Franco Cardini
La chimera dell'equo processo
 
17 dicembre 2003

i dittatori si usano finchè servono (ben lo sanno le genti dell’America Latina); quando non servono più ci si ricorda che la Grande Democrazia è la nemica giurata dei Tiranni e si gettano come limoni spremuti; quindi si aspetta che l’opinione pubblica lo dimentichi e che intanto la natura faccia il suo corso.

I paragoni, nella storia, non servono a nulla. Anzi, sono svianti: solo chi preferisce la propaganda alla verità li ritiene utili.
Ma, siccome piacciono tanto alla gente, facciamone anche noi uno, il solito. Quello, aberrante, di chi dimentica che la guerra irakena è stata ben lungi dal potersi paragonare a quella mondiale del ’39-’45 e che fra l’Iraq di oggi e il ruolo della Germania del Novecento c’è un abisso profondo.
Solo, distrutto nella mente e nello spirito, ormai del tutto avulso dalla realtà, Adolf Hitler rimase fino all’ultimo istante padrone del suo destino.
Nessuno potè esporlo come un macabro trofeo o metterlo in gabbia come una bestia feroce. Nessuno potè fotografarlo sporco e imbambolato, mentre un dentista gli guardava in bocca. Nella sua fine c’è pure una tragica, demonica grandezza.
Saddam non s’è suicidato perché in fondo è un pover’uomo: ma non basta. Anche i poveri uomini talvolta si suicidano. Forse non poteva: era in realtà magari già prigioniero da settimane, dei curdi o dei suoi ‘fedelissimi’ che ormai pensavano a salvare la pelle o a intascare la ricca taglia. Ma, c’è da chiedersi, perché non l’hanno ammazzato fingendo un qualche incidente, perché non l’hanno ‘suicidato’?. In fondo, vivo e in grado di parlare, è pur sempre un pericolo. Ne sa di cose imbarazzanti, anche per i vincitori. Ne potrebbe dire di verità scomode; specie a proposito del lungo periodo in cui è stato al servizio degli americani e dei pur odiati sauditi: e per loro conto ha sterminato i comunisti irakeni e ha aggrdito l’Iran, mentre in cambio i suoi alleati gli consentivano di gasare i curdi e di sterminare gli sciiti del sud.
Ma il governo Bush non si preoccupa di queste cose: sa bene che tutto il mondo le conosce già e che del resto – a parte tutte le balle democratiche e umanitarie sulla verità e sul diritto, quelle che si raccontano per imbambolare le sciocche opinioni pubbliche – resta ben vero quel che diceva Nietzsche: una buona guerra vinta santifica qualunque causa. Del resto, le autodifese dei vinti trascinati in tribunale non sono mai servite a nulla. Quella di Hermann Goering a Norimberga fu splendida, sconvolgente, stringente: ma i giudici non stettero neppure a sentirla.
Perché quindi fare un processo a Saddam, col rischio che dica cose imbarazzanti? Qualcuno dubita che ci si arriverà: ci vorranno magari mesi, e di mezzo ci sono infiniti imprevisti. Chissà, una ‘malattia improvvisa’, un caffè alla Sindona…
Ma è pur sempre legittimo pensare che, se avessero voluto farlo fuori, lo avrebbero fatto subito. Perché dunque a Bush l’ex rais serve vivo, anche se ciò costituisce un rischio?
Per tre ragioni. Che risiedono rispettivamente nella situazione interna statunitense, in quella irakena e nella politica internazionale.
In America, sventolare il trofeo Saddam è essenziale per mantenere un consenso che negli ultimi mesi era andato calando: e siamo a un anno dalle elezioni presidenziali. Più ancora, a tale scopo, gli servirebbe Bin Laden: anche se su quel personaggio, la sua famiglia e i rapporti con la famiglia Bush le ombre permangono dense. Ma se davvero la crescita economica si assesterà in USA, nell’anno prossimo, sul 4%, la popolarità del presidente sarà assicurata. Solo qualche ostinato malevolo osserverà che tale crescita è il risultato dell’economia di guerra e di quell’immensa macchina di produzione e di speculazione ch’è la cosiddetta ‘ricostruzione’ dell’Iraq, colossale business garantito da ipoteche blindate sui proventi petroliferi di quel paese.

