stanno ridefinendo gli equilibri del mondo e fondando un Nuovo Ordine mondiale sulla nuova, solida base dell'egemonia politica, tecnologica, finanziaria e militare degli Stati Uniti, che si fanno garanti di esso e della nuova pace.

11 settembre del 2001 ha sconvolto non solo gli Stati Uniti d'America, bensì l'Occidente e il mondo. Una data nodale. Un simbolo, come tutte le date nodali? Come il 12 ottobre del 1492, quando Cristoforo Colombo approdò sul primo lembo di terra del Nuovo Mondo? Come il 20 settembre del 1792, la giornata di Valmy dalla quale - secondo una celebre frase di Wolfgang Goethe «comincia la nuova storia»? Come il 28 giugno del 1914, H giorno delle revolverate dì Sarajevo? Come il 6 agosto del 1945, la livida alba atomica su Hiroshima? Come il 9 novembre del 1989, giorno dell'apertura delle frontiere tra le «due Germanie» e dell'inizio della demolizione del Muro di Berlino? Conosciamo tutti il valore convenzionale, spesso soprattutto simbolico, di queste e di altre Grandi Date. Sappiamo bene che quella della pars Occidentis dell'impero romano, nel 476, fu «una caduta senza rumore», come ebbe a definirla - e la definizione è quasi passata in proverbio Arnaldo Momigliano. E noto che in quella giornata d'ottobre del 1492 nessuna folla si riversò sulle piazze delle città d'Europa, festante perché era finito l'oscuro Medioevo e si annunziava il luminoso Rinascimento.

Certo è che le «giornate storiche», le date simbolo e le date-cerniera, si scelgono ordinariamente a posteriori, secondo gli aspetti del remoto o del recente passato che si vogliono privilegiare e pertanto, in ultima analisi, secondo il mutar di giudizio ad essi relativo. Ebbene: seguendo questo tipo di ragionamento, l’11 settembre è una sconvolgente eccezione. Una dies signanda lapillo (scegliete voi il colore della pietruzza) da cui è cominciata una nuova storia, ed è stato subito chiarito, fin dal primo istante, che quella sarebbe stata una data indimenticabile ed epocale: che da allora, come si ripete più e più volte, nulla sarebbe più stato come prima. Va da sé che chi vive un periodo storico ne riceve abitualmente una percezione destinata a mutare nei posteri. É tuttavia raro, forse non è mai accaduto, che un momento particolare sia stato avvertito come l’istante della svolta con la stessa perentorietà con la quale ciò è accaduto a noi, in quel giorno di settembre, il ricordo del quale ci accompagnerà per sempre, lungo tutta la nostra vita.Una giornata davvero particolare. In cui una presidenza repubblicana quella di George W.Bush jr. - , avviata nel segno (tradizionale per la politica conservatrice statunitense) d'una sorta di nuovo moderato isolazionismo di segno opposto alla vocazione democratica ch'è tradizionalmente più aperta alla politica estera, si è trasformata, sotto l'impulso dell'indignazione popolare e del bisogno perfettamente espresso di garantire la sicurezza americana nel mondo, nella più rigorosa fautrice di una redifinizione della sua politica estera.

L’attentato al World Trade Center (Wtc) e la «dichiarazione di guerra» del terrorismo internazionale alla superpotenza mondiale, e al tempo stesso a tutta la civiltà occidentale che essa in qualche modo rappresenta e compendia, avrebbero indotto il governo Bush a riassumere con impegno totalizzante il ruolo di «gendarme del mondo»: e addirittura a mantenerlo unilateralmente, anche senza (o in qualche modo contro) il parere dell'Onu e della «vecchia Europa»; contro la quale ultima si sono dirette le polemiche di Donald Rumsfeld e le critiche storico-sociologiche di Robert Kagan. La giovane America ama la pace, ma è disposta a difenderla, e con essa a difendere la libertà e a tutelare i suoi diritti, anche con le armi; la vecchia Europa ha invece abdicato all'uso delle armi, mettendo con ciò in gioco il suo stesso ruolo nella storia.Dopo la campagna militare in Afghanistan e la «guerra preventiva» in Iraq, tuttavia, nell'opinione pubblica occidentale in genere, europea in particolare, è andata facendosi strada la convinzione che la coscienza della svolta dell'11 settembre 2001 si fondi anche su precisi presupposti strategici di natura geopolitica: tanto coerenti e radicati da apparire come una sorta di «neoideologia».

