Franco Cardini
Libri di testo e dintorni
 
gennaio 2001

Sono "faziosi" i libri di testo? La loro "faziosità" dipende o meno da un'egemonia della sinistra, anzi di una sinistra, quella che negli anni scorsi faceva quadrato attorno al PCI ma non era estranea neppure all'estremismo marx-leninista nelle sue varie componenti o al radicalismo del cattolicesimo...

Anzitutto, difendo Francesco Storace. Può anche darsi che la sua iniziativa sia stata inopportuna - d'illegittimità, ad ogni modo, non si può parlare - e che, com'è un po' suo solito, abbia esagerato nei toni. Il personaggio è fatto così: un po' c'è, un po' ce fa, come dicono a Roma. Ognuno è libero di adeguarsi al cliché che gli sembra il più adatto a sé; e per i politici è una questione d'immagine, di visibilità. Ve lo immaginate uno Storace curial-piovanesco alla Prodi, o professoral-etabetesco all'Amato?

Ma io difendo Storace soprattutto per una convinzione personale, che sarà anche sbagliata. Ho avuto l'impressione che il presidente della Regione Lazio non abbia affatto provocato tutta la caciara che gli si è scatenata attorno: al contrario, che ci sia entrato anzitutto e soprattutto, forse soltanto, per non lasciar soli i consiglieri della "sua" maggioranza che, con un Ordine del Giorno un tantino dilettantesco, si erano comportati sui delicatissimi temi di storia, scuola, insegnamento e libertà con l'eleganza di elefanti in un negozio di cristalleria. Va da sé che una volta combinato il malanno - come il vecchio Shakespeare fa dire a Marco Antonio nel suo Giulio Cesare - indietro non si poteva tornare. Per un senso di lealtà politica che gli fa onore, Francesco Storace è sceso in pista: e ha dovuto ballare.

Sì, vabbè: (la "commissione di revisione dei libri di testo" che - ha sottolineato - avrebbe dovuto esser composta "da storici, non da politici", non gli è venuta granché felice . Saranno tutti uomini colti e serissimi, di cultura e di successo: ma né Colombo, né Montanelli, né Accame - sto parlando, badate, di tre amici che amo e stimo - sono degli scienziati, dei ricercatori, degli storici professionisti, né mai hanno preteso di esserlo. Lo è Roberto Vivarelli: ma l'averlo citato così, alla brava, in quel contesto è stato per Storace un autogol : ha lasciato l'impressione di voler premiare l'ex ragazzino di Salò, non il serio e rigoroso docente universitario.

Con tutto questo, il problema c'è e rimane. Sono "faziosi" i libri di testo? La loro "faziosità" dipende o meno da un'egemonia della sinistra, anzi di una sinistra, quella che negli anni scorsi faceva quadrato attorno al PCI ma non era estranea neppure all'estremismo marx-leninista nelle sue varie componenti o al radicalismo del cattolicesimo cosiddetto (impropriamente) "di sinistra", in una gamma di atteggiamenti che da un certo neomaritainismo giungeva ai "cristiani per il socialismo" di Franco Rodano ed oltre? La sinistra insomma del grande partito di Gramsci e di Togliatti e dei suoi "compagni di strada"?

