanum, fu parte integrante della via Appia, la quale fu avviata dal censore Appio Claudio il Cieco nel 312 a.C. Essa, inizialmente, collegava Roma a Capua, solo dopo il 268 a.C. fu prolungata fino a Benevento e, intorno al 190 a.C., raggiunse Venosa e più tardi Taranto e Brindisi. Si ritiene che l’Appiano avesse una struttura lignea come riportato da A. Salvatore e che, solo intorno al 123 a.C., grazie ai grossi stanziamenti dell’imperatore Traiano, (1.147.000 sesterzi), e al contributo di alcuni proprietari terrieri eclanesi, (516.000 sesterzi), fu ristrutturato un tratto di strada di circa 17 miglia e l’Appiano fu rifatto in muratura. La sua maestosità e le sue notevoli dimensioni ci fanno presupporre che, nel passato, il corso d’acqua avesse ben altra portata e che fosse di molto superiore a quella odierna. Il fiume sicuramente navigabile come affermano il prof. W. Johannowski rivestiva un’importanza notevole per i collegamenti tra il Sannio e l’Irpinia e tra quest’ultima e l’Apulia. Ponterotto, oggi, come si può vedere dalle foto, presenta solo dei ruderi imponenti testimonianza di una grandezza passata.

 


Ponterotto: supporto in cemento messo in opera dalla Sovrin-tendenza ai Beni Culturali per evitare il crollo dell’arco superstite.

 


Ponte Rotto. ricostruzione tecnico-architettonica (da Nicola Gambino, Aeclanum Cristiana 1982)

Si possono osservare i resti di un arco, di sette piloni, nonché di un pilastro costruito con materiali di risulta, sicuramente edificato dopo l’occupazione bizantina, per sostenere l’arco sovrastante che dava segni di cedimento. Dei sette piloni, tre si trovano in acqua e sorreggevano due grandi archi che avevano una luce di circa 22 m. ognuno e uno più piccolo con un’ampiezza di circa 14 m. I rimanenti quattro piloni, collocati sul terreno, dovevano sostenere tre archi più piccoli, rispettivamente di m.14, 13 e 10 e servivano per raccordare la parte pianeggiante situata sulla riva destra del fiume facente parte del Comune di Mirabella Eclano, con quella di sinistra, appartenente, invece, al Comune di Venticano, molto più ripida e che presentava un maggiore dislivello. L’altezza variava dai 13 m degli archi maggiori ai 7-5 di quelli minori. La base dei piloni, nella parte a contatto con l’acqua, e quindi, soggetta ad erosione, era formata da grossi blocchi squadrati, sovrapposti a secco, poggianti su una piattaforma di calcestruzzo (opus cementicium) e tenuti insieme da staffe di ferro fissate con piombo. L’intera piattaforma che si estendeva da una riva all’altra, ma ancora oggi ben visibile, era ricoperta da blocchi di pietre semi squadrati, dello spessore di 70-80 cm, i quali erano tenuti insieme da staffe di ferro, per fare in modo che l’acqua potesse defluire senza arrecare danni alle fondamenta ed evitare, così, quei fenomeni di dilavamento, che furono la causa della caduta di molti ponti.

 


Resti di un pilastro

 




Pilastro bizantino

 


Particolari del pilastro bizantino da cui si evince che fu costruito con materiale di risulta


Ponterotto: sezione di un pilastro

A: platea cementizia che si estende da un pilone all’altro.

B: piattaforma di pietre semisquadrate, dello spessore 70-80 cm e della lunghezza di 100-150 cm, tenute insieme con staffe di ferro fissate con piombo.

C: paramenti esterni di blocchi di pietra squadrati, sovrapposti a secco e tenuti insieme con staffe di ferro fissate con piombo.

D: riempimento della parte inferiore del pilastro costituito da malta cementizia e sassi di fiume di media dimensione.

E: paramenti esterni di mattoni dello spessore di 5 cm e lunghi fino a 65 cm.

F: riempimento della parte superiore del pilastro costituito da pietre di piccole dimensioni, pezzi di mattoni e malta cementizia.






Ragazzi all’opera: Rilevamento dati da parte degli allievi delle classi terze (a.s. 2002-2003)

 

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Ponte Medievale

A 60 metri a valle (Nord) di Ponterotto, sono evidenti i ruderi di un ponte di epoca medievale, costruito per oltrepassare il fiume Calore quando venne a mancare il ben più noto “Appiano”; di esso non si hanno notizie certe; non si conosce, infatti, né la causa né il periodo del suo crollo. All’osservatore, che oggi si porta sul luogo, appare subito evidente che le caratteristiche strutturali e architettoniche fra i due manufatti sono diverse; quello “medievale”, infatti, è di modeste proporzioni; è tozzo e rudimentale, rispetto all’Appiano, che è maestoso, slanciato ed armonico. Dagli studi di C. Miletti e S. Aurigemma del 1911 e dai rilevamenti effettuati in loco dagli alunni delle classi terze, si desume che fosse alto metri 6,30. Il ponte si estendeva per circa 42 m. ed era a tre arcate, rette da tre piloni di cui la centrale aveva una luce di circa 7 m., mentre, ognuna delle altre due misurava 10 m. I resti di due dei quattro piloni sono ben visibili e hanno una larghezza frontale di circa metri 3,35 ed una profondità di circa metri 4,80 corrispondente alla larghezza del ponte che probabilmente era così suddivisa: 3 m. erano per la circolazione dei carri che transitavano a senso unico alternato, 60 cm., larghezza di un marciapiede e centimetri 1,20 larghezza dei due parapetti. I piloni, per favorire il deflusso delle acque ed evitare che si creassero dei vortici, erano provvisti, alla base, di due rostri, uno rivolto verso la sorgente e l’altro verso la foce.


Resti del ponte medievale

Ponte re Zoccoletti

Nel territorio di Taurasi, in contrada Palata, c’è una località detta “O Pescone”; fino agli anni ottanta essa era considerata una zona “balneare” frequentata da taurasini e montemilettesi. Questi ultimi, ancora oggi, quando devono far riferimento a quella zona, dicono “O Ponte re zoccoletti”. Sulla sponda sinistra del fiume si possono osservare due massi; uno di modeste dimensioni e uno più grande sul quale sono presenti i resti di una struttura i cui elementi caratterizzanti sono: malta cementizia e mattoni rossi (zoccoletti). Dalla forma di questi pochi resti, dalla loro ubicazione e dal materiale usato per la costruzione, tutto fa presupporre che si tratti di un ponte romano. Se così fosse, potrebbe trattarsi di quello citato da F. Scandone: “...rileviamo che il 13 gennaio 1513, l’Università di Serino presenta un ordine del Cardinale Luogotenente del Regno, perché non sia costretta a contribuire alla spesa per la riparazione del ponte di Taurasi (strada Montaperto-Taurasi) arteria di primaria importanza, all’epoca, per il collegamento da Avellino per la Puglia e la Basilicata”. Al momento non ci sono riscontri archeologici sicuri, ma pare che il ponte in questione avesse subito nel passato degli interventi di restauro, come si può notare osservando la parte superiore del pilastro superstite. I resti di quel che doveva essere la piattaforma di appoggio del pilone, collocato sulla sponda di Taurasi, sono venuti alla luce di recente a seguito del notevole abbassamento del livello delle acque del fiume Calore. Si tratta di blocchi di pietra calcarea semisquadrati, uniti tra loro da malta cementizia in modo da formare una struttura compatta.


Pilastro del “Ponte re zoccoletti” (1980) - Foto P. Palermo -



Resti della piattaforma di appoggio del pilone del “Ponte re zoccoletti” - Foto P. Palermo -

 

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Ponte di Sant’Anna

Il ponte romano, oggi noto col nome di S. Anna*, nel passato, è stato oggetto di numerosi studi, sia per la sua particolare architettura sia per la curiosità che hanno suscitato i numerosi nomi che gli sono stati attribuiti. Da alcuni, infatti, è conosciuto col nome di ponte “Del Diavolo”¦ da altri “Di Annibale” e in ultimo col nome di ponte “Di Sasca”?. Situato nel territorio di S. Mango sul Calore, testimonia l’esistenza del tracciato di una rete viabile romana che, di sicuro, non era l’Appia Antica (Regina Viarum), ma un’arteria secondaria, la quale, partendo da Atripalda (Abellinum), proseguiva per Melfi. Era questa la via denominata dal Pratilli e dal Santoli “Domizia” in quanto essi la consideravano il naturale prolungamento della Domiziana che da Roma porta a Napoli. Tale strada, provenendo dall’attuale capoluogo campano, passando per Nola, raggiungeva l’attuale Atripalda per proseguire alla volta del fiume Calore nei pressi del confine tra i comuni di S. Mango sul Calore e Lapio. Superato il quale attraversava il territorio di Taurasi (campi taurasini) per andarsi ad innestare, poi, sull’Appia Antica, tra Eclano e l’odierna Fontanarosa (vedi cartina). Il ponte, opera imponente e maestosa per i tempi, fu considerato il punto di snodo per il commercio e i collegamenti con l’Apulia e con i paesi che si trovavano sulle sponde del fiume Calore. In epoca medievale divenne addirittura la via di comunicazione più importante tra la costa tirrenica e quella adriatica.



S. Mango sul Calore: Ponte S. Anna: quando il fiume scorreva ancora sotto le sue arcate (18-04-1956) - Foto M. Trodella -

Ancora nel 1535 fu ritenuto essenziale, visto che, in quell’anno, varie università (comprese Montefusco e Montemiletto) furono tassate per contribuire alle spese di riparazione dello stesso. Che tale strada fosse ancora funzionale nel XVIII secolo, è confermata dai seguenti documenti2:
“Venendo Giuseppe Solimine di Solofra dal Santissimo Cricifisso sotto la Cerignola, portava alcuni agnelli alla fiera di Atripalda e passando per la Strada Vecchia giunse una sera delli 22 aprile nella Taverna del Ponte di Sant’Anna…dove trovò Giovanni Goglielmo di Andretta….”. (da una testimonianza del 26 agosto 1741)
“L’illustrissimo signor Giovan Gaetano Filangeri Principe d’Arianiello, possessore di detta terra di Lapio, possiede la Taverna detta del Cerro, di Membri sei sottani e sei soprani, situata lungo la Strada regia per Melfi”.(Dichiarazione del 1743).

Tali documenti fanno riferimento a due taverne presenti sul territorio, la prima di S. Anna, di proprietà di Sasca e di Ippolito Carbone, e la seconda, soprannominata “Taverna del Cerro”, per la presenza di un cerro posta nelle sue vicinanze di cui, oggi, non rimangono tracce visibili. Le due strutture, utilizzate, sicuramente, come luogo di rifugio, di ristoro, di scambi commerciali e di contrabbando, erano situate rispettivamente la prima sulla riva destra e la seconda sulla riva sinistra del torrente Uccello, che scorre a poche decine di metri dal ponte in questione.


Ponte di S. Anna - Elaborazione grafica dell’Ufficio Tecnico della Comunità Montana Terminio-Cervialto

Nel primo Ottocento il tratto Atripalda-ponte Sant’Anna perse la sua importanza, perché fu costruita la nuova ed ancora funzionante “consolare” per Melfi, (strada che da Atripalda-Parolise raggiunge Volturara, Ponteromito e quindi l’Alta Irpina, soppiantata dalla più comoda Ofantina bis; finirono, allora e per sempre, gli animati traffici che avevano caratterizzato la plurisecolare storia della valle. La costruzione del ponte molto probabilmente risale al I secolo a.C., esso era a tre arcate, oggi ne sono ben visibili solo due; esse erano rette da quattro piloni, di cui la centrale aveva una luce di circa 15 m. ed un’altezza di 10 m., mentre, ognuna delle altre due una luce di 8 m.
Da un sopralluogo effettuato, si è potuto osservare che sono inseriti nella fabbrica, lunga 56 m., mattoni a linee oblique o radiali, specie nella parte iniziale delle curve; il resto è tutto frammisto di ciottoli di fiume e malta, tanto da formare un corpo ben saldo, specie nei piloni in pietra, che risultano essere molto robusti; i laterali hanno un’ampiezza frontale di 5 m., mentre i centrali di 6 m. Negli intradossi larghi circa metri 5,50 si possono osservare dei fori utilizzati, a nostro avviso, per reggere l’impalcatura durante la costruzione.


