Franco Cardini
Europa, Unita' e Diversita'
 
giugno 2003

La consapevolezza storica come elemento della costruzione d'un'autocoscienza identitaria nell'unità politica europea che non senza difficoltà e contraddizioni andiamo in questo secolo costruendo è indispensabile alla vita civica stessa della futura Unione.

Siamo, cari amici, in mezzo al guado. Parto proprio a voi, a voi tutti che in un modo o nell'altro - anche quando non siete poi tanto convinti di potervi definire tout court "di destra" e siete ormai, d'altro canto, stufi (e avete il sacrosanto diritto di esserlo) dei ricorrente tormentone su che cos'è la destra, che cos'è la sinistra eccetera - vi riconoscete, con tutti i distinguo e le articolazioni dei caso, in una destra che non è quella economica e individualista ma che si è convenuto di definire "dei valori" (anche se poi i valori, quelli, restano a loro volta da definire).

Siamo in mezzo al guado, perché è inutile nascondersi dietro il dito. Gli ultimi avvenimenti, forse anche interni (alludo ad alcune questioni di politica sociale e ad altre, legate più propriamente a questioni Ai costumi ma soprattutto internazionali, hanno spaccato il nostro paese in un modo Trasversale più complesso di quanto ci si potesse aspettare: ma, in particolare, hanno infierito sull'ambiente al quale noi ci riferiamo non il dispiegarsi di una fisiologia che non è purtroppo eccessivo definire schizofrenica. Anche sul piano della concezione relativa all'Europa, è grande il rischio di approfondire il fossato tra "euroatlantici" ed "eurocontinentali": come è il caso di definire i due principali schieramenti affiorati - distinti poi in un numero indefinito di sottoschieramenti - , se non si vuoi correre il rischio di ricorrere alle usurate e volgari categorie dei filoamericanismo e dell'antiamericanismo, che del resto sono a loro volta degli escamotages, A questo punto, bisogna affrontare il nodo tematico che a quest'impasse ci ha condotto e giungere a un risolutivo chiarimento.
C'è del resto del buono, quando si è in mezzo al guado. Intanto, qualunque cosa si faccia (tranne l'abbandonarsi alla corrente), ogni passo, in qualunque direzione sia diretto, ci avvicina a una riva: quindi, comunque, alla terraferma. E poi, ci si rende conto che bisogna decidersi. E, spesso, e la storia - nel suo irrazionale e imprevedibile corso - a fornirci delle soluzioni.
Il peggior momento della crisi, per chi come me e come molti di voi ha creduto e continua a credere nella costruzione di una patria europea, è stato fra l'estate dei 2002 e il marzo dei 2003: quando, di fronte al deciso incalzare della politica unilateralista statunitense, la solidarietà europea non ha retto Ha cominciato Blair, nell'estate scorsa, a dichiarare il suo allineamento pregiudiziale alla politica USA, qualunque fossero le scelte dell'ONU e (per quel che qui ci riguarda, soprattutto) dei partners europei. Hanno proseguito alla vigilia dello scoppio della guerra in Iraq Francia e Germania, disegnando unilateralmente un loro asse fondato (legittimamente e correttamente, a mio personale avviso) sulla difesa della legalità internazionale garantita dalle scelte dell'ONU: ma compiendo esse stesse un passo unilaterale, non precedentemente concordato con il resto della comunità europea. Una scelta che può aver avuta una sua ragione tattica (il dubbio non infondato che all'interno dell'Unione Europea il loro passo, qualora se ne fosse cercata una condivisione, sarebbe stato ostacolato o vanificato), e che d'altronde era ispirata, soprattutto da parte francese, da precisi interessi nazionali in Iraq Sta di fatto che britannici prima, francesi e tedeschi poi, hanno recato un grave danno alla coesione e alla credibilità dell'Unione Europea.
Quel che invece bisogna discutere è se e fino a che punto questa lacerazione sia non solo riparabile; ma se e davvero stata in tutto e per tutto un male. Gli esiti della guerra in Iraq, prima la crisi militare di metà marzo che ha obbligato gli Alti Comandi USA a cambiare strategia sconfessando le tesi di Rumsfeld sulla "guerra leggera" e poi l'apparentemente facile vittoria militare, che ha lasciato però il posto a un dopoguerra non meno difficile di come molti si attendevano, hanno raffreddato gli entusiasmi di molti che, negli Stati Uniti, si erano davvero lasciati convincere dall'unilateralismo dei "falchi" new conservatives. E, in Europa e fuori di essa, si e tornati - anche se non tutti sono disposti ad ammetterlo - a riflettere sul fatto che di un'Europa forte e unita c'è bisogno. Ne hanno bisogno gli europei; ma anche gli altri insomma, ci stanno ripensando in tanti. Ci sta ripensando anche Samuel P. Huntington, professore ad Harvard e autore dei bestseller The clash of civilizations (in italiano ch'è a lungo sembrato la Bibbia del gruppo dirigente statunitense e dei suoi sostenitori in tutto il mondo dopo l'11 settembre dei 200. Per un lungo momento, è parso che gli attuali governanti USA avessero cambiato cavallo, e puntassero ormai su un altro libro- guida, quello di Robert Kagan, edito in italiano coi titolo Paradiso e potere (Mondadori). Il libro che celebra io spirito di marte della giovane America contro lo spirito di Venere della vecchia Europa, che ha rinunziato alte armi e pensa che pace, libertà, sicurezza e benessere si difendano solo con le chiacchiere e con gli organismi sopranazionali privi di forza, di potere e di credibilità.



