novembre 2002

La Turchia, come il mondo mussulmano in genere, costituisce da sempre non una componente dell'Europa, della quale non fa parte nemmeno geograficamente, ma l'altro polo di uno storico rapporto dialettico di civiltà, che non deve essere necessariamente di conflitto...

A preoccuparsi per l'ingresso della Turchia non è solo Valéry Giscard d'Estaing. Ci sono anche le categorie produttive, in particolare quelle agricole. Pochi giorni prima della clamorosa intervista rilasciata a Le Monde dal presidente della Convenzione incaricata di preparare il testo della Costituzione europea, il settimanale Terra e Vita, probabilmente la più autorevole voce dell'agricoltura italiana, aveva pubblicato un fondo dal titolo Europa: cosa succede quando entrerà la Turchia? L'articolista, dopo avere ricordato che in Turchia gli occupati agricoli sono nove milioni e i loro prodotti mediterranei assai competitivi, formulava le seguenti conclusioni (per l'esattezza riguardanti anche, sia pure marginalmente, Bulgaria e Romania): Basta così per capire che, per l'agricoltura, è necessario rimandare il più possibile la prossima ondata. Intanto bisognerà avere il tempo per assorbire il "colpo" del primo ingresso. E da subito dovremo lavorare affinché questi Paesi si sviluppino veramente e "assottiglino" il loro settore agricolo. Altrimenti saranno problemi per tutti (i Venticinque), ma soprattutto per noi.

Naturalmente non sono queste le motivazioni, assai più profonde e radicali, dell'ex-premier francese, per il quale, del resto, non è questione di tempi e di sviluppo almeno per quanto riguarda la Turchia (indubbiamente assai diversa, e addirittura opposta - questioni economico-produttive a parte -, la situazione di Romania e Bulgaria), che in Europa, a suo credere, non deve entrare né ora né mai, perché è un paese vicino all'Europa, ma non europeo. Resta il fatto che in entrambi i casi, nonostante la partenza da punti di vista totalmente diversi, assai simili risultano alla fine del percorso le preoccupazioni conseguenti alla richiesta turca di entrare a far parte dell'Ue, resa potenzialmente ammissibile dalla definitiva approvazione del Trattato di Nizza dopo il voto irlandese (la crisi dell'Unione per gli agricoltori, addirittura la sua fine per Giscard d'Estaing).

Perfettamente legittime le preoccupazioni degli agricoltori italiani e altrettanto, e ancor più, quelle del presidente della Convenzione europea, le cui dichiarazioni, proprio per questa sua qualità e per il compito che gli è stato affidato, non possono essere liquidate, come pure si è immediatamente tentato di fare, come emotive o rilasciate a titolo personale. Una volta venute meno le speranze di quanti contavano sul voto irlandese per bloccare un processo di allargamento suscettibile di riservare amare sorprese, è perfettamente comprensibile che l'uomo gravato di un compito tanto essenziale per il futuro dell'Unione si sia chiesto cosa l'Europa sia e voglia essere e abbia colto l'occasione della vittoria nelle elezioni turche di un partito islamico sia pure almeno a parole moderato per porre nei suoi reali termini un problema di cui tutti gli europei dovrebbero essere consapevoli, (ma si è trattato di nulla di più di un'occasione, perché il problema si sarebbe posto negli stessi identici termini anche se la maggioranza degli elettori turchi avesse riconfermato la fiducia ad uno dei tradizionali partiti ancora legati al laicismo massonico di Kemal Ataturk, del resto assai peggiori, se non altro per incapacità, corruzione e stretta dipendenza dall'establishment militare, di quello mussulmano di Recep Erdogan).