Particolare del ponte di S. Anna dove si possono osservare i fori utilizzati per reggere l’impalcatura durante la costruzione.

Ogni pilone presenta sulla faccia rivolta alla sorgente, uno sperone5 di cui due ben visibili, il terzo oggi è ricoperto da rovi e il quarto è totalmente interrato, tanto che non è stato possibile osservarlo durante la ricognizione effettuata, ma è ricordato solo dagli anziani del luogo. Sui due piloni di destra, sulla faccia rivolta alla foce, sono presenti i contrafforti (barbacani) che avevano la funzione di rinforzo del pilastro durante le piene.


Ponte di Sant’Anna: elaborazione grafica degli alunni della classe III A

Oggi, la struttura ha subito notevoli modificazioni, rispetto al passato, sia a livello architettonico che ambientale. I lavori di ristrutturazione risultano molto “discutibili”, la parte esterna dell’arco, è stata ricostruita negli anni novanta con mattoni rossi e, il piano stradale è stato pavimentato con piastrelle di gres tanto che, solo lontanamente, si può avere l’idea della vecchia struttura. A livello ambientale, invece, oggi si sta verificando l’innalzamento del livello del suolo circostante al ponte, provocato dalle “ruspe selvagge” e, negli anni cinquanta, si è avuta anche la deviazione del letto del fiume, dovuta al prelevamento di sabbia e ghiaia.


Foto F. Selvitella - V. Martiniello

A causa dei lavori eseguiti e che continuano tuttora per l’ampliamento del nucleo industriale, il ponte è affossato e circondato da materiale di risulta e “il laghetto artificiale” ad esso prossimo è un acquitrino maleodorante e ottimo ambiente per la proliferazione di zanzare che durante il periodo estivo non permettono al visitatore di approssimarsi.


Il ponte di “S. Anna” detto anche di “Annibale”, prima del restauro …….(Foto P. Palermo)


Il ponte di “S. Anna” detto anche di “Annibale”, prima del restauro …….(Foto C. Pizzano)



…… dopo il restauro

*“Ponte di Sant’Anna”, perché situato nelle vicinanze di un tempio dedicato a Sant’Anna.
**“Ponte del Diavolo”, perché costruito dal maligno in una nottata, per far passare le truppe di Annibale, simbolo delle forze del male; mentre secondo altri il termine “Ponte di Annibale”, non si riferirebbe al condottiero cartaginese ma ad Annibale, zio di Fabio Filangeri, che amministrava le terre di Lapio e il ponte Lapideus ad archi rampanti (1560).
***“Ponte di Sasca”, perché situato nei pressi della taverna di Sasca.

 

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Il ponte dei Diavoli

Nella foto in alto si può osservare un’importante testimonianza della maestria dei Romani nel costruire ponti e strade. La costruzione riportata nella foto, edificata agli inizi dell’età imperiale, collegava le sponde del il fiume Calore nei pressi dell’attuale stazione di Luogosano. E’ chiamato ponte dei diavoli perché, secondo la tradizione popolare, sotto la volta del ponte, durante la notte, si davano convegno i diavoli per eseguire riti satanici. La figura dei “diavoli” lascia spazio a varie interpretazioni, si potrebbe ipotizzare che il ponte fosse il rifugio di briganti che, dediti ad attività illecite, intimorissero gli abitanti del luogo che vedevano in loro dei veri e propri “diavoli”.
Un’altra leggenda relativa al ponte e tramandata da padre in figlio, è quella che esso fosse il punto di incontro delle “Janare”, le quali durante la notte, uscivano dai propri rifugi e ballavano e bivaccavano fino all’alba. Durante i vari riti, le streghe facevano scherzi di cattivo gusto agli incauti passanti e si abbandonavano ai più sfrenati piaceri. Il tutto avveniva sotto l’egida del diavolo che, per l’occasione, si mascherava con un vello di caprone, preventivamente posto dalle “Janare”, sul ramo di un albero.
Lo storico Michele Jannacchini nel 1889 così descrive il ponte: “Sul Calore, presso Luogosano, v’è un ponte Romano ben osservato e di stupenda costruzione. Si, è di un arco solo e di fabbrica laterizia, lungo, compresi i pilastri, metri 52 e largo circa metri 8”. Oggi la struttura originaria non esiste più perché fu minata dai Tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Gli anziani del luogo ricordano che per distruggere il ponte, si rese necessario far brillare le mine due volte. La prima volta le cariche, a causa di un errore di calcolo, si rivelarono deboli ed inefficaci e quindi arrecarono solo lievi danni; la seconda volta, invece, furono più potenti e la deflagrazione fu così devastante che l’arco si innalzò per intero, frantumandosi solo in un secondo momento all’impatto col suolo. Al suo posto si può osservare una costruzione eretta alla fine degli anni quaranta, senza dubbio più funzionale e moderna, ma sicuramente meno pregiata; essa collega la stazione di Luogosano con la strada che porta al nucleo industriale.


Il nuovo ponte dei Diavoli

 

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Il ponte della Lavandaia

Il Ponte Irpino sul Calore, detto anche Ponte del Mulino è una tipica costruzione di edilizia pubblica romana.


Montella - Ponte della Lavandara (1950)

Le sue origini non sono certe, ma si ritiene che esse risalgono al primo secolo a.C. Fino agli anni 50 era considerata la via di comunicazione più comoda per chi voleva passare sulla sponda destra del Calore. Costituito da un unico arco avente circa 10 metri di luce e largo circa metri 3,40, il ponte poggia su due piloni dello spessore complessivo di metri 2,40.
I parapetti furono costruiti in epoca successiva. La forma della sede stradale non era rettilinea, come si presenta oggi, ma a “schiena d’asino” come si evince dal quadro del pittore napole-tano N. Palazzi* e da alcune vecchie foto; del resto, questa era una caratteri-stica propria dei ponti romani.
La struttura fu chiamata dagli abitanti del luogo con il nome di “Ponte della Lavandara”, rifacendosi ad un’antica leggenda medioevale, secondo la quale da quel ponte una bella “lavandara”, che era stata sedotta da un giovane, fu spinta nelle acque del fiume dal seduttore stesso, che temeva conseguenze per una paternità non desiderata4.


Montella - Ponte della Lavandara e Cascata del Calore (1950)

*Nicola Palizzi (1820-1870), fratello minore del più famoso Filippo, pittore della scuola Napoletana. La sua tela è conservata nella galleria delle belle arti di Napoli.

 

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Le passerelle

Oltre ai resti dei ponti costruiti in epoca romana, precedentemente descritti, lungo il fiume Calore si possono osservare parti di ponti medioevali. Numerose erano anche le “passerelle” di legno, che venivano costruite, ogni anno, all’inizio della primavera, per permettere agli uomini e agli animali (greggi - asini) di attraversare il fiume e tolte prima delle piogge autunnali.


Contadine riprese mentre trasportano pietre per la costruzione di un argine atto a contenere le piene del Calore e proteggere le proprietà del Cav. Pasquale degli Uberti, ubicate in località “Isca la Renola” e Isca delle Cavalere” in tenimento di Taurasi. Foto del 1910 messa a disposizione dal dott. Guido Penta

In tutte le persone di una certa età, è vivo il ricordo delle “passerelle” costruite in occasione della fiera di S. Anna che si svolgeva il venticinque e il ventisei luglio a Montemiletto e della festa di S. Ciriaco Martire l’otto agosto a Torre le Nocelle.
A testimonianza di quanto affermato, si riporta un documento, depositato presso la Biblioteca Vaticana a Roma, risalente al 15 giugno del 1626. Esso è la prova dell’esistenza di passerelle sul fiume Calore, attraversato, da uomini ed animali, anche più volte nella stessa giornata e anche della richiesta della costruzione di un ponte più stabile e sicuro.


Le famiglie Henrico di Cassano di Mirabella Eclano e Penta di Fontanarosa, ospiti di Pasquale degli Uberti, trascorrono una giornata lungo il fiume Calore in località “Isca la Renola” in tenimento di Taurasi. Foto del 1910 di proprietà del Dott. Guido Penta.

Nel testo, infatti, è presente la citazione di un tale Giovanni Francesco Sanfelice, in relazione ad un riferimento ereditario, che sottolinea apertamente che il fiume Calore risultava “essere rapido e pericoloso e che provocava frequentemente improvvise inondazioni con abbondanti tracimazioni delle acque. A causa di queste, pertanto, né gli uomini né gli animali, una volta oltrepassato il fiume, potevano rientrare nelle loro sedi”.
“Le acque sprofondate solevano causare morti per affogamento sia agli uomini che agli animali che si avventuravano nell’attraversamento del fiume. Si supplica, pertanto, il potente dell’epoca, padrone delle terre confinanti (citando la località di Poppano) di permettere il transito agli uomini, agli animali ed ai carri con la costruzione di un ponte”.
Il documento, non sempre di facile interpretazione, continua citando ponti e situazioni oggi sconosciute.
Nel testo si fa riferimento anche ad un avvenimento verificatosi il 26 maggio 1621 (un’abbondante tracimazione) che ha indotto a formulare una richiesta di risarcimento danni.
Il documento termina con la testimonianza di Michelangelo Simonelli di San Mango che riferisce sulla provenienza del documento “presentato per mano di Giovanni Andrea Prizio e a lui stesso restituito, dopo una concordanza testimoniale basata sulle parola data e ricevuta con l’augurio di buona salute” e si chiude con dovuto sigillo e firma in data 15 giugno 1621.




Documento proveniente dall’archivio Boncompagni Ludovisi, Prot. 275, parte II, fasc.lo 3 “19 maggio 1621 - Provvisione spedita dalla Regia Camera della Sommaria di Napoli, in cui si accorda al Barone di Poppano di costruire a sue spese un ponte sul fiume Calore, nella prossimità di Montefuscolo”

 

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Bibliografia

-M. Jannacchini, Topografia storica dell’Irpinia, vol. I, Napoli, 1889.
-A. Salerno, Partenopoli diritto alla storia, Grafic Way Edizioni, 1997.
-F. Tannini, La fertilità del territorio e il suo sviluppo, Corriere dell’Irpinia, 31-12-2000, Avellino.
-F. Palatucci, Montella di ieri e di oggi, Laurenziana, Napoli, 1969:
-F. Scandone, Storia dei comuni irpini, vol. II, Detken e Raholl, Napoli, 1971.
-G. Pescatori Colucci, Enciclopedia Hirpina, Aeclanum romana: Soria di una città, Sellino e Barra Editori, Stampa: Incisivo - Salerno, 1996.
-L. Martiniello, Aeclanum - Tra archeologia e storia, Edizione Pro-loco Aeclamun, Tipolitografia F. Della Rocca “Derograf”, Monitoro Superiore, 1996.
-N. Gambino, Aeclanum Cristiana, 1982
-N. Caruso, La potente baronia di Vico e S. Nicola Baronia.
-S. Bonavitacola, Montella - Guida alla città, Dragonetti, Montella, 2001.
-S. Moscariello, Montella fra note e immagini, arti grafiche 2000 s.n.c., Montella, 2000.
-U. Reppucci, San Mango sul Calore - Un lembo di terra irpina -
-V. D’ambrosio, Ponte appiano - Un viadotto di venti secoli , in “Vicum” marzo-dicembre 1994 - Poligrafica Irpina, Lioni, 1994.
-S. Salvatore, Il fiume Calore era navigabile, in “Il Mattino” anno CII 13-11-1993.
-R. Rivera - Villarreal - J. G. Cabrera, La microstruttura di calcestruzzo leggero di duemila anni fa, in “Technology”, 11/98.