Il professor Huntington, ospite di Firenze il 7 maggio, vi ha di nuovo esposto le sue tesi: ma con qualche significativa sfumatura, con alcuni non trascurabili ritocchi, Stando a quel che ha detto in tale occasione, si ricava l'impressione che da quando usci il suo fortunato libro, nel 1997, a oggi, egli abbia avuto tempo di ricredersi su molte cose. E il "giro di boa" deve averlo fatto tra 2002 e 2003, quando si è reso conto che la politica unilateralista di Bush e compagnia stava rischiando di portar gli Stati Uniti a incagliarsi sulle spiagge di un isolamento mondiale non so quanto 'splendido".
Lo scontro di civiltà è un grande libro sbagliato, che qua e là ha l'aria di un remaking di un altro libro, altrettanto sbagliato ma ben più grande: li tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler. In effetti, sono Hobbes e Toynbee i punti di riferimento espliciti di Huntington: che forse stima impudente richiamare Spengler. Partendo da una salutare reazione al saggio di Francis Fukuyama (più sbagliato ancora), che preconizzava "l'uscita dalla storia" grazie al liberai- liberismo occidentale, il migliore dei sistemi possibile, Huntington costruisce un'ingegnosa ma alquanto astratta e macchinosa mappa geoculturale del mondo distinta in "civiltà" come l'occidentale (cioè euroamericana), la musulmana, la confuciana cinese eccetera civiltà concepite come blocchi coerenti e compatti al loro interno e, almeno potenzialmente (ma non solo. .) l'una contro l'altra armate.
Tra i pregi almeno apparenti dei monumentale lavoro di Huntington, che nel suo disegnare possibili futuri scenari di guerra sembra talvolta rasentare la fantastoria futuribile, c'è che egli non ritiene affatto "unico" e vincente il modello culturale dell'Occidente Ciò ha fornito a molti - credo in maiafede - i'alibi per poter affermare ch'egli è tutt'altro che un paladino dei `pensiero unico" e dellegemonia statunitense sul mondo, bensì solo un analista che, assumendosi con coraggio il ruolo della Cassandra, si rende conto della compresenza delle differenti civiltà, le ritiene incompatibili tra loro e prevede i conflitti futuri.

Invece, il professor Huntington non è mai stato cosi innocente. Diversi anni or sono era paladino dei paesi comunisti dei Terzo mondo, in quanto convinto che la loro presenza potesse avvantaggiare gli USA nel braccio di ferro contro l'URSS, Dopo l'11 settembre, stimo positivo il fatto che lo chock determinato dagli allentati in tutto il mondo "occidentale" avesse portato gli europei a definirsi lutti americani": cioè li avesse definitivamente - come allora sembrava - allineati sugli USA. la sua era in apparenza una semplice teoria, in realtà, tendeva obiettivamente a fornire agli Stati Uniti come potenza- guida dell'Occidente un forte argomento storico- sociologico per legittimare la loro egemonia.

li punto è che le sue tesi erano profondamente collegati con le tesi "neorealistiche" di Kissinger e di Brzezinsi e con la tesi geopolitica detta "dell'arco di crisi": ma se ne distaccavano per un diverso punto di vista sul fondamentalismo islamico, che Brzezinski aveva giudicato un ottimo alleato degli USA nella destabilizzazione dell'impero sovietico, mentre Huntington, alla luce di quanto era accaduto dalla guerra dei golfo dei 1990 in poi, lo considerava un pericolo per l'Occidente.

L'avventurismo delle tesi unilateraliste dei gruppo di Bush e della "guerra preventiva" ha reso ancor più fervida l'immaginazione (catastrofica ma non gratuita) di Huntington, che ormai giunge a prevedere un probabile scontro militare tra USA e Cina. In cambio, però, lo ha fatto per fortuna ricredere sul ruolo- guida degli USA, A fianco della superpotenza, vi sono nel mondo forze destinate a crescere: Unione Europea, Russia, Cina, Iran, Brasile; la globalizzazione, andando di pari passo con l'americanizzazione culturale, rischia di produrre contraccolpi neonazionalisti pericolosi. Da qui la necessità, per la dirigenza americana, di rivedere la sua convinzione d'incarnare sempre e comunque il Bene e di poter da sola - con il suo vantaggio tecnologico e militare - dominare il mondo. Da qui l'idea che gli USA da soli non ce la faranno: e che hanno bisogno dell'Europa, e che non possono pensare ad essa solo come a una semipotenza subordinata, Sono posizioni analoghe a quelle espresse da altri autorevoli osservatori statunitensi non proprio entusiasti della politica di Bush: da Kissinger a Schiesinger a Clarck a Nye, Insomma, dinanzi all'omologazione che le multinazionali vorrebbero per estender sul mondo il loro potere anonimo e incontrollabile (e al governo Bush che ha l'aria di esserne il "comitato d'affari"), non esistono tanto blocchi coerenti e impermeabili di "civiltà", bensì le realtà storiche e concrete dei popoli, delle nazioni, delle fedi religiose. Bisogna fare i conti con queste forze spogliandosi dei pregiudizio egemonico. Se riusciremo a farlo, non è detto che non si possa anche salvare la pace.

