Francesco Mario Agnoli
Il Processo e la Condanna di Napoleone a Venezia
dicembre 2003

Si è trattato indubbiamente di una simulazione o, se si preferisce, di una fiction giuridica, ma non di un gioco...

Il 22 novembre, a Venezia, la Corte Veneta al Criminal, ha accolto in parte le richieste dell’organo dell’accusa, l’Avogaria de Comun, e, pur senza procedere ad irrogazione di pena per l’impossibilità che un defunto sia attinto da sanzioni penali, ha affermato la responsabilità dell’imputato Napoleone Bonaparte, chiamato a rispondere di una serie di reati (ben 28 ne comprendeva l’atto di accusa) commessi nel 1797 e, successivamente, negli anni dal 1806 al 1814 ai danni della Repubblica di San Marco, del suo popolo, delle sue istituzioni, di singoli cittadini veneti.

Si è trattato ovviamente di uno di quei processi definiti storici dalla stampa, che fanno parte della nostra più recente tradizione culturale e utilizzano le forme giuridico-processuali, perché ritenute particolarmente idonee a coniugare l’interesse della stampa non specialistica e del pubblico, sempre affascinato dalle aule e dalle procedure giudiziarie, con un autentico lavoro di riscoperta, approfondimento e rivalutazione anche con l’impiego di strumenti che non sempre appartengono al bagaglio professionale degli storici.

Il processo è stato voluto e organizzato dalla benemerita, anche per il coraggio di coniugare due termini, “storia” e “giustizia”, che non sempre vanno (e non si vuole che vadano) uniti, associazione veneziana Amici della storia e della giustizia, che per celebrarlo nelle forme solenni richieste dal rilievo anche pubblico dell’avvenimento ha portato a nuova vita due organi giudiziari dell’antica Repubblica: l’ Avogaria de Comun (corrispondente come funzioni all’incirca all’attuale Procura della Repubblica), rappresentata dagli avvocati Giuseppe Frigo, bresciano e, quindi, “suddito” lombardo di San Marco, e dal veneziano Lorenzo Fogliata e, per il giudizio, la Corte Veneta al Criminal. Alla difesa, su incarico della Associazione Napoleonica d’Italia, gli avvocati Vito Quaranta e Christian Serpelloni del foro di Verona. Presenti anche tre avvocati di parte civile in rappresentanza delle popolazioni dei territori di Verona e Vicenza e della Dalmazia.

Si è trattato indubbiamente di una simulazione o, se si preferisce, di una fiction giuridica, ma non di un gioco, come provano, oltre ai nomi e ruoli professionali dei protagonisti ed i luoghi concessi per lo svolgimento, la sala della Provincia a Cà Corner per le udienze istruttorie, l’antichissima sala del Piovego all’interno del Palazzo Ducale per la discussione finale e la decisione, le quattro intense udienze istruttorie tenutesi nel corso della primavera e della prima estate, che hanno visto sfilare davanti alla Corte numerosi, qualificatissimi testimoni (storici, esperti d’arte, scrittori, antiquari, collezionisti, rappresentanti di associazioni) indotti dall’Accusa, pubblica e privata, e dalla Difesa. Sia durante l’audizione dei testi, sia nel dibattimento finale gli avogadori de Comun e i difensori dell’imputato e delle parti civili hanno svolto le loro funzioni con un impegno e, non di rado, con un accanimento e qualche appassionato e appassionante battibecco da dare al pubblico l’impressione che veramente fossero presenti in aula, ad ascoltarli e a valutarne le capacità e la dedizione all’incarico ricevuto, tanto il Bonaparte quanto le sue vittime A sua volta, la Corte ha precisato nella sommaria motivazione, stesa e letta unitamente al dispositivo, dopo tre ore di camera di consiglio, di fondare la propria giurisdizione sull’accettazione delle parti e che a questa restavano estranei sia i fatti compiuti al di fuori del territorio della Repubblica, sia quelli successivi al momento nel quale Napoleone assunse il ruolo di imperatore dei francesi, divenendo così il legale rappresentante della Francia.