 

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SCHEDA DI APPROFONDIMENTO N. 3
L’EVOLUZIONE DEI PONTI


















 

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SCHEDA DI APPROFONDIMENTO N° 4
LA MICROSTRUTTURA DEL CALCESTRUZZO DI DUEMILA ANNI FA

IL CALCESTRUZZO PIù ANTICO

Secondo Stanley, il calcestruzzo più antico e noto all’umanità è quello rinvenuto dagli scavi effettuati lungo le sponde del fiume Danubio a Lepenski Vir, in Yugoslavia, si stima che la nascita di questo conglomerato, costituito da calce rossa, sabbia, ghiaia e acqua, risalga a circa 7000 anni. Esso veniva utilizzato per costruire gli spessi pavimenti delle capanne dei pescatori.
Gli antichi Egizi realizzarono, in epoca successiva, un nuovo tipo di calcestruzzo, costituito da una malta a base di gesso e non da malta a base di calce, come molti credono. Gli studiosi sono giunti a questa conclusione tenendo presente che in Egitto il combustibile scarseggiava e che, pertanto, le quantità disponibili non sarebbero risultate sufficienti per poter raggiungere le elevate temperature (900° C circa) richieste per decarbonare la roccia calcarea, ma sarebbero state soltanto in grado di consentire la disidratazione del gesso (che avviene a temperature decisamente minori: circa 100°-140° C).
Gli Egizi utilizzavano le malte di gesso come legante tra mattoni e pietre, sia come intonaco per rivestire murature in conci di pietra o laterizio.
Lo sviluppo della tecnologia per la produzione delle malte e del calcestruzzo a base di calce ha avuto inizio poco più di duemila anni fa, contemporaneamente, nei villaggi di Totonaca nello stato di Veracruz in Messico in Mesoamerica, e nel mondo greco-romano, pur non essendoci tra le due civiltà alcun contatto. Queste tecniche di produzione dei conglomerati furono perfezionati ed affinati proprio da questi ultimi popoli.

IL CACESTRUZZO ROMANO

Mallison ipotizza che la civiltà romana abbia appreso l’arte di realizzare il calcestruzzo da quella greca, Stanley, invece, riferisce che è stato ritrovato un calcestruzzo romano databile prima del 300 a.C. Davey fornisce una descrizione ben precisa su come i Romani avessero sviluppato e utilizzato il calcestruzzo: “si pensa che i primi impieghi del calcestruzzo abbiano riguardato le fondazioni; alcuni esempi si ritrovano nel podio dei templi della Concordia e in quello di Castore, rispettivamente del 121 e del 117 a.C. Il calcestruzzo, in inglese “concrete”, dal latino “concretus”, con il significato di materiale solido, compatto, costituito da diversi componenti, era indicato con il termine “opus caementitium” ed era utilizzato estesamente per riempire l’interno dei muri costituiti da paramenti in blocchi di pietra.


Ponterotto: particolare della piattaforma in calcestruzzo (opus cementitium)

Gli strati interni di “caementa”, consisteva in rottami di pietra e tegole con una malta a base di calce. Quando i paramenti esterni della muratura con grossi blocchi di pietra (“opus africanum”) vennero sostituite con le facciate in piccole pietre ,come nel I e II secolo a.C., questa tecnica divenne nota con il nome di “opus incertum”e usualmente richiedeva l’impiego di casseri di legno durante la costruzione. L’“opus reticulatum” era simile, ma i paramenti esterni del muro venivano realizzati con blocchetti di pietra squadrati disposti con lati a 45° rispetto all’orizzontale, con un disegno a diamante, cioè formante un motivo a reticolo in uso dal I secolo a.C. fino al II secolo d.C .
L’“opus testaceum” consisteva in un muro in calcestruzzo realizzato in mattoni che fu utilizzato dal I secolo a.C. sino alla fine dell’Impero d’Occidente. Infine, nella “opus mixtum” i parametri venivano realizzati utilizzando sia pietre che mattoni e venne impiegato dal II secolo d C. in avanti. I romani quindi utilizzarono il calcestruzzo in quasi tutti i tipi di costruzione”.


Opus reticulatum (particolare del muro di recinzione della vecchia “Abellinum”)

Da un manuale di Vetruvio si è appreso che con il passare degli anni i Romani migliorarono le tecniche di costruzione sviluppando calcestruzzi più leggeri, per la costruzione di volte, cupole e archi, utilizzando aggregati come pozzolana, roccia vulcanica porosa, vasi di terracotta e materiali simili. Inoltre, per risolvere ulteriormente il problema del peso eccessivo, oltre ad ottimizzare il calcestruzzo leggero, sperimentarono rinforzi in metallo.

 

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LE ANTICHE TECNICHE DI PESCA


Gerardo Feola (1960)

Pesca con il “caggiuolo”

Per praticare questo tipo di pesca che avveniva di notte, in assenza della luna, ci si serviva del “caggiuolo” (fig.1), del “forchettone” (fig.2) e della “capaia” (fig.3). Il primo serviva per produrre una sorgente di luce, indispensabile sia per attrarre i pesci sia per dare visibilità al pescatore. I pesci, passando dal buio profondo alla luce intensa, restavano attoniti per alcuni secondi, tempo sufficiente al pescatore per infilzarli con il “forchettone”. Quando la preda era stata catturata veniva messa nella “capaia”, contenitore di vimini, fatto artigianalmente dai “cistari” (artigiani locali), provvisto di coperchio.


“caggiuolo” Fig.1


“forchettone” Fig.2


“capaia” Fig.3

FUNZIONAMENTO DEL “CAGGIUOLO”

Nel contenitore “B” (Fig.4) veniva messo il carburo di calcio, meglio conosciuto dai nostri antenati col nome di “carbuto”, successivamente lo stesso veniva infilato nel contenitore “C” con il quale formava un unico corpo. L’insieme ottenuto veniva introdotto nel recipiente di base “A”, parzialmente riempito di acqua.


Fig.4
Legenda:
A - Contenitore di base
B - Contenitore per il CaC2
C - Coperchio ad incastro
D - Tubo per la raccolta del gas
F - Condotto …..
E - Tubo di gomma
G - Ugello
H - Visiera
I - Manico

Per il fenomeno della capillarità*, il liquido saliva tra le pareti dei contenitori “B” e “C”, dove entrava in contatto con il carburo di calcio, provocando la seguente reazione:

CaC2 + H2O = C2H2 + CaO
carburo di calcio + acqua = acetilene + ossido di calcio

Il gas ottenuto (acetilene) si convogliava nel tubo di raccolta “D” e, attraverso il tubo di gomma “E”, giungeva al condotto “F” e di qui all’ugello “G”. A questo punto il “Caggiulo” era pronto per essere usato, previa accensione, come sorgente di luce. La visiera “H” aveva la funzione di concentrare la luce verso il basso.


Attrezzi per la pesca con il caggiuolo

Pesca con l’idrossido di potassio

L’idrossido di potassio**, detto anche potassa caustica, la cui formula chimica è KOH, è una pasta bianca che sciolta in acqua produce ioni idrossido (OH-), irritanti per la pelle, per questa ragione è detta alcalina o caustica. Tale sostanza, usata dai pescatori di frodo, veniva sciolta nell’acqua del fiume dove liberava ioni, i quali si accumulavano sotto le branchie dei pesci provocandone irritazione, e, di conseguenza, diminuzione dell’attività respiratoria. I pesci, quindi, morivano per asfissia.

Pesca con la polvere pirica

E’ questa una delle tecniche più usate, nel passato, dai locali pescatori di frodo e, senza dubbio, la più pericolosa. Da una indagine svolta sul territorio, risulta che almeno dieci-dodici persone, residenti nel nostro comune, abbiano perso la mano o parte delle dita a causa dello scoppio anticipato del petardo o “botta”. Questi in genere erano preparati in casa, in modo artigianale e non sempre da persone competenti. La miscela esplosiva o “carica”, posta in un contenitore di forma cilindrica, veniva fatta esplodere nell’acqua, previa accensione della miccia***. L’esplosione determinava un’onda d’urto che danneggiava gli organi interni dei pesci.
La polvere pirica è costituita per il 75% di nitrato di potassio o salnitro, per il 15% di carbonella e il 10% di zolfo ed è detta anche polvere nera o polvere da sparo, essa fu il primo esplosivo utilizzato nella storia umana. La sua formula, nota agli arabi, appare negli scritti di Ruggero Bacone****, ma era stata probabilmente già scoperta dai cinesi che centinaia di anni prima la utilizzavano per confezionare fuochi d’artificio.

* Fenomeno dovuto alla tensione superficiale per cui entro tubi sottili il liquido raggiunge un livello diverso rispetto a quello di altri vasi comunicanti più lunghi.
** Il potassio è un elemento metallico morbido e reattivo di simbolo K (dal latino Kalium “Alcalino”). Scoperto nel 1807 dal chimico britannico Humphry Davy, ha un colore bianco argento, con un indice di durezza molto basso, può essere tagliato con un semplice coltello. Il potassio fonde a circa 63° C e bolle a 760° C. Il metallo si ossida appena viene esposto all’aria e reagisce violentemente con l’acqua, producendo idrossido di potassio ed idrogeno gassoso. Siccome l’idrogeno prodotto brucia spontaneamente, il potassio viene sempre mantenuto in liquidi come la paraffina.
*** Miccia: corda concia e preparata (cotta in soluzione di nitro) che accesa ad una delle due estremità arde lentamente e continuamente anche nell’acqua, serve per dare fuoco alle polveri.
**** Ruggero Bacone : ( 1214 -1292 ), filosofo, teologo e scienziato inglese. Studiò presso le Università di Oxford e di Parigi, dove insegnò per sette anni. Subito dopo rientro in Inghilterra dove entrò nell’ordine francescano e si stabilì ad Oxford, dedicandosi a studi ed esperimenti di alchimia, ottica e astronomia.

Pesca con i “capi”

Un’altra delle tecniche di pesca utilizzate dai nostri compaesani era quella del filacciolo, comunemente chiamato “capo”. Il principio era molto semplice, si prendeva un filo di spago a cordoncino, della lunghezza di circa metri 2,50 alle cui estremità si facevano dei cappi nei quali si infilavano delle pietre dalla forma allungata. Sul filo, alla distanza di 30-40 cm, venivano legati degli ami con del cotone, alle cui estremità venivano messi dei lombrichi e, infine, sul far della sera, il tutto veniva messo in acqua, facendo attenzione che il filo fosse ben teso. I pesci per mangiare il lombrico rimanevano impigliati nell’amo. La mattina successiva, all’alba, con un bastone ad uncino si tirava il filo e si raccoglievano i pesci che venivano collocati in una “capaia” o in uno zaino di tela.