Proprio questo rimette in gioco l'Europa un'Europa della quale anche gli Stati Uniti sentono di aver di nuovo bisogno. E un'Europa debole, incerta, divisa, non costituisce un problema né politico, né economico, né tecnologico, né tanto meno militare: ma non serve a nulla e a nessuno.

Il che ci riconduce, d'altro canto, a un problema di fondo rispetto al quale possiamo anche sentirci stanchi, ma che - per quanto lo si sia dibattuto fino all'esaurimento - resta ancora vago nelle risposte che si è riusciti a fornire. Che cos'é, storicamente parando, l'Europa? Un continente, un'idea forza, un'espressione geoculturale? Il suo nome è antico: sembra presentarsi per la prima volta nel VI secolo a.C., nella Teogonia di Esiodo, dove Europa e Asia sono due divine sorelle, le oceanine figlie di Oceano e di Teti I greci dell'età classica - si pensi ai Persianidi Eschilo - hanno guardato ad Europa e ad Asia come a due eterne avversarie, rispettivamente sinonime di un Occidente e di un Oriente dei mondo: e un glottologo geniale, Giovanni Semerano, ha dimostrato forse definitivamente che i loro due rispettivi nomi derivano entrambi da altrettante radici accadiche indicanti appunto il tramonto e l'alba. Il che riproporrebbe un tema centrale nella riflessione relativa al mondo moderno e contemporaneo, quello dell'identità tra Europa e Occidente: ma tale identità, ancora indiscutibile per gli europei contemporanei di Hegel e di Speri lo è ancora di più per noialtri gente dei XXI secolo, all'indomani dei "secolo americano" che ha palesato come il concetto di Occidente sia stato progressivamente catturato ed egemonizzato dal mondo che sta ad ovest dell'Atlantico, e che l'Occidente postmoderno nel senso politico- culturale - dei quale l'Europa sembrerebbe situarsi ai margini, pur mantenendo nei suoi confronti una sorta di diritto di maternità - sia da vedersi più propriamente tra America, Australia e Giappone?

Erodoto aveva chiaro il concetto d'Europa: non solo il luogo" a occidente dell'Egeo contrapposto all'Asia come 1uogo" a oriente ma anche e soprattutto - e la cultura ellenica, poi ereditata da quella romana specie di segno aristocratico- repubblicano- senatoriale, aveva in pieno accettato questa formula - il luogo della vita a misura d'uomo, della libertà, dell'equilibrio, della razionalità, della giustizia, della ragione, contrapposto all'Asia luogo delle vaste distese e degli spaventosi deserti, dell'ari della tirannide, della magia. E' il concetto sostenuto poi da Errist Juenger, laddove per Cari Schmitt la tensione Oriente- Occidente si traduce nei termini della contesa tra la massa continentale eurasiatica e il dominio "occidentale" dell'insieme costituito dalla terra e dagli oceani. Da questo punto di vista le posizioni sostenute nella Roma repubblicana dal partito sillano e quindi pompeiano e riprese poi nella sostanza da Augusto, le posizioni dell'aristocrazia fondiaria e conservatrice, appaiono singolarmente precorritrici d'un Europa dalle scelte nettamente "occidentali" e liberistiche - mutatis mutandis, beninteso...- , mentre le posizioni dei circolo degli Scipioni, dei Gracchi, di Mario, di Catilina e di Cesare, riprese e rivendicate quindi dal suo autentico erede politico, Marco Antonio, e quindi dalla linea degli imperatori avversi al senato accoglie non casualmente appieno l'eredità dei messaggio d'incontro eurasiatico- mediterraneo di Alessandro Magno, la medesima eredità sulla quale potrà impiantarsi il trionfo dei cristianesimo.

La genesi dell'Europa, quindi, uscita dalla sintesi romano- cristiana (e mi sembra pleonastico parlare di una tradizione ebraico- cristiana, dal momento che l'ebraismo e presupposto intrinseco al cristianesimo) e dall'apporto delle culture progressivamente entrate in contatto con la pars 0~ dell'impero tra IV e XIII secolo, e storia di un werden, di un farsi, di un divenire. Storia di un continente che sembra aver fissato "da sempre", cioè fino dai geografi greci, i suoi confini settentrionali e orientali (quelli meridionali, sul Mediterraneo, erano ben chiari) al tenebroso mare concretum a settentrione, all'àlgido Tanai e al brumoso Ponto Eusino a est: ma che solo lentamente e gradualmente, in tredici secoli di storia dopo il Cristo e in dieci dopo la ripartizione teodosiana dell'impero, ha concretamente raggiunto quei confini,



