dicembre 1999

Le rievocazioni del bicentenario hanno posto principalmente l'accento sugli avvenimenti del cosiddetto triennio giacobino (1796-1799), nel corso del quale la Rivoluzione sviluppò il massimo sforzo per distruggere il cattolicesimo e insieme i costumi e le tradizioni che ne costituivano l'espressione nel vivere quotidiano dei popoli, i quali, perfettamente consapevoli del disegno, altrettanto decisamente vi si opposero.

Confido che il termine, ormai prossimo, dell'anno 1999 non significhi anche la fine della riscoperta e dello studio di quel grandioso fenomeno popolare e religioso che fu l'Insorgenza.

Le rievocazioni del bicentenario hanno, ed era corretto anche per il richiamo temporale, posto principalmente l'accento sugli avvenimenti del cosiddetto triennio giacobino (1796-1799), nel corso del quale la Rivoluzione sviluppò il massimo sforzo, in forme apertamente violente, dissacranti ed omicide, per distruggere il cattolicesimo e insieme i costumi e le tradizioni che ne costituivano l'espressione nel vivere quotidiano dei popoli, i quali, perfettamente consapevoli del disegno, altrettanto decisamente vi si opposero.

Tuttavia, come la Rivoluzione (del resto tutt'ora attiva) continuò ad operare, sia pure in forme diverse, più morbide ed ipocrite, ma appunto per questo anche più pericolose, durante il Consolato ed il Regno Napoleonico, cosi l'Insorgenza non finì nel 1799, ma si protrasse fino al 1814-15, conoscendo anche, soprattutto nel biennio 1809-10, fiammate di poco inferiori, pur se territorialmente più circoscritte, a quelle della fase iniziale.

Se, come si spera, non verranno meno, nonostante boicottaggi interessati e persistente carenza di mezzi, interesse e buona volontà, non mancheranno, quindi, le occasioni per proseguire un discorso certamente non ultimato e ricerche suscettibili di dare ancora ottimi frutti.

Tuttavia, al termine di un decennio di iniziative (non va dimenticato che il recupero dell'Insorgenza nasce dal lavoro preparatorio di pochi (o pochissimi) precursori, iniziato in prossimità del fatidico 1989 in contrapposizione alle fastose cerimonie volute e finanziate dalla quasi totalità dei governi europei per la celebrazione del bicentenario della rivoluzione), la scadenza di questo primo fondamentale triennio (fondamentale allora, fondamentale, nella sua riproposizione, oggi) offre l'opportunità di una pur sommaria valutazione di quanto è stato fatto e, in particolare, dei risultati conseguiti.

Certamente non è possibile in questa sede analizzare il complesso lavoro compiuto ed elencare le diverse iniziative, molte di portata nazionale, moltissime, e di non minore interesse (basti pensare alle rievocazioni di episodi della riconquista della Santa Fede, delle Pasque veronesi, dell'incendio di Binasco e del sacco di Lugo, ecc.), a livello locale, col rischio inevitabile di dimenticarne più d'una, magari fra quelle di maggiore importanza, tanto più che numerosi, e non sempre collegati fra loro, sono stati le associazioni, i comitati ed i centri propulsori.

Vale però la pena di specificare come questa mancanza di coordinazione, che, per quanto mi riguarda, avevo inizialmente guardato con timore, giudicandolo fenomeno totalmente negativo (nell'intento di attenuarne la negatività ho fin dal principio cercato di rispondere positivamente e senza esclusioni, nei limiti consentiti dalle forze e dagli impegni di lavoro, a tutte le richieste di collaborazione), ha finito col rivelarsi, anche per il suo evolvere in corso d'opera verso un pluralismo innestato sulla base di un giudizio di fondo sostanzialmente comune, una ricchezza, che, attraverso il confronto e una giusta emulazione, ha consentito di moltiplicare le forze e, quindi, di raggiungere risultati probabilmente maggiori di quelli conseguibili da una organizzazione unitaria e centralizzata, nella quale può facilmente verificarsi il fenomeno della delega ai più volenterosi o ai più esperti e preparati.

Con tutto questo non vi è spazio per trionfalismi, oltre al resto più dannosi che inutili di fronte al moltissimo che resta ancora da fare dal momento che il falso mito rivoluzionario, diffuso dalla storiografia ufficiale e soprattutto dai programmi ministeriali per la scuola di Stato, e tutt'ora largamente dominante nella nostra società. Non mancano comunque i segnali che qualcosa è cambiato e sta cambiando e la migliore dimostrazione della validità e dell'importanza del lavoro finora svolto la offrono proprio le varie fasi delle reazioni suscitate in campo avverso.