Filaccione e uncino


Filaccione - Elaborazione grafica degli alunni: Morena Tonino - Porciello Maria - Tammaro Simone
Legenda:
A = amo
B = sasso
C = nodo corsoio
D = fiocco o cappio
E = uncino in legno
F = cordoncino

Pesca con le mani

La pesca con le mani veniva effettuata lungo l’argine del fiume. Si immergevano le mani nell’acqua profonda, cercando di tastare l’argine, per individuare la presenza di eventuali tane. Le entrate potevano essere formate da due o tre fori, esse erano delle vere e proprie “uscite di sicurezza”. Già da tempi remoti i pesci si erano avvalsi di queste opportunità prima dell’uomo; è da sottolineare che le uscite di sicurezza sono state introdotte dall’uomo solo in epoche recenti. Esse distavano tra loro circa quindici- venti cm.. Individuate le uscite se ne chiudevano una o due con dei rami e la restante veniva usata per infilare il braccio ed estrarre i pesci. Qualora il condotto era troppo lungo, tanto da non permettere di arrivare con il braccio all’interno della tana, si chiudeva anche l’ultimo condotto e veniva praticato un foro con vanghe e zappe sulla riva e, precisamente, nella parte superiore della tana. La quantità del pescato variava, poteva raggiungere anche trenta-quaranta Kg.

“Preta ‘ncoppa a preta”

é questa la più antica tecnica di pesca praticata dall’uomo. Essa consisteva nel prendere un sasso di media dimensione e scagliarlo su un altro masso, presente sul letto del fiume, in modo da tramortire eventuali pesci presenti sotto di esso. A questo punto si alzava la pietra e si raccoglievano i frutti.


Elaborazione grafica degli alunni Morena Tonino e Pastore Antonio

Pesca “c‘o cannizzo”

Di sicuro era la meno frequente ed era effettuata prettamente nel periodo autunnale, quando le acque del fiume, a causa delle piogge, si intorbidavano.
Si utilizzava un pannello di canne largo circa un metro e cinquanta che veniva sistemato al centro del fiume ed ancorato a due pali, precedentemente conficcati nel letto del fiume stesso. Lateralmente ai paletti venivano creati dei piccoli ripari in pietra dove i pesci, e in particolar modo le anguille, che in questo periodo si spostavano per depositare le uova, si arenavano sul pannello di canne e per mancanza di ossigeno morivano ed erano raccolte dai pescatori.


Elaborazione grafica degli alunni Morena Tonino e Pastore Antonio

 

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TUTTI AL “MARE”

1910


Donne riprese mentre lavano i panni nelle acque del Calore in prossimità della proprietà del Cav. Pasquale degli Uberti. Foto di proprietà del Dott. Guido Penta.


I membri delle famiglie Henrico di Cassano di Mirabella Eclano, Penta di Fontanarosa e degli Uberti di Taurasi, tutti in posa per immortalare una giornata particolare in località “Isca la Renola”. Foto messa a disposizione dal Dott. Guido Penta.

1950


Da sinistra: Giovanni Caggiano - Antonio Cristiano


Giovanni Caggiano

1954


A sinistra Guido Russo, a destra Gerardo Mongiello


In acqua Ugo Caputo - a destra Guido Russo

1957


Una scampagnata al fiume. In primo piano: Silvia Tranfaglia, a sinistra: Baldassarre Pizzano - Lina Tranfaglia - Benito Di Donato. In piedi: Assunta De Cristofaro - Anna Tranfaglia. A destra: Ida Casparriello - Antonio De Cristofaro- Anna Santosuosso - Dario Tranfaglia


Da sinistra: Giovanna Santosuosso - Assunta De Cristoforo

1958




Località Ponte Calore: Da destra: Alba Colarusso - Elia Giovino - Rosetta Colarusso

1960


Da sinistra: Adelina Panza - Lina Caggiano


Alfredo Urciuoli


Un tipo da spiaggia: Alessandro Santosuosso


Guido Russo

1961


Un tuffo dal “Ponte re Zoccoletti”


Vittorio De Angelis


Vittorio De Angelis


Sulle spalle di Benito Manganiello, Vittorio De Angelis . a destra: Attilio Orecchia

1962


Rosaria e Gaetano Caggiano


Da sinistra: Giuseppe Pizzano - Antonietta Pizzano - Assunta Palermo


Da sinistra: Rosaria e Gaetano Caggiano - Antonietta Pizzano - Ida Quadrini - Mariagrazia Palermo

1963


Da sinistra Lina Caggiano - Filomena Pizzano


Assunta e Raffaele De Cristofaro

1965


Giovanni Perriello


Da sinistra: Fernando Selvitella - Raffaele Tranfaglia - Carlo Colarusso

1969


Adelina Panza


Da sinistra: Esterina Bevilacqua - Adelina Panza - Maria Martiniello

1970


Vincenzo Martiniello e Elisa Palermo


A sinistra: Baldino Pizzano

1973


Baldino Pizzano


Da sinistra: Gerardo Iannuzzi - Giuseppe Martiniello - Beneamino De Feo

 

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I Mulini

““Odisseo chiese un segno a Zeus,
e dal luminoso Olimpo nella
regione delle nubi Zeus tuonò.
Dalla casa si levò un grido: era
un’ancella mugnaia …”
Odissea, Canto XX

Preistoria dei mulini

Il pane, già seimila anni fa, costituiva l’alimento abituale delle popolazioni dell’area mediterranea (Egizi, Assiri, Persiani, ecc.). A quel tempo, però, non era semplice ricavare dal frumento la farina. La prima forma di macinazione dei cereali fu la frantumazione del grano a colpi di pietra.
L’archeologia ci rivela che in epoche successive la produzione di utensili elementari come: il levigatoio, il mortaio con pestello e il levigatoio a tramoggia, facilitò questa operazione faticosa, mansione affidata alle donne sulla base della divisione del lavoro vigente nella società antica. In tutti questi casi, però, la farina che si otteneva era grossa, ineguale e conteneva frammenti di pietra.


Chicchi di grano - Foto G. Pasciuti -


La semina - Foto G. Pasciuti -

Il levigatoio

Il levigatoio era costituito da una lastra di pietra con i bordi rialzati (una specie di grosso piatto) che fungeva da base e da un grosso ciottolo a forma di pagnotta o di rullo che si impugnava con entrambe le mani e serviva per schiacciare i chicchi. Il lavoro al levigatoio era eseguito da una persona in ginocchio (in genere una donna).



Il levigatolo: il piatto e il ciottolo(1)-


Donna egiziana al levigatoio(2)

Il mortaio

Il mortaio era un recipiente solitamente di pietra, più raramente di legno, a forma cilindrica, più alto che largo per evitare fuoriuscite di materiale durante la lavorazione. Il grano veniva frantumato con un lungo pestello di legno manovrato da una persona che lavorava stando in piedi o con un corto pestello e in tal caso si lavorava stando seduti.


Un “mulino” nell’antico Egitto(3)


Antichi mortai - Foto E. Guidi -

Il levigatoio a tramoggia

Il levigatoio a tramoggia presen-tava ancora una pietra piatta, fissa, che faceva da banco. La pietra superiore, però, non era più un semplice ciottolo. Al posto del ciottolo c’era una pietra levigante costituita da un blocco a forma di parallelepipedo, cavo all’interno, con un piccolo foro sul fondo: una tramoggia, appun-to. Il grano veniva versato dall’alto, passava attraverso il foro e veniva triturato fra la lastra di banco e la base della tramog-gia. Per muovere la macina si usava un manubrio di legno, un’estremità del quale era tenuta fissa mediante un perno ancorato alla base. In questo modo il lavoro diventava relativamente meno faticoso, la qualità del ma-cinato era leggermente migliore, ma soprattutto aumentava la quantità di prodotto nell’unità di tempo.


La macinazione con il levigatolo a tramoggia(4)


Macina a tramoggia(5)

Macina girevole

Alcuni secoli prima di Cristo ci fu l’introduzione della macina girevole che determinò un progresso decisivo. Dal movimento rettilineo alternato del pestello nel mortaio (cioè, per dirla più semplicemente, a “va e vieni”) si passò a quello circolare continuo di una macina che poteva essere azionata da una persona (macinello), da gruppi di persone (schiavi, cittadini poveri, delinquenti condannati) o da animali (pistrino). Questa innovazione risultò essenziale per realizzare macchine-mulino di grandi dimensioni in grado di soddisfare le crescenti esigenze di società più complesse come quelle greca e romana. Le macine conserveranno la forma circolare fino all’avvento del mulino a cilindri.

Il macinello

La prima macchina a movimento rotatorio fu il macinello; esso era costituito da due cilindri: quello superiore, munito di manico per determinare il movimento rotatorio, era tenuto in sede da quello inferiore. L’aspetto funzionale consisteva nel fatto che aveva dimensioni molto ridotte che lo rendevano facilmente trasportabile, ma ne limitavano anche il rendimento. Il macinello ha avuto in tutti i tempi e presso tutti i popoli una larghissima diffusione come mulino familiare, domestico. Inoltre è tornato sempre utilissimo nei casi d’emergenza anche in epoche a noi molto vicine, come durante la seconda guerra mondiale.


Un macinello montato su tronco(6)


Macinello - Foto E. Guidi --


Struttura del macinello:Vista frontale


Struttura del macinello:Vista dall’alto


Struttura del macinello:Vista della faccia inferiore del pezzo A


Struttura del macinello:Vista dall’alto del pezzo B


Antichi macinelli per caffè, pepe e orzo - Foto E. Guidi -

Il pistrino

Un attrezzo a metà fra il macinello e il mulino vero e proprio fu il pistrino, detto anche macina girevole, fu usato per la prima volta in Grecia e si diffuse durante il secondo secolo a.C. in tutto il mondo romano. Questo attrezzo viene anche chiamato mulino pompeiano per via dei numerosi esemplari trovati fra le rovine della cittadina vesuviana.
Il pistrino era formato da una parte fissa (la meta) che aveva la forma di una campana ed era saldata ad un basamento circolare in muratura. La parte girevole (il catillus) era composta da due coni, entrambi cavi, ricavati da un unico blocco di pietra e uniti per i vertici (la forma del catillus era simile a quella di una clessidra). Il cono superiore serviva da tramoggia, quello inferiore poggiava “a cappello” sulla meta e, ruotando, frantumava il grano. La macina veniva fatta girare, mediante due appositi bracci di legno, da schiavi (mola manuaria) o da animali (mola asinaria). Ai pistrini di Pompei e di Ercolano era solitamente annesso un forno per la cottura del pane. Insomma con l’invenzione del pistrino la molitura e la fabbrica-zione del pane perdettero il loro tradizionale carattere familiare e cominciarono a diventare un’attività industriale.


Pompei: forno (a sinistra) e pistrini (a destra)


Pompei: Mulino per grano


Pistrino - Elaborazione grafica degli alunni della IIIB -



Pistrino: sezioni - Elaborazione grafica degli alunni della IIIB -

Mulini ad acqua

Il mulino ad acqua, noto ai Cinesi fin dal secolo V a C., nel mondo greco-romano fece la sua comparsa agli inizi del secolo I a C.. In Siria ed in Mesopotamia era già in uso da tempo. Sembra anzi che i Romani ne avessero appreso il funziona-mento proprio in seguito alla conquista di quelle regioni. Anche se Plinio, nel I secolo, parlava di mulini idraulici, in Italia essi ebbero scarsa diffusione durante il periodo romano a causa della grande quantità di energia muscolare allora disponibile e perché richiedevano un flusso d’acqua continuo con una certa velocità, un sistema di regolazione dell’energia idraulica e un complesso di meccanismi in grado di resistere agli sforzi conseguenti all’elevata potenza disponibile. Nonostante ciò, a partire dal I-II secolo vennero perfezionati mulini idraulici con ruote a pale di grosso diametro e con asse orizzontale, sfrut-tanti corsi d’acqua veloci o salti d’acqua artificiali. Le macine, sempre in pietra, erano azionate da un albero mosso da una coppia di ruote dentate in legno.