Il farsi dell'Europa è stato progressivo e faticoso, tutt'altro che armonico e omogeneo. La parte dei continente europeo in mano al mondo romano non andava a est dei Reno e a nord dei Danubio: ma soprattutto non esisteva - né da una parte, né dall'altra del limes - alcuna coscienza continentale. Sarebbe pertanto assurdo far la storia di un continente che non e ancora qualificato, terra incognita di foreste e di brughiere percorsa da popoli che si spostano sulla base di sollecitazioni climatiche o di pressioni di altri nomadi, dai momento che quest'Europa non sa di esser tale: se non lo spazio e nemmeno le genti, bensì la coscienza e la consapevolezza c'interessano, bisogna guardare alla pars Occidentis dell'impero, all'area meno ricca, meno popolata, meno felice, meno colta, meno civile di esso. All'eredità di Onorio che generazioni di libri di scuola - con un rovesciamento corrispondente a uno straordinario anacronismo - hanno considerato implicitamente l'erede privilegiato perché signore dell'Occidente ignorando di fatto (o comunque non sottolineando, e inducendo con ciò in un tragicomico errore strisciante generazioni intere di studenti e di cultori di storia) che solo a partire dal XIII, con una parabola che sarebbe maturata solo nel XVI secolo, l'Occidente avrebbe intrapreso la scalata alla conquista dei mondo, mentre invece era quella decentrata e sfavorita rispetto a un'ecumème mediterraneocentrica che aveva i suoi vedici nei tre grandi empori di Costantinopoli, di Antiochia e di Alessandria

La storia d'Europa s'inaugura pertanto nel segno della continuità rispetto alla civiltà romana; ma anche della discontinuità della rottura (Aldo Schiavone parla di una "storia spezzata', ) della lenta decadenza, della destrutturazione istituzionale e sociale, dell'impoverimento, dello spopolamento, del regresso E' il progressivo destrutturarsi della pars Occidentis; ma anche, al tempo stesso, il progressivo accoglimento all'interno di un limes permeabile e flessibile degli apporti nuovi, delle gentes germaniche e uraioaltaichi e la partecipazione dei barbari all'ereditá romana attraverso la cristianizzazione e perciò l'ingresso nella res publica christianorum, nel cosmos ben regolato al vertice del quale stanno le legge e l'imperium, il sovrano universale immagine dei cristo sulla terra e pari agli Apostoli, Anche se il sovrano sta in realtà lontano, al centro dei mondo, nella nova Roma, mentre l'Europa si costruisce alla periferianordoccidentale dei mondo.

Il cristianesimo, la memoria di Roma, le successive acculturazioni rispetto ai barbari, la pluralità delle esperienze monastiche fra le quali si distingue l'impronta romana e organizzativamente parlando legionaria di Benedetto da Norcia, l'inquadramento diocesano della Chiesa modellato sulle circoscrizioni imperiali e sostenuto da vescovi defensores civitatum che ereditano anche funzioni e dignità santorali un tempo detenute monopolisticamente o quasi dai martiri, la dignità patriarcale del vescovo di Roma che regge come consul Dei una città dove l'imperatore non risiede più ma che non per questo ha rinunziato al diritto di proporsi quale caput mundi e alla quale guardano, come modello urbanistico e politico, città floride e solide che sosterranno a lungo il loro ruolo di capitali regionali e protrarranno il loro ordine e il loro benessere relativo fino alle soglie dei risveglio demografico e sociale dei periodo che si e convenuto chiamar medioevo: da Napoli a Lucca a Ravenna a Milano a Treviri a Poitiers ad Arles.
Continuità rispetto a Roma, senso di aggregazione e volontà d'appartenenza, permanenza di
latinofonia e di latinografia, accuiturazione pagano- cristiana ed esperimenti di convivenza tra italici e germanici , celti e germanici, celtiberi e germanici. I caratteri di fondo dei futuro continente europeo - continente per autocoscienza, non per inquadramento spaziale o istituzionale - si vanno pian paino delineando, al di la di quella che Arnaldo Momigliano ha definito la "caduta senza rumore" della pars Occidentis. L'impero romano e altra cosa, che non rinunzia alla sua presenza e alle sue prerogative, che attestata la sua capitale sul Bosforo resisterà ancora oltre un millennio, l'impero romano non è caduto nel V, bensì nel XV secolo. non alla fine di quella che per definizione è l'età antica, bensì all'inizio di quella che per noi è la moderna. In un passato non remoto bensì prossimo, che quasi si protrae nel presente.L'Europa nasce alla periferia dell'impero e nella marginalità nordoccidentale rispetto a Roma; e si consolida nella memoria di Roma, nei successivi "rinascimenti" - il carolingio, l'ottoniano, quello dei XII secolo - fino al Rinascimento che per noi è per eccellenza tale e in cui, nella coscienza della fine dell'antichità e della rottura rispetto all'antichità, se ne ricercherà e se ne ricostruirà la voce.

L'Europa nasce nella continuità della pars Occidentis e nelle successive integrazioni acculturazioni "barbariche", nasce dal progresso della crisi demografica e socioeconomica tardoantica, dalla subita procella isliamica e dalla successiva ripresa sul discrimine tra i due millenni. E' la storia che dobbiamo cercar di rinarrare e di ripensare alta luce dei valori cristiani, convinti che un senso immanente della storia non ci sia ma fiduciosi in una storia come epifania del disegno divino; e convinti proprio per questo - come atto di fede prima ancora che come scelta di metodo - che l'unico modo di definir l'Europa nel suo divenire sia, appunto, scriverne la storia.