Le parole di Giscard sono quelle di chi deve costruire lo scheletro costituzionale dell'Europa e non può e non vuole nascondere una lapalissiana verità come quella che non è possibile discutere della legislazione interna dell'Unione e poi dire che certe trattative saranno estese a Paesi che hanno una cultura diversa, un approccio differente e un altro modo di vivere. Le leggi, difatti, e in maniera tutta particolare quelle fondamentali, per essere valide e accettate non possono piovere dal nulla del vuoto siderale, ma debbono nascere dalle viscere di una società, dalla sua cultura, dal suo passato, dal suo modo di essere. Questo è il problema che si pone non solo agli aspiranti legislatori, ma a tutti gli europei e in particolare agli italiani, connotati sì da un diffuso europeismo (pare che da questo punto di vista siamo al primo posto fra i popoli europei), ma che presenta evidenti caratteristiche di superficialità e di generico sentimentalismo, forse anche perché nessuno si è mai preoccupato di consultarci con la richiesta di un voto, che ci avrebbe comunque costretto a riflettere (l'affermazione del presidente Ciampi che in Italia non vi era .- e non vi è - necessità di un referendum, reso superfluo dall'entusiastica accettazione della nuova moneta europea, è soltanto una mediocre battuta per di più doppiamente sbagliata, dal momento che non vi è stata possibilità di scelta a favore della vecchia lira e più passano i giorni e più le proteste delle associazioni dei consumatori rivelano uno bassissimo livello di gradimento popolare per l'euro).

Le domande essenziali, alle quali tutti, a cominciare da Giscard d'Estaing, al quale va riconosciuto il merito di non essersi, a differenza di tanti, sottratto dietro il facile paravento di una politically correctness globalizzatrice e falsamente egualitaria, siamo chiamati a rispondere sono cosa è stata e cos'è l'Europa e cosa vogliamo divenga in futuro. A meno che l'Europa che s'intende costruire sia un UFO, un oggetto da distillare dai tecnologici alambicchi degli apprendisti stregoni di Bruxelles, che fino ad oggi l'hanno confusa con l'uniformità del diametro delle arance e delle misure dei preservativi, la risposta va necessariamente ricercata nella storia. Una storia che ci dimostra che la Turchia, come, del resto, il mondo mussulmano in genere, costituisce da sempre non una componente dell'Europa, della quale non fa parte nemmeno geograficamente, ma l'altro polo di uno storico rapporto dialettico di civiltà, che non deve essere necessariamente di conflitto, ma può anche presentarsi, come in effetti storicamente più volte, e persino più spesso, è avvenuto, di pacifico confronto e di collaborazione, con reciproci vantaggi (culturali e commerciali), ma sempre fra due soggetti diversi e irriducibili ad unità .

Se qualcosa meraviglia non sono certo le dichiarazioni di Valéry Giscard d'Estaing e nemmeno le ragionevoli preoccupazioni degli agricoltori italiani, ma i singolari silenzi di quei cattolici, che, dopo essere ripetutamente (e giustamente) insorti contro gli eccessi di laicismo europeo a difesa delle radici cristiane dell'Europa, sembrano non rendersi conto che la partecipazione della Turchia escluderebbe, di necessità e in via di principio, qualsivoglia richiamo a tali radici; di quei pretesi ultrademocratici che fingono di non essersi accorti come subito dopo le recenti elezioni in Turchia il generale comandante in capo dell'esercito turco si sia precipitato a Washington per chiedere se doveva accettare quel risultato o, come già altre volte è accaduto, ribaltarlo con la forza,. e come, ad ogni buon conto, abbia avvisato il vincitore Recep Tayyip Erdogan di comportarsi bene se vuole evitare l'intervento dell'esercito.

Anche quanti, pur non interessandosi né della storia del nostro continente né delle sue radici cristiane, quanto meno non vogliono per l'Europa e i suoi membri (oltre tutto la Turchia sarebbe il più esteso territorialmente) queste singolari democrazie militarmente protette faranno bene ad unirsi a quanti ritengono necessario avere ben presente l'ammonimento di Giscard d'Estaing: chi propone l'allargamento in questa direzione è avversario della Ue.




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Europa turca?
Francesco Mario Agnoli
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