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In realtà, a parte qualche accenno ai saccheggi del presunto liberatore d’Italia, ma vero devastatore di Monti di Pietà e gran ladro di denaro, ori, argenti e, soprattutto, opere d’arte, e al ricordo dei giudizi negativi espressi dal “Grande Corso” sul conto degli italiani, sparsi qua e là per giustificare in qualche modo il titolo, il libro è sostanzialmente una continua esaltazione di Napoleone e delle sue vittorie e conquiste.... E’ recentemente uscito in libreria, edito dalla Mondadori, che lo ha collocato nella prestigiosa (un tempo?) collana “Le scie” un libro di Antonio Spinosa allettante tanto nel titolo, “Napoleone il flagello d’Italia” quanto nella conferma del sottotitolo, “Le invasioni, i saccheggi, gli inganni”, fatti apposta per far pensare di trovarsi finalmente davanti, se non ad una novità assoluta, perché la revisione in negativo della figura del Bonaparte e la presa di coscienza dei danni da lui arrecati all’Italia sono da tempo in corso e pervenute ad uno stato di avanzato consolidamento, almeno (e sarebbe stata la prima volta) allla decisione di un grande editore, il massimo del nostro paese, di rinunciare alle viete oleografie dell’immaginario Napoleone liberatore d’Italia per dare spazio alla ben più cruda realtà dei fatti. Una persuasione convalidata dal nome dell’autore, quell’ Antonio Spinosa vincitore di vari premi letterari, certamente non storico, ma buon divulgatore. Ed invece il lettore che è stato spinto all’acquisto sulla base di queste premesse non solo resta immediatamente deluso, ma non può evitare di chiedersi le ragione di questa ingannevole operazione. In realtà, a parte qualche accenno ai saccheggi del presunto liberatore d’Italia, ma vero devastatore di Monti di Pietà e gran ladro di denaro, ori, argenti e, soprattutto, opere d’arte, e al ricordo dei giudizi negativi espressi dal “Grande Corso” sul conto degli italiani, sparsi qua e là per giustificare in qualche modo il titolo, il libro è sostanzialmente una continua esaltazione di Napoleone e delle sue vittorie e conquiste, a cominciare dalla copertina, che, riproducendo il famoso quadro di David che lo raffigura a cavallo e manto rosso svolazzante al passaggio delle Alpi, avrebbe forse dovuto mettere in guardia il troppo ingenuo acquirente. Non solo il corso e i suoi generali, dall’eroico Championnet all’ancor più eroico anche se “imbecille” Murat (tale almeno lo riteneva, senza nasconderlo, il suo imperiale cognato), vengono descritti con abbondanza di elogi per le loro virtù militari e d’altro genere e con compiaciuta simpatia, ma soprattutto e contro ogni verità storica i suoi avversari, in prima fila gli italiani che, anche per opporsi ai saccheggi spietati di cui furono vittime, contro di lui presero le armi, e le loro imprese sono ridotti alle proporzioni lilipuzziane di quasi inavvertibili incidenti di percorso lungo la marcia trionfale del conquistatore, quando non vengono addirittura demonizzati in misura che oggi perfino i più fanatici aderenti alle varie associazioni napoleoniche riterrebbero eccessivi. Il popolo romano che fa giustizia dell’agitatore giacobino Jean-Hugou de Bassville è definito “plebaglia, sobillata dalla polizia” e pazienza visto che in quel momento il Bonaparte è ancora un pressoché sconosciuto ufficialetto, e diviene addirittura “marmaglia popolare” quando negli ultimi giorni del 1797 (quindi già in era bonapartista) in una sommossa antifrancese perde la vita il generale Duphot, un ufficiale al seguito di Giuseppe Bonaparte, in quel momento, più che ambasciatore, proconsole del fratello presso