Che l'Europa culturalmente e liturgicamente latina fosse la sede per eccellenza - se non in esclusiva - della Cristianità, era avviso errato forse o quanto meno eccessivo (accompagnato com'era da una sottovalutazione della realtà "bizantina"), ma si può dir concorde degli autori medievali. Con esso, era radicata l'idea che chi non fosse cristiano, se anche dimorasse in territorio europeo, vi si fosse installato da estraneo e da invasore. Cosi l'anonimo chierico toledano che, verso la metà dell'VIII secolo, proseguiva nella sua Continuatio Hispanica le Historiae avviate da Isidoro di Siviglia, salutava come Europenses gli austrasiani vincitori della battaglia di Poitiers dei 732 (in realtà combattuta, secondo altri, nel 733). Ma ci si può chiedere se egli si sentisse a sua volta Europenses in quanto cristiano, o semplicemente nella misura in cui la penisola iberica rientrava nell'Europa secondo i termini geografici romani; e se magari tale non ritenesse - magari con rammarico - di poter più dire nemmeno se stesso, da quando gli arabo- berberi invadendo la penisola iberica l'avevano inglobata nel dar al-Islam. Il che postulerebbe, appunto, confini mobili e rigorosa attenta tra Europa e dar al- Islam; ed escluderebbe la possibilità di parlare di una "Euroipa musulmana" quando si volesse alludere ai territori conquistati dall'Islam e insediati da genti già musulmane o alla nuova fede di recente convertite
E' antiquata e oziosa la discussione se Poitiers abbia arrestato l'invasione musulmana del continente europeo, o sia stata piuttosto il sintomo d'una stanchezza degli invasori i quasi ormai non avevano più lo slancio per procedere troppo oltre: sia perché ormai il peso di quel fatto d'armi appare dei tutto circoscritto, sia perché è improprio, dinanzi all'espansione dell'islam nei secoli VII- X, parlare d'invasione. Gli arabi non avrebbero mai potuto disporre, all'interno della loro società, di guerrieri tanto numerosi da occupare in pochi decenni un territorio esteso dalle Colonne d'Ercole all'Indo e al Sir Darya nel senso della longitudine e dal Caucaso alla Nubia in quello della latitudine: fin dalle campagne dei califfi immediati successori dei profeta, a partire cioè dagli Anni Trenta dei VII secolo, l'espansione dell'islam non corrispose mai a una torrenziale, inarrestabile conquista militare - e tanto meno una Voelkerwanderung - , bensì piuttosto a un processo non sempre coerente e continuo di conquista e di sostanzialmente mai provocata e tanto meno imposta conversione di gruppi afferenti a società stanche o in crisi - fossero i cristiani monofisiti di Siria e d'Egitto, trattati con durezza dai poteri del basileus di Bisanzio, o le genti soggette allo shah sasanide - , desiderose di scrollarsi di dosso vecchie e sclerotiche signorie e di ridefinirsi attorno a un catalizzatore nuovo, il verbo della sottomissione a Dio propagandato dal Suo rasù Muhammad; per quanto molti preferissero poi restar invece fedeli al loro credo accettando di pagare per questo la tassa di capitazione (jizya) e l'imposta dovuta dai non- musulmani sulla terra (kharaJ) nonché di venir considerati jmmi - quindi "protetti", ma anche "soggetti" - , e mostrando insomma di ritenere il governo degli infedeli migliore di quello dei correligionari



Comunque il mito di Poitiers, auspice una suggestiva pagina di Edward Gibbon, ha percorso e contribuito in certo senso a razionalizzare l'intera storia dell'Europa come storia della contrapposizione rispetto all'Islam: senza Poitiers e l'eroismo di Carlo Martello - è stato detto - il nome di Allah sarebbe stato annunziato dai muezzin dall'alto delle torri di Oxford, in quella celebre università si sarebbe studiato il Corano e le vicende di tutto il mondo sarebbero state diverse.Inutile ridimensionare il peso e il ruolo della battaglia di Poitiers: per quanto sia giusto invitare alla prudenza nelle minimalizzazioni e nelle "demitizzazioni", va pur detto che ormai nessuno crede più a una sua importanza risolutiva li 'inito" di quello scontro sopravvive oggi soprattutto come luogo comune massmediale e, d'altro canto, non v'é nulla di più arduo a sradicarsi d'un luogo comune massmediale. Sappiamo bene che e stata la propaganda franca e pontificia ad esaltare la vittoria conseguita sulla strada fra Tours e Poitiers, qualche chilometro a nord- est della confluenza della Vienne con la Creuse, per confermare la gloria della nazione "primogenita della Chiesa di Roma". Al tempo stesso, c'era forse l'intenzione di eclissare la fama dei basileus Leone III Isaurico, che nel 718 aveva obbligato i musulmani ad abbandonare l'assedio posto l'anno precedente a Costantinopoli e che avrebbe validamente contrastato il loro potere sui mari mantenendo il controllo di Mar Nero, Egeo e Mediterraneo centrale fino a dissuaderli per molto tempo dal compiere ulteriori tentativi di penetrare nella penisola anatolica. Ma i fedeli della Chiesa latina non potevano certo onorare Leone III, un iconoclasta; più tardi gli si sarebbe rimproverata anche l'appartenenza a quella civiltà bizantina che un tenace pregiudizio occidentale ha indotto per lungo tempo a descrivere come vile, decadente, degenerata. Quel che il mito di Poitiers ha contribuito a dissimulare a noi moderni è piuttosto, se non proprio il silenzio, le scarse e poco precise voci delle fonti europee coeve rispetto all'Islam. E' noto d'altronde che il periodo corrispondente alla grande esplosione delle conquiste musulmane fu anche un lungo momento di forte depressione dei mondo euro- occidentale: silenzio o notizie inadeguate sono pertanto dovuti anzitutto a disinformazione e a ignoranza. Tuttavia, vero e anche che nel clima di allora riusciva forse difficile, e tutto sommato inutile, distinguere i musulmani da altri invasori o incursori: né avrebbe avuto senso attribuir loro importanza e significato particolari. E' stato scritto che quella dell'impero romano d'Occidente, nella seconda metà dei V secolo, era stata una "caduta senza rumore", probabilmente per l'Europa almeno dell'VIII anche l'avanzata islamica fu, dei pari, senza rumore. O meglio, il suo rumore si confondeva con altri. Al confronto, ad esempio, di Poitiers parlano di più le fonti musulmane, che conoscono l'episodio come "Balàt al- Shuadà", la "Via dei Martiri", e gli attribuiscono una sia pur mediocre importanza.
Non ci si può certo meravigliare di quel che accadde nel depresso e sottosviluppato Occidente europeo, dal momento che le stesse ben più avvertite fonti bizantine si accorsero relativamente tardi che i musulmani non erano barbaroi come gli altri, né si resero subito conto dell'importanza dell'Islam come nuova fede.