Ruota idraulica orizzontale del mulino Balone di Tolè (Bologna), secolo XIX. - Foto V. Ardizzoni(7)-


Guida in legno (“maschera”) per la costruzione dei catini. Mulino Balone di Tolè (Bologna), secolo XIX. - Foto V. Ardizzoni(8 )-


Mulino Mazzone, Pianaggio di Monghidoro (Bologna). Attrezzo per lavorare le pale a cucchiaio in legno. - Foto C. Fanti(9) -

Tali mulini vennero realizzati per l’attività molitoria solo in grandi città e per la frantumazione di minerali, ovunque fosse possibile impiantarli. La tecnica di macina-zione era fondata sullo schiaccia-mento dei cereali tra una macina fissa, “dormiente”, come si diceva in gergo e l’altra girevole, “macinante”. Quest’ultima era mossa da una ruota a pale con asse verticale che erogava una potenza di 3-5 Cv.
La macina girevole aveva al centro un grosso foro, “l’occhio”, attraverso il quale passava il frumento proveniente dalla tramoggia, ed era munita di scanalature per facilitare lo scarico del prodotto (farina).
La tipologia dei mulini è sempre dipesa principalmente dalla natura dei corsi d’acqua che li alimentavano.


Macina girante del mulino Notari di Tolè (Bologna), secolo XIX. - Foto V. Ardizzoni(10 )-


Scheda didattica tratta da “Il mulino ad acqua. - Percorsi di esplorazione didattica”(11 )-

Se il fiume aveva una portata rilevante e costante, era possibile collocare i mulini a filo d’acqua, nonostante il pericolo frequente della rottura degli ormeggi a causa delle piene e del loro scontro con i pali dei ponti, quando andavano alla deriva. Se, invece, si trattava di un ruscello o di un fiume che aveva la tendenza a diminuire la portata nei mesi estivi, presso il mulino veniva costruita una botte artificiale (vasca) in muratura per accumulare una riserva d’acqua sufficiente a far girare le macine per un certo periodo. Esaurita la riserva, il lavoro veniva sospeso in attesa che la vasca si riempisse di nuovo. Il canale di adduzione poteva essere lungo anche alcune centinaia di metri, generalmente aveva gli argini in terra battuta (ma non mancavano quelli in muratura) e viaggiava a cielo aperto.


Particolare del foglio di mappa n. 3 in cui sono riportati: il canale di adduzione, le vasche di raccolta e il mulino (l’Accota) di proprietà della famiglia Gallucci. - Elaborazione grafica di Antonio Spera -


Resti del mulino ottocen-tesco, sito in contrada Boschetto, di proprietà della famiglia Gallucci. - Foto A. Spera -

Nei punti depressi veniva tenuto in quota mediante ponti in muratura, ma non mancavano strutture lignee. Un sistema di saracinesche distribuite lungo il percorso regolava il flusso delle acque nei canali. Una griglia metallica installata nel tratto finale serviva a trattenere materiali indesi-derati (grossi sassi, rami, tronchi, ecc.) che la corrente trasportava.
L’impiego del mulino ad acqua diven-tò comune dopo il regresso tecnico-economico dell’Alto Medioevo (V-VIII secolo). I mulini venivano impiantati dai feudatari o dai signori rurali, i quali tra i tanti abusi perpetrati a danno dei cittadini, imposero anche il “diritto proibitivo dei mulini” e questo indirettamente significava il diritto di disporre a proprio piacimen-to delle acque pubbliche che attraver-savano i territori da essi posseduti o amministrati.


Morra De Sanctis (AV) - Canale di alimentazione e canna (pozzo) del mulino Donatelli. - Foto D’Amato -


S. Andrea di Conza (AV) - Il canale di alimentazione del mulino Martino(12 )-


Teora (AV) - L’imboccatura della canna del mulino Corona(13 )-

La conseguenza di tale uso privato di tutto “il fluido della natura”, portò al risultato che essi furono gli unici ad avere diritto a costruire mulini lungo le rive dei fiumi che si trovavano sotto la loro giurisdizione. Al divieto imposto ai privati di costruire impianti da macina, e non solo, ben presto si aggiunse anche l’obbligo per i “borghigiani” di macinare nel mulino del signore di turno, pena, per chi andava a macinare altrove, la perdita della “roba” che portava a sfarinare.
Ogni famiglia, inoltre, doveva contribuire, annualmente, con una giornata di lavoro alla manutenzione del mulino e della palata, mentre i possessori di bovi dovevano trasportare le travi necessarie alla costruzione della palata, quando la piena la spazzava via o per la sua riattazione. Questo monopolio, che permetteva ai feudatari di trarre lauti guadagni, durò fino al 1806, quando, con una legge contrassegnata dall’allora ministro di Giustizia Michelangelo Cianciulli da Montella, fu abolito il feudalesimo. La questione non si risolse con la legge del 1806, perché con lo Stato unitario ci fu una vera tassa sui mulini. Essa, proposta nel 1862, prima da Quintino Sella e dallo Scialoia poi, venne definitivamente approvata nel corso del II ministero Manabrea a seguito di una precisa indicazione del ministro delle Finanze Cambray, assillato dall’idea di dover fronteggiare, a tutti i costi, l’enorme disavanzo finanziario verificatosi a seguito delle spese sostenute per la guerra del 1866. Con questa legge venne stabilito che, a partire dal 1° gennaio 1869, prima del ritiro della farina, bisognava versare nelle mani dei mugnai una tassa.(doc. n.1).


S. Andrea di Conza (AV) - Resti di macina del mulino Martino(14 )-


La diffusione del mulino ad acqua nell’Europa occidentale ed orientale tra il IV e il XVI secolo secondo Bertrand Gille. Elaborazione grafica di Cesare Castellari(15)


Alunni delle classi III della Scuola Media di Taurasi e Morra De Sanctis in visita al mulino Donatelli - Foto F. D’Amato -

Essa “avrebbe dovuto colpire in maniera strettamente proporzionale alle quantità effettivamente macinate. In realtà, benché fosse un metodo indubbiamente superiore ai precedenti grazie all’applicazione di un contatore meccanico, non poteva tenere conto di tutte le variabili in gioco: fluttuazione della potenza del motore idraulico, maggiore o minore durezza dei cereali, diverse qualità delle forme da prodursi, qualità e stato delle macine, loro aguzzature, etc... Queste piccole manchevolezze furono poi ingigantite dalle dimensioni economiche dell’esazione, che suscitò una quantità di proteste, anche gravi in diverse regioni e segnatamente in Toscana, dove si costituì nel 1870 un comitato dei mugnai che raccoglieva altre mille adesioni”16.
Con tale legge venne imposta, oltre alla suddetta tassa sul macinato, anche quella relativa all’uso di acque pubbliche; chi prelevava acqua, infatti, a qualsiasi titolo (irrigazione, funzionamento di mulini e di gualchiere, ecc.) doveva munirsi di concessione governativa che veniva rilasciata direttamente dal Ministero dei Lavori Pubblici. (doc. n. 2 - 3 - 4).

Documento 1

Tassa sulla macinazione proposta, in data 19 febbraio1872, dall’ingegnere provinciale di Avellino (“effetti dell’articolo 1” approvato il Regio decreto del /6/1871) al Signor Bianco Gallucci proprietario del mulino sito in contrada Boschetto.

Documento 2

Documento del 13 marzo 1872 attestante l’avvenuta notifica, al Sig. Gallucci, della “proposta delle quote fisse” relative alla tassa sul macinato.

Documento 3

Richiesta di fruizione delle acque del vallone Grottone inoltrata al Ministero dei Lavori Pubblici in data 26/12/1918 dal Sig. Michele Gallucci proprietario di un mulino in contrada Boschetto.

Documento 4

Notar de Angelis
A Sua Eccellenza
Il Ministro dei Lavori Pubblici
Nel Regno d’Italia

I qui sottoscritti Ciriaco de Angelis, Gabriele Piscopo e Gaetano Palermo del Comune di Taurasi, in provincia di Avellino, espongono all’E.za V.a tanto in Nome proprio, che come rappresentanti la società anonima sotto la ditta di società d’irrigazione dei fondi detti Ischia della Spina, siti in detto Comune, costituita con pubblico istrumento rogato dal Notaio de Angelis pure di qui, in data 20 Aprile 1880; registrato ai 24 detto al N. 399 in Grottaminarda con lire 6. Nasti ricevitore; nelle persone dei Signori Errico e Francesco de Angelis, Lucrezia Camuso fu Giuseppe, Marciano e Giuseppe d’Isola, Pasquale Lanzillo fu Saverio, Marciano Casparriello fu Michele, Rocco Caggiano fu Luigi, Giovanni Buono fu Marcellino di Luogosano, Gaetano Quaranta fu Arcangelo, Generoso e Scipione Caggiano fu Michele, Nunziante Cosmo fu Domenico, Nicola Caggiano fu Michelangelo, Maria Giuseppa de Angelis fu Gabriele, Marciano Accettullo fu Giuseppe, espongono, si ripete, quanto segue: Che eglino si trovano possessori di alcuni fondi rustici ed irrigabili lungo la sponda del fiume Calore, siti in questo tenimento luogo detto Ischia della Spina, dell’estensione complessiva di circa ettari 11 ed are 22 circa che per il loro naturale e topografica posizione, per la condizione improduttiva hanno bisogno d’irrigazione; senza della quale l’economia dei proprietari contribuenti, sarebbe in ragione inversa della scarsezza delle agrarie produzioni; quindi una concessione di una parte d’acqua del detto fiume bastevole al miglioramento reclamato, sarebbe un dato provvidenziale pei petenti, e rialzerebbe nel medesimo tempo il valore dei fondi, assicurando all’erario dello stato la facile e certa esazione dell’imposte ora troppo gravi relativamente alle rendite. Si noti dall’E.a V.a che fin dal 1850 esisteva un canale di acqua all’uopo costruito, ma poi fu guastato dai frequenti alluvioni. I petenti si assoggettano al pagamento di quella quota che l’E.a V.a nella Sua ben cauta prudenza decreterà; tenendo presente oltre le spese necessarie per la costruzione del cennato canale, sua manutenzione, indennità agli altri proprietari per l’occupazione del terreno necessario pel cennato corso d’acqua, ma ancora la natura cretacea dei fondi da irrigarsi. Taurasi 12 Maggio 1880
Ciriaco de Angelis
Gaetano Palermo
Gabriele Piscopo
Visto per la legalità delle firme.
Taurasi li 12 Maggio 1880
Pel Sindaco assente
Marciano Ferro

Richiesta di fruizione delle acque del fiume Calore, inoltrata al Ministero dei Lavori Pubblici in data 12/05/1880 dai Sigg.: Ciriaco De Angelis, Gaetano Palermo e Gabriele Piscopo in qualità di rappresentanti della ditta “Società Anonima d’Irrigazione dei fondi detti Isca della Spina”, costituita da 32 persone tutte residenti in Taurasi e proprietari in totale di 33 tomoli (11 ettari) di terreno siti in località Isca della Spina e Isca del Ponte.

Notizie sugli antichi mulini di Cassano Irpino, tratte da “L'alta valle del Calore”, vol. VI - Cassano Irpino
di Francesco Scandone.

