settembre 2001

La globalizzazione torna a riprodurre, e questa volta sopra una scala mondiale, che, come si è accennato, riduce al minimo la possibilità di interventi correttivi da parte dei governi, la condizione ideale per i padroni delle ferriere: la concorrenza fra lavoratori.

A più di metà strada fra la guerriglia antiglobalizzazione di Genova e quelle (forse) prossime venture anti-Fao e anti-Nato di Roma e Napoli, s'impone anzitutto, al di là di ogni altro giudizio di valore, la constatazione di quanto gli avvenimenti genovesi abbiano reso difficile la situazione di chi, essendo contrario al processo di globalizzazione, è costretto o a non esplicitarlo o a giustificarsi con una serie di precisazioni e di prese di distanza per non essere confuso con i vari black blok, tute bianche ed Agnoletti (nel caso di chi scrive pericolo particolarmente incombente e sentito per una spiacevole assonanza di cognomi).

Famiglia Cristiana del 5 agosto ha riportato l'opinione di una ragazza veronese, delusa per l'esito, a suo avviso fallimentare, sia del G8, sia della manifestazione del Genoa Social Forum, alla quale aveva partecipato in spirito "scout" sulla spinta dell'emozione suscitatale dalla foto di un bambino del Burundi più simile, a causa della cronica insufficienza di cibo, ad "un ranocchietto che ad un essere umano".

Doppio l'errore della ben intenzionata, ma ingenua fanciulla: la natura pacifica della manifestazione del Social Forum; un aumento o quanto meno una cristallizzazione, per effetto della politica globalizzatrice, delle condizioni di disperata miseria del bambino del Burundi.

Molti, soprattutto nel mondo cattolico, pensano, in perfetta buona fede, che la globalizzazione dell'economia comporti un aumento di ricchezza per i popoli ricchi e di miseria per quelli poveri.

Salvo che si facciano coincidere i popoli ricchi coi grandi azionisti delle multinazionali (ma questi sono presenti anche nei paesi del Terzo e del Quarto Mondo) è vero l'esatto contrario.

E', difatti, ragionevole prevedere che nel breve e nel medio periodo (le previsioni di più lungo termine sono ardue e quasi sempre sbagliate) la globalizzazione comporterà, non per l'intervento di qualche pietoso benefattore, ma per effetto delle leggi di mercato, un pur modesto aumento del livello di vita dei popoli poveri e, contemporaneamente, un abbassamento, verosimilmente di misura assai più rilevante, di quello dei cosiddetti popoli ricchi, che, del resto, già oggi includono milioni di persone (in aumento) al di sotto della soglia di povertà (anche se è vero che la soglia di povertà dell'Occidente è assai prossima a quella del benessere in un paese del Terzo Mondo).

Conseguenza essenziale (e negativa) della globalizzazione è un generale processo di omologazione, cioè, almeno per quanto riguarda l'aspetto economico, di tendenziale appiattimento verso i livelli più bassi, che tuttavia, proprio per la generalizzata diffusione del fenomeno e il ben noto principio dei vasi comunicanti, presenteranno a loro volta una pur modesta tendenza all'innalzamento.

Il mercato globale comporta per le grandi imprese economiche, ed in particolare per quelle produttive del settore secondario, la possibilità di praticare le loro attività in quel qualunque punto del globo che le renda maggiormente convenienti, abbassando i costi ed alzando i profitti, e, dal momento che oggi il fattore produttivo che presenta le maggiori differenze di costi è quasi sempre il lavoro umano, è inevitabile che nella maggior parte dei casi la collocazione avvenga dove tale costo (retribuzione e accessori) è minore.

Di conseguenza, i lavoratori dei paesi a rischio di una sostanziale riduzione delle attività produttive per effetto di decisioni che non solo passano sulla loro testa, ma possono ignorare, grazie all'acquisita libertà di manovra, anche le politiche dei governi nazionali, non avranno altra scelta, almeno fino all'instaurazione di un governo mondiale (per molti altri aspetti tutt'altro che auspicabile) che accettare, o addirittura sollecitare una riduzione dei loro compensi.

In altri termini, la globalizzazione torna a riprodurre, e questa volta sopra una scala mondiale, che, come si è accennato, riduce al minimo la possibilità di interventi correttivi da parte dei governi, la condizione ideale per i padroni delle ferriere: la concorrenza fra lavoratori.

Di conseguenza, a Genova (casseurs e black block a parte) avrebbero dovuto trovarsi a manifestare in prima fila contro la globalizzazione non già le anime belle preoccupate per i poveri del Terzo e del Quarto Mondo, che comunque ne avranno un pur modesto beneficio (è ben vero che si potrebbero immaginare percorsi alternativi, suscettibili di produrre più consistenti miglioramenti, ma non risulta che Agnoletto -quanto fastidio mi dà questo nome!- e i suoi amici abbiano avanzato proposte in tal senso), ma i "ricchi" ed egoisti lavoratori dell'Occidente a difesa di un loro sempre più dubbio e minacciato benessere.

Comunque la questione di chi avrebbe avuto ragione di manifestare a Genova è del tutto marginale rispetto ai veri problemi posti dalla globalizzazione, e non ultima delle colpe di Agnoletto e dei suoi amici è di avere concentrato l'attenzione su aspetti di secondaria importanza, così aumentando le già enormi difficoltà incontrate da chi vorrebbe opporsi ad un processo che per le forze che lo sospingono, oltre tutto in grado di assicurargli, oltre a quelli spontanei, consensi interessati, ppare ogni giorno di più inarrestabile.

Anche se in concreto la distinzione non è facile per l'inestricabile intreccio tanto delle cause quanto degli effetti e se in sostanza si tratta delle due facce di uno stesso fenomeno, può riuscire concettualmente utile la distinzione proposta da Ida Magli in una intervista alla Padania fra globalizzazione delle merci e globalizzazione dei popoli e delle persone.