D'altronde, l'islam entra dall'VIII secolo in poi in uno speciale rapporto con quella che fino al XV secolo può esser considerata la Cristianità latina, dal V al XVIII secolo l'Europa cristiana e quindi l'Europa nella quale il processo di laicizzazione - dopo la Riforma - ha messo in crisi il carattere identitario cristiano. Tra medioevo e Settecento, il mondo islamico in generale e più specificamente la potenza turca e i principati- corsari barbareschi poi sono stati un importante elemento di "alterità", che ha aiutato l'Europa a definirsi in rapporto e in contrasto rispetto ad esso. Al tempo stesso, le relazioni culturale ed economici, il peso delle culture musulmane (e di quella ebraica della diaspora) nella rinascita o nella nascita tout court di una filosofia e di una scienza occidentale, e infine la lunga permanenza dell'Islam in aree geografiche di sicura pertinenza europea (Sicilia, Spagna, penisola balcanica, penisola tracia detta appunto ancor oggi "Turchia europea") induce oggi a porsi - anche a contatto con una problematica precisa, ad esempio quella dell'ingrasso della Turchia nell'Unione - il problema dell'Islam come elemento storicamente e dinamicamente costitutivo dell'Europa e non soltanto estraneo e magari "alternativo" se non addirittura "ostile" rispetto ad essa. L'esistenza di un Islam europeo" e di un'Europa musulmana non hanno nulla di scandaloso: sono una prova in più dei carattere dinamico della sua realtà identitaria.

Ma tutto ciò sembra ribadire quanto sia problematico il pensare l'Europa all'insegna dell'unità, Questa sembrerebbe la proposta di quanti - storici e politici - vedono ad esempio in Carlomagno un sia pur scomodo e discusso pater pattriae ma è davvero possibile pensare all'Europa come a una 'patha" - nel senso dei Vateriand, piuttosto che non della Heimat - e prospettare un domani in cui ciascun europeo potrà guardare ad essa come al my country, e tale sentirla, appunto come gli statunitensi tale sentono, al di la dei singolo State dei quale ciascuno di loro è cittadino, all'Unione nel suo complesso? Eppure anche l'Unione è pensata al plurale, come United States of Amenca e sembra che nemmeno in quel caso l'Ex Pluribus unum dell'orgogliosa divisa pubblica si sia sino in fondo tradotto in realtà. Se l'America di Washington e di Lincoln resta "una e divisibile', come l'ha definita polemicamente Sergio Bertelli, potrà mai l'unità venir raggiunta e la divisibilità superata nel nostro vecchio continente, che rispetto agli U.S.A conta una tanto più antica, ricca e profonda tradizione di patrie e nazioni sovente le une alle altre contrapposte? O non si dovrà al contrario pensare che non e stata l'esperienza unificatrice carolingia (e le sue successive espansioni e aggregazioni verso nord e verso est), bensì la disgregazione dell'impero di Carlo - quindi il suo rivelarsi una falsa partenza, se non proprio un fallimento - ad aver semmai rivelato a se stessa quell'Europa medievale ch'era già 'moderna" nelle sue diversità, nel suo particolarismo, nella sua realtà policentrica, plurinazionale e plurilinguistica, nella sua dinamica fatta d'espansione ma anche di lotte interne, insomma nel suo dover esser pensata come un "arcipelago"? Non sono appunto le disgregazioni e le discontinuità a proporsi come "levatrici violente" dell'Europa? Non è proprio negli aspetti e nei momenti di crisi e di divisione interna alla sua compagine - il frammentarsi dell'impero carolingio, il sorgere delle monarchie feudali e delle libere comunità cittadine e territoriali superiorem non recognoscentes, la rinunzia al mantenimento dell'unità nella compagine asburgica sancita dall'abdicazione di Carlo V, le antiche e profonde rivalità anglofirancesi, francotedesche, francospagnole, germanopolacche, a pane la problematica e marginale 'europeicità" della Russia a partire da Pietro il Grande e della Turchia a partire da Mustafà Kemal - che l'Europa rivela la sua essenza profonda, che s'intende solo se, quando e nella misura in cui si accetti di non considerarla dal punto di vista della definizione dei suoi confini (che per loro natura sono dinamici e suscettibili di venir di continuo posti in discussione), bensì da quello dei suo centro propulsore? Ma questo centro propulsore, a sua volta, non può venir identificato in alcuna forza né in alcun momento storico specifico. bensì, semmai, nel vivo processo dei crescere della sua coscienza identitaria.