Doc. 23 - 1286. Da un’inchiesta, eseguita dopo l’arresto di ADENOLFO, conte di Acerra, risulta che la terra di Cassano, col castello, è posseduta in suffeudo da GUBITOSA DE AQUINO, sorella del conte. Le rendite feudali sono le seguenti: dal molino, tre once; dalla bagliva, quattro once; dal battinderio (gualchiera), due once. (Fascic. Angioino XCII, fol. 192).
Doc. 26 - 1291-92. Da altra inchiesta, che mira ad assodare la rendita netta feudale di Cassano, si constata che “domina Gubitosa de Aquino tenet Cassanum, valens annuatim uncias auri novem: cuius annuus valor consistit in molendino, uncias auri tres; baiulatione, uncias auri quattuor; bactinderio, uncias auri duo”. (Frammenti Fascic. Angioino 92, fol. 192).
Doc. 73 - 1529. Ippolita Carafa, vedova del conte di Montella TROIANO I (CAVANI-GLIA, possessore del feudo di Cassano), per l’assegnazione del marito, aveva esatto per la sua dote, in Cassano, 2002 tomoli di grano sul molino; 354 ducati sulla gabella della gualchiera. (Sentenza del Sacro Reale Consiglio, 111, fol. 80).
Doc. 125 e 125 bis - 16 e 18 luglio 1569. Vendita, fatta dal conte Garcìa II Cavaniglia vende al suo prozio Andronico, (figlio di Troiano I e di Ippolita Carafa) del feudo di Cassano. Nel documento sono elencati i beni appartenenti al conte: il castello, la bagliva, i forni, la ferriera, territori seminativi e castagneti e due molini: uno, alimentato “a flumine Bagni” (sorgente Bagno), sito in territorio di Montella; l’altro, nominato molino di Bagnoli, “quamvis sit positum in territorio dictae terrae Cassani”. (Processi antichi della Sommaria, Pand. 14, vol. 65, n° 435, fol. 31).
Doc. 223 - 1592. Il barone (Scipione Galluccio, napoletano) aveva presentato reclamo contro l’università (di Cassano) perché alcuni cittadini preferivano andare a macinare le granaglie in altri molini, anche lontani, e non in quelli suoi, feudali. (Part. cito 1247, fol. 53).
Doc. 385 - 1668, gennaio, 28. Si era scritto al Vescovo (di Nusco, Angelo Giordano Picchetti - 1662-1668) perché frenasse il Vicario foraneo Don Nunzio Sacco (di Cassano), che impedisce, nei giorni festivi, il lavoro del molino... II giorno di Pasqua, il Vicario aveva fatto sequestrare ad alcune donne di Nusco il grano, che avevano portato al molino di Cassano. ( Exhortat. vol. 35, 101. 178 ).
Doc. 436 - 1712, luglio, 12. Il barone di Cassano (Tommaso Guarnieri Giaquinto) tenta di accrescere l’afflusso delle acque del Bagno, sorgenti nel territorio di Montella, in un suo acquedotto, che mena al suo molino, con lo scopo di far mettere in moto altri opifici. (Part. del Coll. vol. 1189, fol. 116).
Doc. 475 - 1790, agosto, 1. Una folla furibonda di montellesi, in armi, tenta di dare l’assalto a Cassano (due giorni prima, gli esattori dei terraggi, cassanesi, erano stati minacciati e messi in fuga dagli affittatori montellesi). Nel conflitto non vi furono morti. Rimase distrutto soltanto il molino del barone (Francesco Guarnieri Giaquinto junior I) mosso dall’acqua del Bagno. (Atti della Soc. storica, pag. 55).
Doc. 505 - 1810, giugno, 13. Il Comune di Cassano cita innanzi alla Commissione feudale il duca e il Comune di Bagnoli, per il molino, che Bagnoli possiede in territorio di Cassano... a proposito della bonatenenza.
L’ultimo mulino ad acqua, di proprietà del sig. Giovanni Pico, fu attivato nella zona “Gualchiera”, nella seconda metà dell’ ‘800. Agli inizi del ‘900, detta zona fu espropriata, unitamente al mulino e all’annesso fabbricato, dalla Società Elettrica Ligure, che vi impiantò la centrale idroelettrica. La stessa Società provvide a costruire un mulino elettrico (il primo della provincia), sorto in vicinanza della sorgente Pollentina.

Il mulino di Castelfranci(18)

Le prime notizie storiche sull’esistenza di un mulino a Castelfranci risalgono al 27 settembre del 1575, quando era signore di quelle terre D. Giovanni Della Marra.
Il mulino fu ristrutturato nel 1698, anno in cui l’allora padrone del feudo Girolamo Maccarelli Brancaccio, marchese di Mirabella, cedette il contado al marchese Thomas Brancia .
Dal catasto onciario, voluto da Carlo III nel 1740, il complesso molitorio fu annoverato fra i corpi “burgensatici” ovvero fra quelle proprietà non feudali, “appartenenti quindi alla sfera privata”. Nonostante ciò, con il passare degli anni gli abusi (diritto proibitivo delle acque e dei mulini, ecc.) perpetrati dal marchese aumentarono a tal punto che il re, nel 1797, in seguito agli svariati appelli pervenutigli dai borghesi del luogo, nominò una commissione di inchiesta. “… Da tale ricognizione i periti rilevano che essendo il mulino burgensatico e costruito su suolo pubblico non abbia il Marchese diritto proibitivo, comeppure essendo le acque del fiume Calore abbondantissime possono costruirvi altri molini senza pregiudizio al mulino marchesale”.
Le risultanze dei tre periti non produssero alcun effetto, anzi con il trascorrere del tempo la posizione del signorotto si irrigidì ulteriormente e le condizioni del borgo peggiorarono, fino a quando non fu emanata la legge che aboliva il sistema feudale (2 agosto 1806). Abolito il feudalesimo, il decuriato di Castelfranci, il 10 agosto 1806, decise di acquistare un terreno per la costruzione di un mulino, cosa che fu fatta a distanza di pochi giorni da quattro delegati del Comune, incaricati di costruire l’opera. Informato dell’acquisto, l’ex-feudatario cercò in tutti i modi di impedirne la realizzazione, costringendo il Comune a tutelare i propri interessi.

Alcuni abusi, rilevati dai periti reali, commessi dal marchese di Castelfranci
1) "...astringe i Cittadini a macinare le vittuvaglie nel molino, che ha costruito lungo il Calore..." ;
2) "...In caso che i Naturali di quella Terra si portassero altrove, soggiacciono alla perdita della Roba, che si porta a macinare...";
3) "...Esigge ducati sette e mezzo per prezzo della mola..";
4) "...I cittadini debbono prestare tante giornate di fatiga per quanti sono i Fuochi, che i medesimi compongono, per costruire la parata delle acque, e per fare 24 pali di legno e dodici fasci di frasche...";
5) "... I Massari che hanno Bovi, debbono trasportare una trave dal Bosco di Bajano, Bosco che prima dava alla Popolazione il comodo di legnare, pascolare, e di cui oggi è privo per essersi ridotto a coltura del Marchese... ";
6) "...Si esigge in detto Molino una misura a tomolo di vittuvaglia, nonostante che ne i molini vicini...si esigono grana due. In Montella luogo vicino a detta Terra di Castel di Franci, tuttoché il Molino sia Feudale si esigge una Cinquina ogni tomolo di grano; due grana per grano d'india, e mezza cinquina per ogni genere di vittuvaglie..."
7) "...Che non ha permesso all'Unità di costruirsi altro Molino...";
8) "...Che abbia l'Unità istessa a fare le macine di detto Molino, ed ogni mese di Agosto i Cittadini gli debbono prestare tante giornate di fatiche, quanto sono i fuochi di quella Terra..."
9) "... Esigge il Marchese di Castel di Franci in occasione di compra di Casamenti, o Territori il dodici e mezzo per cento..."
10) "...Da che esiste il mulino.. si serve sempre ogni Feudatario, come al presente si serve l'attual Marchese di tutto il legno da detto Bosco necessario pel mantenimento della Parata... Le fedi ... presentate dimostrano che vi bisognano circa quindici Cerri in ogni anno per detto mantenimento... Le frasche necessarie per detta Parata si sono sempre ricavate da detto Bosco e vi bisognano in ogni anno almeno tremila fascine...";


Una macina del mulino Notaio di Tolè (Bologna) - Foto M. Cocchi(19)-

Il Mulino di Lapio: ricchezza dei Filangieri
di Fiorenzo Iannino(20)

Il bene più redditizio posseduto dai Filangieri di Lapio durante la loro plurisecolare signoria feudale fu certamente il mulino posto sulle sponde del fiume Calore, lungo il tratto confinante con Taurasi, nel luogo allora denominato “La starza”.
Nel Settecento risultava strutturato in tre locali inferiori ed uno superiore con tre “mole” ed era circondato da un territorio seminativo di 45 tomoli (pure dei Filangieri) con tratti boscosi e un “casino con più stanze”, che i principi utilizzavano per “comodo e spasso”, cioè per divertirsi e riposarsi. La sua importanza era poi sottolineata dalla contiguità di un’antica taverna, attiva fino al Seicento e poi abbandonata probabil-mente per favorire la poco distante taverna del Cerro che, collocata sull’antica strada regia di Melfi, garantiva ai Filangieri entrate più cospicue.


Resti della Taverna del Cerro, prima del terremoto dell’80. Foto messa a disposizione dalla Biblioteca Comunale di Lapio

Nel Cinquecento, affittato per poco più di 500 tomoli di grano annui, il mulino era uno dei più importanti del Principato Ultra (che grosso modo comprendeva le attuali province di Avellino e Benevento), dove soltanto trenta mulini circa raggiungevano o superavano una rendita così cospicua.
In seguito, il fitto in natura fu sostituito da quello in denaro: nel 1743 i lapiani Giovanni Caprio e Giuseppe Cozza pagavano un canone annuo di 370 ducati ; nel 1755 il mulino fu fittato per una cifra leggermente inferiore a Giuseppe e Matteo Carpentieri di Parolise.
Nel dicembre 1746, l’amministratore dell’erario del principe Angelo di Cristofaro dichiarò che i “cittadini di detta terra sono obbligati al servizio personale d’una giornata per ciascheduno fuoco in ogn’anno per la costruzione e la refazzione della palata che conduce l’acqua al molino... e da tempo immemorabile tal servizio s’è prestato e quelli cittadini che volevano esentarsi dal faticare una giornata han corrisposto alla camera Baronale un carlino per ciascheduno il quale deritto chiamasi la giornata della patata”.
Gli amministratori dell’Università, però, risposero che di tale diritto non “se ne ha ragione” e che, peraltro, mancavano gli atti che potevano comprovarlo.
Il principe fu costretto a subire le osservazioni dei suoi vassalli che, a suo dire, si mostravano ingrati: “per la molitura - egli ricordava - sono stati sempre trattati con agevolezza a differenza de molini de circonvicini paesi”.


Macina e tramoggia del mulino Donatelli - Foto F. D’Amato -

Nel primo Ottocento il mulino, che allora funzionava a due macchine, garantiva ancora una buona rendita agli ormai ex principi che, tramite il loro agente don Vincenzo Carbone, nel 1829 lo affittarono per 650 ducati annui a Salvatore Forte e Vincenzo di Costanza che, a loro volta, lo subaffittarono ad una società formata da Raffaele del Grosso, Giovanni Carbone, Angelo Carbone, Tommaso Giliberti, Angiolo di Costanza.
Nei decenni seguenti, però, la sua importanza cominciò a venir meno per una serie di fattori: la scomparsa degli antichi diritti proibitivi; la concorrenza di nuovi impianti costruiti nei paesi vicini; la lontananza dei padroni che curavano sempre meno i propri interessi lapiani; varie inondazioni e, soprattutto, l’isolamento progressivo del paese (l’antica via regia si stava ormai riducendo a mulattiera) che non poté più garantire i traffici di un tempo. Del mulino oggi non resta che la memoria toponomastica della strada che conduce al fiume e della contrada che per secoli lo ha ospitato.


Canale di scarico del mulino Donatelli - Foto F. D’Amato -

I mulini di Mirabella Eclano

Da un documento rinvenuto e pubblicato nel 1996 da don Pasquale Di Fronzo sulla rivista “Civiltà Altirpinia”, apprendiamo che nel XIV secolo ad Acquaputida, oggi Mirabella Eclano, c’era un’abbazia benedettina dedicata al culto di S. Biagio. L’edificio, imponente e maestoso, era importante per le molte rendite di cui godeva. Tra i vari possedimenti, come riportato da don Nicola Gambino21, c’erano anche due mulini ad acqua, localizzati uno in località Casale e l’altro “a la Pistara” (la lettura esatta è “a la Pescara”), a poca distanza dall’attuale chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie; quest’ultimo era ubicato nel punto di confluenza dei valloni Pescaia e Grottone. Al suo posto oggi sono ben visibili i ruderi di un mulino ad acqua, noto a tutti con il nome di “mulino di masto Aitano”, costruito agli inizi dell’800 e funzionante fino al 1920.