In Iraq, un Saddam catturato, umiliato, obbligato a mettere a nudo i suoi crimini e le sue ruberie, contribuirà fortemente a ridurre se non proprio a eliminare una resistenza che certo non era lui a gestire e a guidare, o almeno non del tutto, ma che il mito della sua imprendibilità senza dubbio sosteneva. Anche se la ‘guerra simmetrica’ andrà avanti, a causa della protervia del terrorismo islamico e della durezza degli occupanti: l’operazione iron hammer, che gli americani stanno conducendo, è fatta di villaggi spianati o circondati di filo spinato, di familiari dei sospetti guerriglieri imprigionati, di rappresaglie d’ogni genere, d’innocenti uccisi. Noi europei ne parliamo poco ed abbiamo la memoria corta. Ma il ‘New York Times’ del 7 Dicembre scorso ne faceva un quadro tremendo, che pesa sulle coscienze degli americani.
A livello internazionale, il rischio che Saddam in sede di processo dica cose imbarazzanti preoccupa sì un po’ gli americani: ma, soprattutto, i francesi, i russi e i cinesi, che fin dalla guerra del marzo scorso ci hanno fatto affari e non gradiscono che se ne parli. È probabile che Bush stia negoziando il silenzio di Saddam sull’argomento a fronte d’una rinunzia ai forti crediti che Francia, Russia e Cina vantano nei confronti dell’Iraq e la restituzione dei quali comprometterebbe la ‘ricostruzione’, cioè gli affari degli statunitensi e dei loro alleati fedeli, tra i quali ci siamo anche noi, e che adesso sono in fila alla cassa.
Ma chi ha il dirittto di processare Saddam? Gli irakeni, che però a questo punto dovrebbero metter su la colossale macchina d’un processo a tutto un regime che ha in vario modo coinvolto gran parte di loro. E, dal momento che la dittatura di Saddam fu non solo quella d’un uomo, d’una famiglia e d’un partito sul resto della popolazione irakena, bensì quella degli arabi sunniti del centro contro i curdi del nord e gli arabi sciiti del sud. Per equo che fosse, un processo a Saddam in mano agli irakeni finirebbe con il riaprire la vecchia, profonda, inguaribile ferita: che cioè un ‘popolo irakeno’ non esiste, che ci sono almeno tre Iraq e che è molto difficile tenerli democraticamente insieme.
Il punto è però che tenere l’Iraq unito è appunto quel che gli americani sono ben decisi a fare, pena il veder compromessa tutta l’azione neocolonialista nel paese che da anni i neoconservatori progettavano, ch’è costata il rischio dell’aggressione unilaterale (anche se è servita a spaccare l’Europa) e della quale ora ci si appresta a cogliere i frutti con la ‘ricostruzione’. Essi non potranno dunque permettere agli irakeni di gestire troppo da soli il processo al dittatore, ma dovranno ‘star loro vicini’ con appositi ‘consiglieri giuridici’. Il che rischierà di far crescere l’animosità nei loro confronti: che è già molto forte e che non ha nulla a che fare con le nostalgie saddamiste. Il nostro rappresentante presso l’autorità ‘governativa’ irakena, Marco Calamai, ha denunciato con forza, dimettendosi, la quantità e la gravità dagli errori commessi dalle autorità occupanti.
L’alternativa sarebbe sottrarre Saddam ad un tribunale irakeno: il che offenderebbe e umilierebbe molto gli irakeni, creando un’ulteriore ragione di scontentezza nei confronti degli Stati Uniti. I quali poi, da parte loro, non possono certo vedersi scappar di mano la preda e permettere che sia, per esempio, una corte dell’ONU a giudicare il dittatore. Il processo, certo, sarebbe più giusto e più equo. Ma gli americani non possono correre il rischio di vederlo trasformato in un processo contro la loro politica estera, dal ’79 a ora. A maggior ragione tale ordine di problemi rende impraticabile la Corte Internazionale dell’Aja, che forse non ha le prerogative e le competenze adatte e che comunque gli USA non riconoscono in quanto loro unilaterale principio è che nessuno statunitense può venir giudicato da un tribunale straniero.
Come si esce da quest’ impasse, giuridicamente semirrisolvibile a livello internazionale, e la soluzione della quale contraddice per troppi versi gli interessi della Realpolitik statunitense, che pretende di agire nel nome della giustizia ma non vuol arretrare di un millimetro in materia di vantaggi conseguiti con il diritto della forza; e che se ne infischia della forza del dirittto?
Forse la soluzione è semplice. Più di quanto non si creda. Moltiplicare le difficoltà, agitare lo spettro-Saddam per intimidire gli avversari internazionali dalla coscienza a loro volta non troppo pulita, far nel frattempo viaggiare il dittatore da una ‘località segreta’ all’altra. Insomma, adottare – come del resto finora si è fatto – il ‘modello Noriega’. La ricetta del quale è la seguente: i dittatori si usano finchè servono (ben lo sanno le genti dell’America Latina); quando non servono più ci si ricorda che la Grande Democrazia è la nemica giurata dei Tiranni e si gettano come limoni spremuti; quindi si aspetta che l’opinione pubblica lo dimentichi e che intanto la natura faccia il suo corso. In tutto questo, naturalmente, Verità, Giustizia e Democrazia non c’entrano nulla. Ma il Potere sì. Quello si mantiene con la Forza, alla faccia di tutte la chiacchiere umanitarie.

 




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