Dopo un primo, lungo momento di assoluta e ostentata indifferenza nella certezza che il cosiddetto "revisionismo" non sarebbe riuscito, almeno in questo settore, a modificare una pseudo-verità storica collaudata e consolidata da oltre un secolo e mezzo di menzognere ricostruzioni propagandistiche, riproposte come indiscutibili dati di fatto da generazioni di "maestrine dalla penna rossa", da autorevoli professori prima barbuti poi capelluti e da autori di libri di testo per le scuole, si è passati ai rabbiosi tentativi di imporre il silenzio, come è accaduto in forma clamorosa in occasione di un convegno bolognese, reso di risonanza nazionale dall'intervento attivo del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, sul tema I popoli contro l'utopia, che riprendeva il tema di una mostra iconografica organizzata con grande successo nel 1996 nell'ambito del Meeting per l'amicizia fra i popoli (e che ha poi girato in molte regioni italiane), con la discesa in campo di campioni di primo piano della cultura laica nazionale del calibro di un Galasso e di un Flores d'Arcais, che hanno bollato come inutili e dannose queste operazioni di recupero (il secondo, dando prova di impavido coraggio davanti al ridicolo, le ha addirittura definite fasciste).



Falliti anche questi tentativi di intimidazione politico-culturale, gli epigoni del mito rivoluzionario sono stati costretti a riconoscere l'impossibilità di proseguire nella secolare congiura del silenzio (comunque tutt'ora in atto nei testi scolastici), che aveva sepolto nell'oblio il fenomeno, politicamente non corretto, dell'Insorgenza popolare e, quindi, ad accettare di fatto la discussione della ricostruzione storica, sia pure senza rinunciare ad un atteggiamento di accademica ed altezzosa superiorità nei confronti degli incolti revisionisti (da questi pulpiti non si esita, difatti, a distribuire diplomi e condanne e a parlare, come fa Anna Maria Rao nel volumetto di cui subito si dirà, di "una produzione priva di interesse sul piano scientifico e affetta da un soffocante municipalismo").

Non per nulla nella primavera del 1998, approssimandosi il bicentenario del 1799, l'"anno terribile" delle cronache dell'epoca, ma anche l'anno centrale dello scontro armato fra Rivoluzione e Antirivoluzione e dalla vittoria, purtroppo momentanea, di quest'ultima, Studi storici, rivista trimestrale dell'Istituto Gramsci, ha pubblicato un numero monografico dedicato alle Insorgenze popolari nell'ltalia rivoluzionaria e napoleonica. In questo volume sono stati, difatti, raccolti gli scritti dei più qualificati esperti della storiografia marxista, erede e continuatrice di quella liberal- laicista del XIX secolo e del primo quarto del XX, col fine, da un lato di sostenere, attraverso l ' incastro di citazioni privilegiate di rari lavori specialistici in realtà confinati in ristrettissimi ambiti accademici e di altre omesse o errate, che mai si fosse tentato di condannare alla damnatio memoriae eventi in radicale contrapposizione con la vulgata rivoluzionaria, dall'altro di escludere (scopo questo principalissimo) le motivazioni autenticamente religiose dei moti (in realtà sempre determinanti) e di riproporre, con qualche inevitabile adeguamento, l'iniziale versione giacobino-risorgimentale (elaborata quando la vicinanza temporale degli avvenimenti rendeva non ancora percorribile la più sicura strada dell'oblio) dell'immaginario, vasto consenso popolare alla Rivoluzione, riducendo l'opposizione ad isolati episodi di "brigantaggio" ad opera di plebi ignoranti strumentalizzate dal clero fanatico e dagli aristocratici spogliati dei loro privilegi.