Se il nome Europa è quindi antico, le accezioni in cui esso è stato usato e i significati che gli sono stati attribuiti sono molteplici. Gli antichi vi vedevano uno dei tre continenti, una parte dell' "ecumene" ben delimitata dal mediterraneo e dalla linea del corso dei Tanai: confini in fondo ancor oggi proponibili, nella misura però in cui all'Europa si pensi - memori di una famosa definizione metternichiana dell'Italia - come a "un'espressione geografica. Il fatto e che essa e molto di più. Sul piano della dinamica storica, si può guardare senza dubbio a un "atto di prefondazione di essa nella divisione teodosiana dell'impero romano - ch'era mediterraneo e mediterraneocentrico - in una pars Orientis e una pars Occidentis e a quest'ultima come al nucleo originario della compagine storicoculturale europea. Ma a costruirla dinamicamente sono le ridefinizioni e le successive espansioni della pars Occidentis, attraverso l'esperienza delle acculturazioni romano- barbariche, dell'espansione dell'impero romano- germanico e della Chiesa latina verso nord e verso est, il confronto concorrenziale con il mondo bizantino- slavo e quello religioso- militare con l'Islam, due realtà che a loro volta non possono venir considerate totalmente estranee (e tanto meno assolutamente nemiche) rispetto a un'Europa alla quale peraltro non si può dire appartengano se non marginalmente, ma al definirsi e all'autoriconoscersi della quale hanno in vario modo potentemente contribuito sono il profilo etnoculturale.



Il processo di laicizzazione avviatosi quasi tre secoli fa impedisce d'altro canto - e va detto dopo aver tuttavia ribadito l'importanza irrinunziabile delle radici cristiane dell'Europa, non meno che di quelle europee dell'Occidente - di poter guardare all'Europa come a una Cristianità, cosi come poteva ancora pensarla e proporla il Novalis nei mesi dei passaggio tra i due secoli "l'un contro l'altro armati"? Egli sognava una rinnovata pace europea nel segno d'una ritrovata unità cattolica: come si può invece da parte nostra, all'alba del secolo XXI e dei III millennio, reinterpretrare - mentre la nascente "Carta europea" sembra dimenticare o metter da pane il fattore religioso come elemento identitario - la frammentazione dei corpus christianorum alla fine dei medioevo, la ferita ad esso obiettivamente, inferta dalla Riforma (e dai successivi tentativi di ricomporne la compagine), infine il processo di "desacralizzazione" (eufemisticamente definito di "laicizzazione") avviato durante il secolo XVIII e che appare completato nel XX.
Parlare d'Europa, pensare all'Europa e "pensare l'Europa" può dei resto al giorno d'oggi apparire - mentre l'unità politica dei continente appare più vicina, o comunque meno utopistico lo sperarvi - drammatico, addirittura paradossale Perché da una parte oggi noi sentiamo di vivere una vigilia, da un'altra sappiamo di essere ormai ben oltre il tramonto.
La vigilia è quella d'un giorno che potrebbe anche non arrivare mai, ma che al contrario forse e già cominciato. Quello dell'Europa unita, dell'unione europea della quale la comunità economica e stata forse la premessa, forse il primo necessario passo per lunghi decenni si è discusso, discettato, polemizzato attorno alle idee- forza di Europa "deile nazioni" o Europa- nazione, Europa "delle patrie" o "dei popoli", Europa federale o Stati Uniti d'Europa. Oggi i primi e per molti aspetti decisivi passi sono compiuti, eppure ci sorprendiamo ancora a chiederci che cosa sia questa realtà che stiamo contribuendo a far nascere. Mentre i traguardi dei passaporto e della moneta unica sono raggiunti - e li avvertiamo tappe necessarie su un cammino dei resto ancora molto lungo e tutto da percorrere (restano da fare ancora passi risolutivi sul terreno istituzionale, giuridico, politico, militare), sentiamo profondamente che a questi risultati conseguiti, a questi obiettivi realizzati, manca in qualche modo qualcosa e ci sorprendiamo a chiederci quale sia lo spirito, quale l'essenza ultima, intima, irrinunziabile dell'Europa, Nell'endiadi novalisiana di Cristianità- Europa, che vive profondamente vigorosa nella grande Europa delle cattedrali e dell'Università dei XII-XII secolo e della quale motto resta ancora di vitale, nonostante tutto, anche in quella dell'Encyclopédie e dei principi riformatori, e ormai impossibile riconoscersi e improponibile rifarsi. Possiamo tuttavia guardar ad essa con reverenza: e in essa riconoscere una almeno delle radici forti della nostra autocoscienza, Una radice che richiama immediatamente anche all'ebraismo da una parte, alla grande cultura elienistica (da cui per tanti versi discende anche quella islamica) dall'altra e quindi un mondo ch'è orientale, meridionale, mediterraneo, insomma un mondo che va ben al di la dell'Europa come continente e che tuttavia le è complementare. D'altronde, non vanno dimenticate neppure altre componenti, altre radici storiche d'Europa quelle provenienti e derivanti dalle Volikerwanderungen e pertanto dai mondi celtico, germanico, slavo, baltico, uraloaltaico, anche (per Spagna e Sicilia almeno) arabo- berbero. Il che, ancora una volta, ci indirizza verso il Mediterraneo da una parte, l'Eurasia dall'altra.