Prospetto di un mulino ad acqua a doppia macina

Costruzione del mulino comunale di Montella (1565)
di Ferdinando Palatucci(22)

I Montellesi erano obbligati a servirsi dei mulini del feudatario il quale esigeva i diritti di macinazione.
Nel 1500, essendo fermo per guasti il mulino feudale di Baruso, i cittadini dovevano andare a macinare in quello del Bagno, molto lontano dal paese. Per evitare questo inconveniente, nel 1565 l’Università ottenne dal conte Garsìa II Cavaniglia la licenza di costruire un mulino comunale sul fiume Calore. Il feudatario non perdeva niente per questa concessione fatta all’Università, perché avrebbe continuato ad esigere, in danaro, mediante apposito bollettario, il diritto di macinazione. Eppure per concedere il permesso, pretese mille ducati.
La costruzione del mulino fu affidata ad un appaltatore locale, ma la diga, detta palata, perché fatta di materiale legnoso, di pali, non resse a lungo alle intemperie. Non durò molto neppure la ricostruzione in legno realizzata da carpentieri fiorentini. La diga fu rifatta in pietre da taglio, sotto la direzione dell’ingegnere napoletano Giulio Caso, ed è quella che esiste ancora oggi.
Quando il fiume era in magra, la macinazione diventava difficile. Nel 1638 furono apportate delle modifiche al mulino, nella speranza di poter macinare senza interruzioni, anche d’estate, quando l’acqua era scarsa, ma non si ottennero buoni risultati.
Nel 1720 si deliberò di costruire un secondo mulino comunale al Bagno. Il feudatario, che era allora il principe d’Angri, autorizzò la costruzione del nuovo mulino.


Montella - Vecchio Mulino ad acqua e ponte romano (1950)

Notizie sugli antichi mulini di Paternopoli, tratte da “Partenopoli diritto alla storia”
di Antonio Salerno

All’inizio del II millennio, in tutte le zone interne dell’Irpinia, l’antiquato sistema di macina, costituito da una pesante pietra a forma circolare azionata da asini, risultava ormai inadeguata a soddisfare i bisogni di una popolazione in costante aumento, pertanto, dove era possibile sfruttare l’energia idraulica, furono costruiti impianti di macina azionati dall’acqua. A Paternopoli delle nuove esigenze si fece interprete la chiesa di San Quirico, a cui non tardarono ad affiancarsi quelle di S. Pietro e S. Maria, poi detta a Canna, con la costruzione di distinti impianti di macina a funzionamento idrico, presso il fiume Calore, lungo il tratto prospiciente lo scalo ferroviario di Paternopoli. È probabile che la comunità monastica di S. Maria avesse aderito per ultima al progetto, avendo già realizzato un proprio impianto lungo il vallone della Pescarella che, però, a causa della limitata disponibilità di acqua, aveva trovato un impiego periodico. La struttura fu opera imponente per l’epoca. Per riempire le vasche di deposito delle acque, infatti, si rese necessario realizzare un sistema di chiuse e costruire lunghi canali in parte interrati e in parte aerei.
La storia di questi mulini, se pur inizialmente di proprietà dei monasteri, è legata a Guglielmo il Bastardo, figlio spurio del Duca Ruggero Borsa e nipote di Ruggero II di Altavilla e alla sua discendenza. Dopo la battaglia del Garigliano, Ruggiero II sconfisse il Papa Innocenzo II e confermò Guglielmo il Bastardo nel possesso dei beni assegnategli dal padre (signoria di Gesualdo e altri castelli dell’Irpinia: Frigento, Bonito, Mirabella, San Mango, ecc.) e gli offrì anche la signoria di Paterno (Paternopoli). Guglielmo, forte del rapporto reale e in qualità di unico proprietario, si arrogò il diritto di disporre a suo piacimento non solo dei terreni, ma anche delle chiese e dei mulini. Ambizioso e intraprendente, dimorò insieme a suo figlio Elia stabilmente nel castello di Gesualdo e operò in modo da ricomporre la conflittualità con il partito clericale. Per raggiungere tale scopo donò all’Abbazia di Montevergine, nell’anno 1142, la chiesa di San Quirico con il mulino sul fiume Calore e la chiesa di Santa Croce in Frigento.
Noi Guglielmo figlio del magnifico duca Ruggero di beata memoria, per benevola divina clemenza signore del castello di Gesualdo e della città di Frigento e degli altri castelli e città soggetti al nostro dominio, nonché signore del castello di Paterno per grazia di Dio e per concessione del nostro glorioso ed invitto signore re Ruggero, (…) doniamo a Dio onnipotente ed alla beatissima chiesa della vergine Maria, madre di Dio, di Montevergine, di cui è presente il religiosissimo abate Alberto, la predetta chiesa di San Quirico con tutti gli annessi suoi vigneti e terre ed orti ed attrezzi agricoli e tutte le altre pertinenze della chiesa stessa, ed il predetto mulino con le sue arcate parzialmente idonee e l'edificio integro, con i suoi canali di ingresso e di uscita delle acque e con il permesso di tagliare legname sufficiente a riparare le arcate dello stesso mulino, nonché per la palata dello stesso mulino, che risulta in parte rotta, e per la cui sistemazione ci eravamo impegnati a fornire legname alla stessa chiesa (…)23.


Ruota motrice (ritrècine) del mulino Donatelli, collocata in un locale seminterrato situato sotto quello dove ritrova la macina - Foto F. D’Amato -

Nel 1145 donò la chiesa di S. Pietro, il mulino sul fiume con i canali di immissione e di scarico alla comunità monastica della SS. Trinità di Cava dei Tirreni.
(..) a richiesta e mandato della presente scrittura ed richiesta del predetto onest’uomo fra' Pietro, monaco del monastero della chiesa della Trinità di Cava dell'ordine di San Benedetto, e del priore di San Pietro della grangia di Casale di Paterno ... detta signora (Martuccia de Capua) ... affermò non con la forza, non con l’inganno, non indotta da timore ma per sua libera e spontanea volontà, ... che il signore Guglielmo di Gesualdo ... ed il signore Elia di Gesualdo suo figlio ... concessero e cedettero a detto monastero, che in onore della Santa ed indivisibile Trinità è costruito in località Mitiliano, ... la chiesa che in onore del Beato Apostolo Pietro è costruita nelle pertinenze di detta terra di Paterno, nel detto Casale, con terreni, vigne, oliveti, querceti, pascoli, tenute e con un mulino sul fiume Calore costruito con canali ed arcate di immissione nonché con scarichi delle acque, (...)24.
Elia dopo la morte (1145-1150) di suo padre, Guglielmo, fu confermato dal re signore dei feudi paterni. Egli sottrasse alla comunità monastica della chiesa di S. Maria l’impianto di macina costruito presso il fiume Calore. Poi, a seguito delle molteplici richieste di restituzioni, il signore di Gesualdo, per opportunità politiche e per le pressioni fatte da alcune autorità ecclesiastiche nell’anno 1150, decise di restituire il tolto ai religiosi.
In nome dell'eterno Dio e di Gesù Cristo nostro salvatore. Io signore Elia, signore di Gesualdo per grazia di Dio e del nostro devotissimo signore Ruggero, riconosco di aver preso un mulino della chiesa di Santa Maria di Paterno e di tenere esso in mio possesso; ma ora, preso dall'amore per Dio e per la di Lui beatissima madre Maria, reputiamo giusto qui restituirlo alla predetta chiesa affinché l'abate Giovanni, che è rettore ed amministratore della stessa, ed i suoi successori possano tenerlo senza molestia alcuna da parte nostra, in quanto la stessa chiesa lo possedeva prima che noi glielo togliessimo (...).
Faccio dunque obbligo, a me ed ai miei eredi, che in qualsiasi tempo futuro, o luogo, alla predetta chiesa non sia mossa contestazione né controversia alcuna, ma indisturbata da parte nostra abbia il mulino per tutto il tempo senza nostra pretesa, né dei nostri eredi, né dei nostri baicoli (...)25.
Furono ancora ragioni di opportunità politiche, anche se mascherate da sentimento religioso (“mosso da pietà di Dio”, “per amore di Dio”) che Elia, nel 1158, donò al monastero di S. Maria dell’Incoronata di Puglia la chiesa di S. Damiano, quella di S. Maria e il mulino sul fiume che si trovava vicino alla chiesa di S. Pietro e alla quale esso apparteneva.
In nome dell'eterno signore e nostro salvatore Gesù Cristo. Noi Elia, figlio del signore Guglielmo figlio del magnifico duca Ruggero, per divina benevola clemenza signore di Gesualdo e del castello di Paterno e di altri numerosi castelli e città, rendiamo noto possedere entro i confini e le pertinenze del nostro predetto castello di Paterno alcune chiese, cioè la chiesa della Beata Maria madre di Dio e quella di San Damiano, che sono vicine allo stesso castello predetto, ed un mulino che è presso il fiume Calore nel luogo dove è detto sotto la chiesa di San Pietro. Ora in vero, mosso da pietà di Dio, e siccome è a noi conveniente per la redenzione dell'anima nostra e del genitore e della genitrice e di tutti gli altri nostri parenti vivi e defunti, concediamo a Dio onnipotente ed al monastero di Santa Maria dell'Incoronata che è edificata in territorio Bulfoniano, a cui per provvidenza divina è preposto il religiosissimo abate Donato, le stesse predette chiese con relativo diritto di sbocco e di transito, con terreni, vigneti ed orti, unitamente ai beni mobili ed immobili, naturalmente con tutte le loro pertinenze, e lo stesso mulino predetto, all'infuori di quella parte di territorio del nostro suddetto Paterno che si trova antistante l'ingresso delle case dello stesso mulino, che sono della chiesa di S. Pietro e di S. Maria di Montevergine, in quanto il suddetto mulino già appartenne a quest’ultimo monastero. (…)26.


Vasca di raccolta delle acque del mulino Donatelli. - Foto F. D’Amato -

Questa donazione fu particolarmente apprezzata dalla comunità dell’Incoronata, perché la chiesa di S. Pietro e il mulino le erano già appartenuti e che nel 1124, per un debito non onorato, erano stati asserviti al monastero di Montevergine e l’8 febbraio del 1128 furono assegnati definitivamente a quest’ultimo. Come Elia fosse ritornato in possesso di tali strutture per poi ridarle alla comunità dell’Incoronata, a noi, tutt’oggi, non è noto.
Secondo il Prof. Antonio Salerno i tre mulini, di cui abbiamo cercato di tracciare una storia, usufruivano dello stesso “complesso di raccolta e di convogliamento delle acque costituito da canali, sia interrati che pensili, facenti capo alla diga sul fiume, (…), gli impianti di macina con proprie vasche di deposito e canali di scolo erano tre: rispettivamente di proprietà di Montevergine, della Trinità di Cava e dell’Immacolata di Puglia (…)27.
Le ultime notizie dei tre mulini di Paternopoli le apprendiamo dalla pergamena n. 175 del 1365, nella quale si legge che “la chiesa di S. Pietro, e quindi il monastero dell’Incoronata di Puglia, non possedeva che il rudere di un mulino”28. I ruderi si trovavano vicino al mulino del monastero di S. Guglielmo (mulino di S. Maria). Le suore del Goleto ne erano entrate in possesso dopo un decennio di controversie con il monastero di Montevergine.
(…) un luogo o sito ubicato nel Casale di Paterno, che un tempo fu mulino, vicino al mulino del monastero di San Guglielmo del Goleto (il riferimento è al mulino di proprietà del monastero di Santa Maria, poi detta a Canna), vicino al mulino del monastero di Cava (il riferimento è al mulino di proprietà del monastero di San Pietro), presso il fiume Calore ed altri confini, che dissero (essere fatto) con canali di affluenza e di scarico delle acque, ed è lungo tempo, da cinquanta anni e più, che detto mulino fu distrutto, e lo stesso luogo fu ed è vuoto, diruto, ricolmo e completamente spianato, sicché nulla rimase né appaiono i resti del mulino29.