il pontefice. Il generale italo-austriaco Colli, che, alla testa di truppe austro-piemontesi, tenta di contrastare l’avanzata francese in Piemonte viene descritto come un “gottoso, ridicolmente trascinato a braccia lungo le alture della Liguria”, e passi anche questa, visto che l’anziano generale non era un fulmine di guerra tanto che, anni dopo, delle sue imprese guerresche nella Marche si prenderà gioco anche Giacomo Leopardi. Ciò che invece non può passare sono altre cose. Ad esempio, la pressoché totale cancellazione della resistenza opposta dalle popolazioni del Veneto e della Lombardia Veneta all’occupazione francese. Il lettore viene puntualmente e ripetutamente informato delle lodi rivolte al Bonaparte dal suo ammiratore Stendhal, di un presunto accorrere del popolo attorno al grande generale dopo la vittoria riportata ad Arcole, “baciandogli le mani e l’uniforme per aver deciso ad Arcole le sorti dell’’Italia”. In compenso non una parola sulle trame dei servizi segreti del Bonaparte incaricati di “fabbricare” un incidente per attaccare, a dispetto della sua dichiarata e internazionalmente riconosciuta neutralità e della contraria opinione del Direttorio parigino, la repubblica di Venezia e utilizzarla, unitamente agli illusi giacobini della nuova municipalità democratica, come materiale di scambio con l’Austria per ottenerne il riconoscimento della conquista della Lombardia. Nemmeno è sembrata meritevole di una sola parola in tutta questa vicenda, che pure colpì l’intera Europa pèer la scomparsa dalla scena della sua più antica repubblica, sulla disperata resistenza popolare, passata alla storia col nome di “Pasque veronesi”, che coinvolse la città e il contado di Verona, Salò e la riviera gardesana e le valli bresciane e bergamasche a meno che lo Spinosa non vi faccia riferimento col sintetico e sibillino (e se è così anche mpreciso) accenno ad uno “scontro di Verona in cui Bonaparte ebbe la peggio, anche a causa di un a rivolta di contadini contro le sue truppe”. Omissioni e veri e propri errori storici a parte (così, a titolo d’esempio, il lettore apprende che, in occasione della conquista francese del Regno di Napoli, il più forte castello della città, Sant’Elmo, “era stato conquistato da un forte gruppo di patrioti”, ma non che la conquista avvenne per tradimento e che i patrioti tirarono coi cannoni sui lazzari, che tentavano d’impedire l’ingresso in città delle truppe francesi), assai peggio va ai napoletani “liberati” dal gagliardo, giovane, coraggioso, per quanto altero ed infine eroico generale Championnet, cui viene attribuito il merito di aver fondato la Repubblica napoletana. Le simpatie dello Spinosa sono tutte per il generale bonapartista e per la ideologicizzata, velleitaria e sanguinaria repubblichetta giacobina, che, a suo dire, avrebbe aperto “la più fulgente pagina della storia della città”, anche se – almeno questo deve riconoscerlo – “il popolo, non avvedendosene, reagiva con asprezza”. L’ Armata della Santa Fede, che, sostenuta dall’unanime consenso popolare, pone fine al breve dominio dei quisling filofrancesi, viene così descritta: “quelle truppe raccogliticce erano composte di briganti e comprendevano Michele Pezza, il feroce e baffuto Fra Diavolo, il quale benché leggendario, non poté non finire sulla forca in piazza del Mercato. Meglio per lui sarebbe stato se avesse continuato a fare il suo antico mestiere di fabbricante di calze. Quanto al cardinale Fabrizio Ruffo ispiratore e condottiero della Santa Fede, definito “tanto superbo nello spirito quanto tarchiato nel corpo”, lo Spinosa trascura tutte le successive acquisizioni storiche