Vi è, difatti, una globalizzazione economica e mercantile, che è sospinta da interessi concreti, di affari e di denaro, e la cui marcia può apparire, se non voluta, favorita dalle stesse leggi del mercato (l'unica contro la quale si è protestato a Genova e oltre tutto, come si è detto, per le ragioni sbagliate), e una globalizzazione ideologica, che riprende su scala planetaria e, sostituendo ai governi nazionali il governo mondiale, il vecchio progetto filosofico e politico dell'illuminismo giacobino.

Distinzione che consente anche di valutare come l'unidirezionalità della protesta sia tutt'altro che casuale, perché, se non tutti i partecipanti alla manifestazione genovese, certamente tutti o quasi gli organizzatori, sono in realtà favorevoli (ne fanno fede le loro provenienze culturali e politiche e le posizioni assunte su altri aspetti del fenomeno, come l'immigrazione selvaggia, l'auspicio di una società multietnica, la cancellazione delle tradizioni e delle radici) alla globalizzazione politica, che ha per fine la distruzione dell'identità dei singoli popoli nella massa indifferenziata che i nuovi alchimisti si ripromettono di ottenere attraverso il passaggio del materiale umano in un mondiale melting pot.



Se l'interesse economico è relativamente recente, perché di recente sono maturate le situazioni che assicurano margini di profitto a chi lo realizza, il progetto è invece antico e, vi sia o meno una precorsa intesa fra globalizatori economici e politici (come, a livello di capi, è lecito sospettare), procede sopra entrambi i binari.

La futura indifferenziazione dei popoli, tutti uguali (dell'uguaglianza delle pecore del gregge) di fronte al governo ondialista prossimo venturo, è anticipata dalla indifferenziazione, in gran parte già in atto, del lavoro e dei lavoratori di fronte al Leviatano dell'economia mondiale, rappresentato dalle multinazionali.

Come ha detto in una recente intervista ad Avvenire (28/7/2001) l'economista Geminello Alvi, già oggi il lavoratore, ogni lavoratore, è "sempre più solo e sempre meno rilevante e più sostituibile, quindi sempre meno individuato. Dal commesso dell'ipermercato alla telefonista del call center, sono tutti impegnati in un incubo ad aria condizionata.

Il capitalismo è standardizzazione, annulla le differenze. Ma senza le differenze non c'è movente per cooperare. Si può coordinare in fraternità solo quello che è diverso. Invece quello che è uguale e reso omogeneo può solo sommarsi. E chi lo somma è a sua volta non meno astratto e omogeneo: può essere la multinazionale, che appalta il lavoro ad un'impresa, che poi lo subappalta ad una società di servizi".

Si potrebbe, è vero replicare, che ben misera deve essere la società che abbia come principale o addirittura unica occasione di aggregazione o cooperazione quella del lavoro, al punto da dover rimpiangere, come appunto fa Alvi, "la fabbrica degli anni'50" e la conseguente "solidarietà di schiavi invidiosi", tanto abilmente sfruttata dal marxismo (ma Alvi aggiunge anche che le cose vanno male, perché l'economia ha fagocitato ogni campo della vita, mentre l'economia non dovrebbe avere per fine se stessa).

Robert Conquest nel suo libro Il secolo delle idee assassine (Mondadori, Milano 2001) indica come causa della superiorità democratica dell'Inghilterra (e, per conseguenza, degli Stati Uniti d'America) sui paesi del continente europeo la grande diffusione che vi hanno clubs, associazioni sportive e circoli di ogni genere. Un'opinione nella quale vi è molto di vero, anche se a prima vista può sembrare improbabile che un circolo tennistico o golfistico o uno di quei celebri clubs del mondo anglosassone, nei quali soci superindividualisti si sprofondano in una poltrona per leggere in tranquilla solitudine il loro quotidiano, possano veramente giungere a strutturarsi in comunità dotate di proprie tradizioni e di propria identità, che ne facciano qualcosa di più del pub o, per noi italiani, del bar, dove ci si trova a bere una birra o un caffè e a discutere di calcio.

In realtà ciò che importa è la capacità di una società di differenziarsi e strutturarsi in una serie di associazioni, circoli o, per usare un termine di Alvi riferito però al lavoro artigianale, bande, che ne facciano ualcosa di vivo e vitale. Questa capacità, certamente non esaurita dal mondo del lavoro, che una società sana dovrebbe possedere naturalmente, può anche, in mancanza di meglio, essere stimolata da una organizzazione del lavoro tale da favorirla, perfino se abbia (continuando a itare Alvi), come l'organizzazione aziendale degli anni '50 "l'effetto di inglobare tutti (cioè tutti i lavoratori di un'azienda ndr.) in una "famiglia" protetta dal padrone o dalla pigrizia marxista".

Per converso, l'indifferenziazione economica su scala mondiale, con gli uomini trasformati in omogenee ed intercambiabili unità produttive e di consumo (importante al riguardo un'altra osservazione di Alvi a proposito dell'odierna confusione ed intercambiabilità fra le stesse funzioni di lavoro e di consumo), può rappresentare la spinta decisiva al compimento del processo di realizzazione della globalizzazione politico-ideologica, perché le identità popolari vivono solo nella coscienza dei cittadini e il loro venir meno annulla quelle differenze che anche nella natura fisica costituiscono l'indispensabile presupposto del movimento e, quindi, della vita, la ragione che impedisce la trasformazione di un vivace corso d'acqua scintillante di vita e di energia in una piatta e stagnante palude.

 




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Agnoletto e la realtà della globalizzazione
Francesco Mario Agnoli
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