Molti osservatori, cioè hanno fatto notare come la politica di Bush all'indomani dell'attentato sembri ricalcare le linee del progetto di un gruppo neoconservative statunitense, già riunito negli anni Novanta attorno al think tank chiamato Pnac: (Project for the New American Century) e appoggiato, fra gli altri, dall'attuale vicepresidente federale Dick Cheney: un progetto che parte dal principio che la caduta del Muro di Berlino e la fine del sistema diarchico delle due superpotenze che egemonizzavano il mondo secondo il dettato dei patti di Yalta, debbano comportare l'abbandono del sistema «dell'equilibrio» sostenuto dalla «scuola geopolitica neorealista» di Kissinger e i Brzezinski. Da qui la considerazione che la stessa Onu, pensata appunto per legittimare in qualche modo l'equilibrio diarchicamente egemonizzato, non sia più adatta alle condizioni e alla situazione del mondo presente; e che i diritti e gli interessi statunitensi non possano più venire sottomessi e posposti, neppure sul piano formale, alle norme internazionali scaturite da un equilibrio ch'è ormai stato superato dalla storia. Ne è conseguita la tesi, sostenuta da molti osservatori (“filoamericani” non meno che “antiamericani”) che ci si trovi dinanzi a un momento “rivoluzionario”, in cui l'attuale dirigenza statunitense e i suoi «teorici» - i consiglieri di Bush tra i quali spiccano Rumsfeld, Perle, Rice, Wolfowitz, Kagan e altri - stanno ridefinendo gli equilibri del mondo e fondando un Nuovo Ordine mondiale sulla nuova, solida base dell'egemonia politica, tecnologica, finanziaria e militare degli Stati Uniti, che si fanno garanti di esso e della nuova pace. Si è con ciò molto al di là delle idee restrittivamente sostenute da chi vorrebbe che gli episodi afghano e irakeno fossero motivati solo dalla necessità statunitense di mantenere il controllo delle risorse petrolifere nell'ampio scacchiere euroasiatico.

La «rivoluzione neoconservatrice» di Bush e della sua équipe non fa che aggiornare la politica statunitense alle rinnovate esigenze nel quadro di un principio che non muta: la libertà e gli interessi degli States debbono essere difesi comunque, nonostante tutto e se occorre contro tutti. Ma se le cose stanno in qualche misura e in qualche modo così, bisogna dedurne che l'idea diffusa, secondo la quale stiamo assistendo in tutto il mondo allo sfaldarsi del principio di sovranità nazionale e all'indebolirsi o al fallire degli stessi progetti di sovranità nazionale (Onu, Ue, Csi, eccetera), a vantaggio dell'egemonia della sola superpotenza vittoriosa del duello 1945-1989, è a sua volta errata. Quel che in realtà va scomparendo, eroso anche «dal di dentro», è il principio della pubblicità e della controllabilità della politica: quindi della condivisione, comunque atteggiata e ripartita, del potere decisionale, che non sta più nelle mani non diciamo dei popoli e delle nazioni, ma neppure dei governi.

 




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Franco Cardini
A differenza di altri grandi fatti del passato l’11 settembre 2001 è stato subito riconosciuto come data epocale. Ma quali sono le conseguenze?
Avvenire domenica 9 novembre 2003 - Agorà
 
 
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