Questo risultato, comunque apprezzabile perché, al di là del persistere di voluti equivoci e di interpretazioni ora riduttive ora palesemente tirate per i capelli, comporta, se non altro, una obbiettiva narrazione dei fatti e del riconoscimento dell'importanza, per numero e decisione, della partecipazione popolare (dopo le ricerche e le pubblicazioni dei "revisionisti", nonostante la pretesa assenza "di interesse sul piano scientifico", altre strade, molto battute in passato, non risultavano più praticabili) e, quindi, la definitiva rottura di un silenzio omertoso, è stato reso possibile da quello che è senza dubbio il frutto più prezioso della riscoperta dell'Insorgenza e di riproposizione delle motivazioni, delle istanze, delle convinzioni, che animarono fino all'eroismo e al sacrificio della vita i suoi protagonisti, nei cui confronti dovremmo sentirci tutti, avversari inclusi, tenuti quanto meno al debito della memoria. Si tratta dell'impegno e dell'entusiasmo di quanti (assai più numerosi di ogni aspettativa), una volta scoperta questa pagina cancellata della nostra storia (mi si consenta di credere che qualche parte vi abbia avuto, almeno all'inizio, il mio romanzo-saggio Gli Insorgenti, il cui merito, se ne ha, consiste tutto nell'averla riportata alla luce in termini suscettibili di interessare anche al comune lettore, non in possesso di un particolare bagaglio di studi storici su questo tormentato periodo), non solo ne hanno compreso l'importanza anche attuale, ma hanno avvertito l'esigenza di proseguire l'opera appena iniziata e si sono impegnati a fondo nel compito di aiutare gli Italiani a ritrovare questa pagina volutamente cancellata del loro passato, questa componente essenziale della loro storia di popolo, capace di illuminare di verità molte vicende dei successivi due secoli, incluse quelle che stiamo vivendo da protagonisti (che tale è anche, suo malgrado, chi si crede o vorrebbe essere soltanto spettatore).

Ecco allora, di conseguenza, il fiorire delle iniziative prima sommariamente ricordate: studi di notevolissimo valore (qualunque cosa ne pensino la Rao e soci), condotti con ricerche negli archivi e lo spoglio di documenti dimenticati e trascurati, che hanno consentito interessanti scoperte e recuperi; pubblicazione di libri e riviste, che danno atto dei risultati raggiunti, commentano, propongono interpretazioni; promozione e costituzione di associazioni, comitati e centri di studio; organizzazione di convegni, incontri, dibattiti, mostre iconografiche; coniazione di medaglie commemorative; installazione (a volte anche con l'intervento e il contributo delle istituzioni locali, ed è segnale importante dei mutamenti in corso) di lapidi a ricordo di episodi particolarmente rilevanti dell'Insorgenza, e di veri e propri monumenti come quello già in opera a Spadarolo di Rimini in memoria dei caduti romagnoli, e gli altri, in stato di avanzata realizzazione, a Verona per i protagonisti delle "Pasque" e a Civitella del Tronto per il Soldato delle Due Sicilie (quest'ultimo per l'esattezza con maggiore riferimento agli episodi del 1860); addirittura vivacissime manifestazioni di piazza come quella di contestazione dell'opera musicale Eleonora del musicista versipelle Roberto De Simone, messa in scena a Napoli per il godimento dell'establishment politico-governativo in occasione del bicentenario di quella repubblica giacobina dall'amministrazione municipale di Napoli.

Tuttavia, e per concludere, più importante di ogni altra considerazione, la sensazione, senza dubbio difficile da comprovare con dati di fatto e tuttavia assai viva, che la riscoperta di quello che è stato il più grande e spontaneo fenomeno di popolo della nostra storia almeno da duecento anni in qua, abbia comportato anche una migliore acquisizione e comprensione delle nostre radici cristiane, conservateci da quei nostri avi ostinati a difenderle dalla sovversione rivoluzionaria fino al sacrificio della vita e nonostante la certezza di momentanee ma dolorose sconfitte, non solo in termini di astratta conoscenza storico - culturale, ma quale componente attuale e decisiva del nostro vivere quotidiano, del nostro modo di essere uomini (una "opzione viva", come la definirebbe il filosofo William James), con la conseguente, urgente necessità di operare, con mezzi e forme adeguati ai tempi e ai nuovi strumenti di attacco (subdoli e, quindi, assai più pericolosi per la maggiore difficoltà di intuirne sia il "modus operandi" sia, e soprattutto, la maligna natura), ma comunque con non minore determinazione dei nostri predecessori, contro i tentativi tutt'ora in atto di spogliarcene per lasciarci soli, inermi e nudi davanti all'onnipotenza dello Stato centralista e giacobino, tanto più pericoloso nella sua vagheggiata evoluzione mondialista, che aspira alla distruzione delle diversità per realizzare nella nascosta violenza di un apparente "buonismo" privo d'anima l'unità indifferenziata delle pecore del gregge già tentata con quella manifesta dei gulag e dei lager.




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Triennio rievocativo 1996 - 1999: bilancio al termine
francesco Mario Agnoli
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