Come si è detto, la sentenza proclama la responsabilità dell’imputato in ordine alla maggior parte dei fatti contestatigli, che sono stati però riuniti sotto quattro grandi voci: 1) violazione del diritto internazionale per avere compiuto nei confronti della Repubblica Veneta, il cui stato di dichiarata neutralità era stato riconosciuto da tutte le Nazioni, in prima linea quella francese, che aveva anzi espresso nei confronti di Venezia una particolare sintonia e simpatia per la comune forma repubblicana, atti di guerra fino alla totale occupazione del suo territorio senza preventiva dichiarazione dello stato di belligeranza; 2) responsabilità diretta e indiretta per avere, nella sua qualità di Comandante in Capo dell’ Armée d’Italie, ora tanto esplicitamente quanto implicitamente ordinato ora tollerato saccheggi e devastazioni non necessari per il mantenimento delle truppe (in primo piano la sottrazione di opere d’arte, in parte inviate in Francia, in parte fatte proprie da ufficiali e soldati, in parte distrutte, fra queste il glorioso Bucintoro, volutamente demolito, in parte disperse); 3) ancora responsabilità tanto diretta quanto indiretta per l’uccisione di civili inermi a seguito di rappresaglie indiscriminate e di processi illegittimi anche secondo le leggi francesi; 4) cessione all’Austria dei territori di uno Stato sovrano (rimasto tale pur dopo la trasformazione della Repubblica, voluta dallo stesso Bonaparte, da “aristocratica” in “democratica”), smentendo così i manifestati propositi di liberazione e democratizzazione dei popoli soggetti ai vecchi regimi.

A parte l’informazione sul fatto storico, in quanto accadimento, di un processo concluso da questa affermazione di responsabilità, del resto attesa ed inevitabile per chiunque sappia leggere la storia senza i paraocchi ideologici dell’artefatto mito napoleonico, da sempre in bilico fra giacobinismo e cesarismo, merita forse di essere svolta qualche considerazione sulle norme giuridiche che ne hanno costituito il fondamento. Se si era, difatti, fin dall’inizio concordemente deciso di trascurare pur possibili richiami alle violazioni di diritti umani, che pure stanno a fondamento dell’attività di alcuni recenti organismi internazionali, e di fondare le imputazioni, invece che sulle norme vigenti all’epoca, sulle disposizioni dell’attuale codice penale italiano (sulla base di queste, difatti, è stato steso dalla Avogaria de Comun l’atto di accusa), il collegio giudicante, nel condividere tale scelta, ha motivato la propria adesione col rilievo che tutti gli addebiti mossi all’imputato concernono fatti avvertiti come criminosi, pur se con disposizioni diversamente formulate e variamente sanzionate, da tutti i popoli civili in ogni tempo e in ogni luogo e comunque, senza possibilità di dubbio, tanto nell’Europa di oggi quanto in quella dei secoli XVIII, XIX, che, fra l’altro, hanno visto la nascita anche del diritto internazionale modernamente inteso.

Una precisazione questa che merita di essere sottolineata, perché, pur escludendo giudizi morali, che nella nostra attuale civiltà occidentale non appartengono alla competenza degli organi giudiziari, vale tuttavia a precisare i limiti, non di rado assai ristretti, entro i quali può essere accettato il sostanziale relativismo di chi ritiene improprio ed infondato qualunque giudizio su fatti di secoli passati, accampando la necessità, che poi viene tradotta quasi in impossibilità, di tenere conto del quadro storico e dello spirito dell’epoca. Si vuol dire che Napoleone, se fosse stato giudicato per quanto da lui compiuto nei territori della Serenissima (ci si limita a questo, in quanto solo questo era l’oggetto del processo) da un tribunale dell’epoca (come noto, non fu sottoposto a giudizi e la relegazione a Sant’Elena fu meramente politica), avrebbe riportato condanna a pene senza dubbio diverse da quelle che oggi gli verrebbero inflitte, ma certamente, ed è ciò che rileva, sarebbe stato anche allora “giuridicamente” (quindi non solo moralmente) condannato.

IL discorso potrebbe essere allargato e approfondito se si passasse ad esaminare i rapporti e le interferenze fra giudizio giuridico e giudizio morale e, ancor più, a chiedersi se un altro tipo di giudizio, quello storico, possa e debba prescindere dai primi due. Tuttavia lo scopo del presente scritto è assai più modesto: dare notizia dell’evento “processo a Napoleone e suo esito”, cioè della sentenza di una Corte, che dà espressamente atto della propria incompetenza ad emettere giudizi storici e morali.




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