Gli antichi mulini di Taurasi

L’attuale centro storico di Taurasi è di origine medievale; esso sorse come uno dei tanti castri (punti fortificati) posti a controllo del Calore, il cui alveo rappresentava un punto di transito verso Benevento. Naturalmente, le acque del fiume favorirono anche una fertile agricoltura e una ricca attività molitoria, gestita da “baroni” ed enti ecclesiastici. Tra questi ultimi vanno ricordati: l’Abbazia di Cava dei Tirreni, ma, soprattutto, quella di Montevergine che, proprio a Taurasi, costituì uno dei suoi primi e più consistenti nuclei patrimoniali, organizzato attorno alla chiesa di “S. Maria de Flumeri” (S. Maria del Fiume). La denominazione della chiesa è da ritenersi estranea al paese Flumeri che nel XII secolo era detto Fromarii30.
Il primo documento che fa riferimento alla presenza di mulini in territorio di Taurasi risale all’agosto 1129, in esso si legge che Alamo, figlio di Torgisio, signore di Taurasi, dona uno dei suoi mulini ubicati in località Speneta (perg. n. 179) al monastero di Montevergine il quale ne entra in possesso nel maggio 1130 (perg. n. 185).

179.) = 1129, agosto, Ind. VII.
Giovanni Brancuto, giudice di Taurasi.

Alamo, f. del q. Torgisio, signore di Taurasi, avendo un “medium” di un mulino, in territorio e pertinenze di Taurasi, ubi a la speneta dicitur”, presso i suoi mulini, crede bene di offrirlo “deo in monasterio Sancte et virgini Marie quod constructum est in Monte virginia”, offerta che egli “per baculum quem manum tenebam optuli in eodem monasterio sancte genitricis et virginis Marie de predicto monte virginis in loco ubi aqua palumbi dicitur”, nel quale monastero di M. V. “dominus albertus dei gratia vir religiosus preesse videtur” (Cand. VIII, 41)31.

185.) = 1130. Ind. VIII
Pagano not.
Il monastero di M.V. riceve il possesso di un mulino, che gli spettava, e che era tenuto dal Signor Alamo figlio del Q. Torgisio (XCVI, 10)32.

Nel 1197 a Taurasi in C/da Speneta, lungo il fiume Calore, esistevano quattro impianti di macina (perg. n. 1017); uno di proprietà del monastero di Cava dei Tirreni e tre di Pagano de Paris, conte di Avellino e signore di Taurasi, il quale donò al monastero di M.V. uno dei tre e la metà dei proventi dell’attività molitoria degli altri due.

1017.) =1197, maggio. Ind. XV. - Enrico imper. a. 3 di Sicilia.
Giovanni, chier.e not. di Avellino.
Matteo e Mattia, giudici di Avellino.

Pagano de Paris (“de Parisio”), conte di Avellino, offre e “per librum super altare” consegna al monastero di M. V., alla presenza di Eustasio, ab. di M. V., uno dei tre mulini che egli aveva a Taurasi (“Ad taurasa”), sul fiume Calore, e precisamente quello presso il mulino del monastero di Cava, nel luogo detto Speneta; e inoltre dona la metà della macinatura che si percepiva dagli altri due suoi mulini, che egli aveva nello stesso luogo; infine si obbliga a riparare a sue spese il mulino donato, “exceptis molis et ferramentis”, che debbono essere comprati e riparati a spese del monastero (Cand. VIII, 31)33.


Recipienti in legno per la farina - Foto C. Fanti(34 )-

Il nuovo signore di Taurasi, Enrico, avvalendosi dello “ius patronatus” che gli concedeva la facoltà di disporre a suo piacimento non solo dei beni di sua proprietà, ma anche di quelli appartenenti alle chiese e agli ordini religiosi, tolse al monastero quanto donato dal de Paris. Fra’ Riccardo, in qualità di amministratore dei beni del monastero di M. V. sul territorio di Taurasi, portò la questione davanti ai giudici dell’imperatore Federico II, i quali, dopo aver ascoltato i testi e letti i documenti, non ritennero valide le motivazioni addotte dal signorotto e gli imposero di restituire quanto sottratto. Enrico e sua madre, donna Sarrano, non ritenendosi soddisfatti della decisione della corte, per “salvaguardare” i loro diritti fecero appello all’imperatore (perg. n. 1625).
1625.) = 1228, aprile. Ind. I. - Federico imper. a. 8, Enrico re a. 15.
Guglielmo Lombardo, pubbl, noto .
Unfrido, giudice.

Enrico, signore di Taurasi, e donna Sarrano, sua madre, trattano davanti ai giustizieri imperiali a ciò delegati, una questione contro il monastero di M. V., rappresentato dal monaco Riccardo, sorta a causa di un mulino, sito nelle pertinenze di Taurasi, che Enrico aveva tolto al monastero, “iuris ordine non servato”, e che perciò il monastero chiedeva fosse restituito, Ora, “productis itaque testibus more francorum”, Enrico accusa di falso i testi del monastero e invoca la “pugnam iure francorum”, che però i giudici negano possa aver luogo, trattandosi di monaci. Enrico allora insiste che essa può aver luogo, perché quelle persone in quella circostanza si debbono considerare “non monachos sed ut privatos”. I giudici persistono “pugne locum non esse”, e allora la parte di Enrico e di sua madre appella da quella sentenza all’imperatore (Cand. VIII, 16)35.

Non conosciamo l’esito dell’appello, ma di certo sappiamo che nel maggio 1229, Enrico e suo fratello Pietro restituirono all’ordine religioso il mulino (perg. n. 1647).

1647.) = 1229, maggio. II. - Federico imper. a. 9.
Taurasi.
Roffrido, giudice di Aquaputida e pubbl. not. di Taurasi e di Aquaputida.
Ruggiero, giudice di Taurasi e Rocca San Felice.

Enrico, signore di Taurasi e di Rocca San Felice, insieme con Pietro, suo fratello, e con Emma, sua moglie, dona a Giovanni, ab. di M. V., tutta concessione del tenimento che fu del signor Leonardo, f. di Rodualdo, che era sito nelle pertinenze dello stesso castello di Taurasi, e tutto quello che fu concesso dal signor Ruggiero al monastero, con strumento del luglio 1180. Ind. XIII; come pure dona tutta la concessione del mulino sito nelle pertinenze di Taurasi, sul fiume Calore, “in loco ubi Speneta dicitur”, presso il mulino del monastero di Cava; di più conferma concessione di tutto ciò che donò Pagano de Paris (“de Parisio”), conte di Avellino e signore di Taurasi, come risulta da strumento del maggio 1197. Ind. XV; inoltre conferma la concessione dello stesso mulino e tutto ciò che Rainaldo de Lavareta, conte di Gesualdo (“Gisoaldi”) signore di Taurasi, donò al monastero con strumento dell’aprile 1220. Ind. IX e con strumento dell’agosto 1223. Ind. XI. (Cand. VIII, 19)36.


Un mulino a ruota verticale in una stampa del ‘600(37)

Dietro l’attività molitoria, come più volte emerso dai documenti riportati, gli interessi economici erano consistenti, per cui, finita una controversia, ne iniziava immediatamente un’altra. Fra’ Riccardo nel 1234, forte del documento di donazione del de Paris, chiese ad Enrico di restaurare la palata dei mulini situati in contrada Spenta, seriamente danneggiata dalla piena, e lo invitò, inoltre, a fermare i lavori di costruzione della palata e dei mulini avviati in prossimità degli impianti di macina del monastero, perché le nuove strutture avrebbero arrecato danni funzionali ed economici ai mulini esistenti (perg. n. 1234).
1786.) = 1234, marzo. Ind. Vll. - Federico imper. a. 14.
Barbato, not. di Montefusco.
Giovanni de Speneindeo, giudice di Montefusco.

Riccardo, vestarario del monastero di M. V., “de mandato” di Giovanni, ab. di M. V., prega umilmente Enrico, signore di Taurasi, che restauri “per se et per homines suos”, come è stata consuetudine finora, la palata dei mulini di Taurasi, posta sul fiume Calore “vel speneta”, perché per la rottura di detta palata il monastero riceve grave danno, in quanto i mulini del monastero non possono macinare convenientemente; inoltre, per comando dello stesso abate e della Comunità di M. V., lo prega di desistere dalla costruzione iniziata della palata nuova e del nuovi mulini sotto il predetto ponte nel suddetto fiume Calore, perché in tal caso i sopraddetti mulini del monastero perderebbero ogni loro importanza con grave danno del monastero (Cand. VIII, 11)38.

Le ultime notizie dei mulini virginiani, siti sul territorio di Taurasi, risalgono al 1264 (perg. n. 2131)

2131.) = 1264, gennaio 13. Ind. VII. - Urbano Pp. IV a. 3.
Orvieto (“Apud Urbem veterem”).

Urbano IV, confermando il privilegio di Alessandro IV dell’8 aprile 1261 (riferito) della totale esenzione del Monastero e della Congregazione di M. V. da ogni vescovo e della sua immediata dipendenza dalla Santa Sede, conferma i beni e i possedimenti che hanno o che a giusto titolo potranno avere in futuro; in particolare vengono nominati:
65. - nella diocesi di Nusco: nel territorio del Casale di “Balneoli” (Bagnoli Irpino, pr. Avellino) le chiese di S. Sebastiano e S. Lorenzo con gli uomini, mulini, case, redditi, possessioni;
66. - nel territorio di Taurasi (pr. Avellino) e di Lapio (pr. Avellino), la chiesa di S. Maria, le case, mulini, redditi, possessioni39.


Schema del mulino a ruota orizzontale(40)

La contrada Speneta, oggi è chiamata Isca la Spina, corrisponde a quella vasta pianura che si può osservare guardando verso Sud dalla piazzetta di Porta Minore (‘ncoppa Sant’Angelo); che tale località corrisponda a quella dove erano impiantati i mulini menzionati nelle pergamene è confermato dai nomi delle due contrade della parte collinare con essa confinante: Molimenti e Palata.
Molimenti deriva da “molinaro” (mugnaio) o da “molinare” (girare in tondo le macine) derivanti a loro volta da mulino.
Palata era lo sbarramento per deviare parzialmente o totalmente un corso d’acqua ed era fatta di pali, fascine, sassi, paglia e terra. L’acqua, così deviata, veniva usata per far funzionare mulini o irrigare campi e in tempi più moderni (fino 1800) anche per il funzionamento di piccole centrali idroelettriche.

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37. Le ruote sulle rive dei fiumi - Guida alla storia e alla tecnica degli antichi mulini e delle gualchiere -, Progetto “Museo vivo dell’Alto Ofanto”, Art. 23 L. 67/88, Prog. 12/AV Coop. “Basic 85” Lioni.
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40. Le ruote sulle rive dei fiumi - Guida alla storia e alla tecnica degli antichi mulini e delle gualchiere -, Progetto “Museo vivo dell’Alto Ofanto”, Art. 23 L. 67/88, Prog. 12/AV Coop. “Basic 85” Lioni.