circa i suoi tentativi di salvare la vita ai giacobini caduti prigionieri, frustrati dalla determinazione punitiva dell’ammiraglio inglese Orazio Nelson,. Di conseguenza si tiene fermo ai giudizi della Fonseca Pimentel, che amava definirlo sulle pagine del suo Monitore napoletano “il cardinale mostro”, e anzi lo passa ad una categoria superiore, scrivendo che il “diabolico cardinale… poteva attendersi il destino che si meritava, pagando la crudeltà col salire a sua volta sulla forca. Invece morì pacificamente ottantreenne immerso negli studi”. Se il cardinale Ruffo è diabolico per avere compiuto l’opera di liberazione della patria dall’invasore straniero e non essere riuscito a impedire l’impiccagione di novantanove giacobini, Napoleone, sulle cui spalle gravano tre milioni di morti (la cifra è fornita dallo stesso Spinosa, che corregge così Chateaubriand, il quale soltanto di morti francesi gliene addebita più di cinque milioni), resta per il nostro divulgatore un grande, degno di ammirazione e simpatia. Niente di nuovo sotto il sole. E’ questa la tesi ripetuta fino alla noia da decine e forse centinaia o migliaia di opere dedicate al Grande Corso nei successivi due secoli, ma appunto per questo non si avvertiva la minima necessità di un nuovo libro, che, sia pure con qualche lieve accentuazione di aspetti negativi, non offre affatto, come invece si legge nella quarta di copertina sotto l’immagine fotografica dell’autore, il ritratto inedito di un Napoleone sorprendentemente feroce e antitaliano, ma ripropone la solita, stucchevole olografia, nella quale non mancano neppure il trito e ritrito appellativo di piccolo caporale, il triste e cupo scoglio di Sant’Elena e la cattiveria di sir Hudson Lowe, il malvagio carceriere inglese
Si
può
supporre
che
il
titolo
mistificatorio
e
le
non
mantenute
promesse
di
un
ritratto
inedito
abbiano
esclusivamente
finalità
commerciali
e
in
tal
caso,
ferma
la
deplorazione
per
l’inganno
(per
l’acquirente
comunque
18
euro
mal
spesi),
si
potrebbe
perfino
scoprire
un
aspetto
positivo
dell’operazione
nell’implicito
riconoscimento
che
il
mito
napoleonico
non
tira
più
e
che
per
vendere
occorre
quanto
meno
fingere
di
cambiare
registro.
Inevitabile
tuttavia
il
sospetto
della
presenza,
accanto
a
quello,
indubitabile,
della
vendita
di
un
maggior
numero
di
copie,
di
uno
scopo
politico-culturale.
Per
una
serie
di
passaggi
e
collegamenti
che
si
possono
criticare
per
la
loro
inconsistenza,
ma
che
conservano
tutta
le
realtà
e
l’importanza
dei
fatti
consolidati,
Napoleone
e
la
Rivoluzione
francese
costituiscono
nell’immaginario
collettivo
un
unicum,
nel
quale
la
Rivoluzione
rappresenta
l’Idea
e
Napoleone,
che
pure
distrusse
la
Repubblica
e
si
mise
sotto
i
piedi
gli
Immortali
Principi,
lo
strumento
privilegiato
per
la
sua
diffusione
ed
esaltazione.
Questo
unicum
è
tuttora,
come
direbbe
il
filosofo
James,
un’opzione
viva,
conservando,
quanto
meno
in
Francia
e
in
Italia,
una
forte
valenza
non
solo
culturale,
ma
anche
politica,
solo
da
ultimo
messa
in
crisi
dal
progressivo
appannarsi
del
mito
napoleonico.
Il
libro
dello
Spinosa
e
la
sua
pubblicazione
sono
forse
finalizzati
ad
una
sperata
inversione
di
tendenza,
attirando
lettori
che,
già
a
mezzo
persuasi
dalla
deprecata
storiografia
revisionista
che
il
Bonaparte
sia
stato
non
il
liberatore,
ma
il
flagello
d’Italia,
giunti
all’ultima
pagina
possono
essere
indotti
alla
riabilitazione
dell’
Empereur
nel
ruolo
di
liberatore
d’Italia
constatando
come
il
suo
mito
venga
in
realtà
accettato
perfino
da
chi
si
era
accinto
all’opera
col
proposito
di
cancellarlo.
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