Ma nell'era della globalizzazione che sci sta dinanzi, i caratteri di fondo della cultura, dei comportamento, degli standards di vita proposti e in qualche modo accettati nel mondo possono ben aver origine e radice europea, e in quanto 'occidentali" senza dubbio ce l'hanno: tuttavia, il mondo non e più eurocentrico, l'Europa ha perduto la sua centralità spaziale e temporale. Quali saranno i futuri caratteri d'un'Europa divenuta periferica rispetto a un mondo che ha per troppi aspetti i suoi centri propulsori altrove; o che forse - tanto per riprendere un'antica immagine - ha il centro dappertutto e la circonferenza in nessun luogo?

Con queste premesse, e problematico rispondere alla domanda se sia utile, opportuno, giusto e legittimo ridisegnare una storia d'Europa, interrogarsi su di essa, ridefinirne la problematica. In una parola, partire in un crepuscolo che è o potrebbe essere insieme aurora e tramonto a caccia di questa pantera profumata ch'é l'identità europea.

Un'identità che appare, appunto, allo stato attuale delle cose anzitutto pluralsitico. Europa come "arcipelago": e lo abbiamo detto poco sopra, riprendendo secondo una bella definizione di Massimo Cacciari in parte ispirata a Cari Schmitt. Europa come arcipelago di diversità e di differenze; Europa come luogo non tanto di convergenza, quanto di convivenza di molti aspetti diversi fra loro: dei quali o meglio a proposito dei quali è forse corretto chiedersi se esista un minimo denominatore comune,

E' stato detto, a proposito della "nazione", che si è tale solo quando si ha la coscienza (quindi la volontà) di esserlo Forse, lo stesso si potrebbe dir dell'Europa quando non ci si accontenti più di definirla come una delle tre pari dei mondo antico. Un illustre storico catalano, Josep Fontana, ha definito quella europea una "identità distorta", notando com'essa si sta progressivamente costituita quasi attraverso una soda d'immaginaria galleria di specchi - mediante l'autocontrapposizione rispetto a un'immagine menzognera e artificiale dell'Altro: prima il barbaro, poi l'infedele, poi l'eretico, poi il contadino, poi il selvaggio, poi li primitivo. Il tutto al servizio d'una visione della storia lineare, semplicistica, fondata sulle idee- forza profondamente diffuse e radicate giornata (e profondamente fallaci) d'un progresso indefinito e d'un senso immanente nella storia stessa, il che poneva l'Europa (o quanto meno l'Europa- Occidente) al vertice dei progresso- processo storico - la "sera della dello spirito" di hegeliana memoria - ma al tempo stesso sembrava postulare una sorta di uscita- arresto della storia una volta giunta alla fine, un verweile doch! di faustiana memoria che consentisse il mantenimento della supremazia europea come indellanita conservazione- riproduzione di se stessa, una variabile dell'idea di 'ammiristrazione dell'esistente" secondo quanto postulato qualche anno da parte di Francis Kukuyama a proposito della vincente cultura iitberaldemocralica dopo il crollo del Muro di Berlino.

Ma oggi tutto è più difficile. Se meditare sull'identità e/o sull'essenza della cultura europea e dell'idea d'Europa quando ancora l'Europa era o sembrava nonostante tutto continuar ad essere centro e fulcro dei mondo poteva esser semplice, il porsi questo tipo di domande adesso, in un crepuscolo la qualità stessa del quale è incerto, appare più problematico e - magari - pedino penoso. E' arduo volgersi al passato per chiedersi che cosa sia l'Europa nel momento stesso nel quale non si è certi se questa nostra domanda possa servire - verbo peraltro impegnativo , che nella sua accezione utilitaristica richiama il fantasma dell'uso" della storia a fondare una legittimità del dirsi a pieno titolo cittadini europei dei domani, oppure per contro a legittimare, anzi quasi a codificare con mesta consapevolezza notarile, la già consumata finis Europee nella storia dell'ecuméne e dell'umanità.
Eppure, la consapevolezza storica come elemento della costruzione d'un'autocoscienza identitaria nell'unità politica europea che non senza difficoltà e contraddizioni andiamo in questo secolo costruendo è indispensabile alla vita civica stessa della futura Unione. La storia, senza dubbio, non è un sapere `puro", nella misura in cui le scienze asetticamente obiettive non esistono: ma senza la quale non si costruisce un domani, perché anche in un mondo in apparenza dominato dal primato dell'economia e della tecnologia restano sempre e comunque i valori "alti"- quelli etici e quelli politici nel senso propriamente schmittiano del termine - a muovere e a determinare le scelte e le decisioni ultime, quelle senza le quali una civiltà non si edifica




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