Il punto centrale non mi sembra sia il ridiscutere di nuovo la "dittatura intellettuale delle sinistre", a suo tempo impostata da Vittorini e soci (e contrastata solo da pochi outsider tipo Brancati, Flaiano, Berto, Bianciardi o Sciascia) e portata avanti con sistematico sussiego dall'austera macchina da guerra della Einaudi e dalle in apparenza più scapigliate truppe d'assalto feltrinellesche. Fu già Ernesto Galli Della Loggia, anni fa, a denunziare quella dittatura e la pesante cappa di piombo ch'essa aveva imposto - con indubbia abilità - al cinema, alla letteratura, ai premi letterari, alla direzione della RAI, alla cultura accademica, sistematicamente e pesantemente manovrando composizioni di giurie e di commissioni di concorso, puntualmente orchestrando campagne di stampa e silenzi-stampa, sostegno a certi libri e ostracismo di certi altri, osanna e crucifige sempre intellettualmente irreprensibili sul piano formale. Fu così che un Cesare Pavese - con le sue inquietudini, il suo amore per il mito, la sua passione per autori e per temi non proprio all'unisono con la linea ufficiale del suo partito - fu messo alle corde come consigliere editoriale di Einaudi: e il contraccolpo che ne subì non fu tra le ultime cause del suo suicidio, anche se Davide Lajolo, ne Il vizio assurdo, si affrettò a proporne una ricostruzione ortodossa. Fu così che un genio come Luchino Visconti dovette portare in doloroso silenzio il peso della sua "diversità", poco gradita ai rigidi moralisti ch'erano allora gli inquisitori di partito (altro che più tardiva disinvoltura!). Fu così che venne emarginato lo stesso Pasolini. Fu così che dalle librerie scomparivano misteriosamente - dati subito come "esauriti" - i libri come i primi volumi della biografia mussoliniana di De Felice, come Il gruppo nel quale uno storico tanto rigoroso quanto coraggioso come Sergio Bertelli riscriveva la storia della resistibile ascesa del PCI nella società italiana o come Il montaggio di Volkoff, implacabile e veridica satira del sistema sovietico. Fu così che si fece di tutto per impedire agli italiani di leggere Koestler, Kravchenko, Horia, Pasternak, Soljenitzjin; mentre si dette ad intendere a un'intera generazione - ad esempio la mia, quella nata tra la fine degli Anni Trenta e l'inizio degli Anni Quaranta - che la cultura cominciava con Györghy Lukács e finiva con Bertold Brecht.

A metà novembre, su "La Repubblica", l'amico Umberto Eco ha detto la sua a proposito dell'egemonia -fantasma della sinistra sulla scuola italiana. L'ha fatto da par suo: con l'intelligenza, la finezza, lo humour e la dottrina che gli sono propri e che lo hanno imposto all'ammirazione anche di quelli - e io non sono fra essi - che ben lieti sarebbero di poterlo non ammirare. Eco parte dalla citazione d'un testo che anch'io ritengo esemplare, quel I pàmpini bugiardi nel quale egli e Marisa Bonazzi, nel '72, denunziavano i conformismi e le idiozie d'una manualistica per le scuole elementari ch'era sostanzialmente ancora fascista: e fascista alla Starace, non alla Gentile o alla Pavolini o alla Bottai. I pàmpini bugiardi erano il frutto - è il caso di dirlo - d'una mostra che la Bonazzi aveva organizzato qualche anno prima a Reggio Emilia.

Nessuno sa meglio di me quanto Eco abbia ragione. Più giovane di lui di otto anni, chi scrive queste righe era adolescente a metà degli Anni Cinquanta: e può testimoniare che, a parte la divisa da balilla col fazzoletto azzurro o le mostrine bianche da avanguardista, il resto dell'educazione che egli aveva ricevuto, dall'insostenibile lettura dell'infame Cuore del De Amicis (grazie, Umberto: per l'Elogio di Franti sarò tuo debitore in eterno ...) fino all'elogio della stampella di Enrico Toti, al "gioco del silenzio" e alle braccia conserte, tutto nella scuola era ancor italiettistico-umbertino-fascistoide: e magari fosse stato il mio bel fascismo fiorentino arruffapopoli e carognone, quello di Ardengo Soffici e di Berto Ricci! Eco, doctor diabolicus come al solito, ha buon gioco nell'evocare queste sue battaglie d'un trentennio fa e nello sfidare Storace: noialtri di sinistra abbiamo sbancato allora i pàmpini bugiardi dell'educazione piccoloborghese sopravvissuta al crollo del fascismo; ora sotto, provaci tu a smascherare sul serio e radicalmente i pàmpini bugiardi dell'educazione sinistrese-marxista che a tuo dire impesta da alcuni decenni la scuola. E fatto come abbiamo fatto noi: dal basso, con dei libri, delle mostre, la mobilitazione degli insegnanti e degli studenti. Sarebbe troppo comodo farlo alla lateranense o alla littoria (o anche alla centralistico-democratica), con una bella commissione di saggi e un autoritario tratto di penna governatorale.

Bella sfida, non c'è che dire. E, presentata così, non fa una grinza. Credo proprio che, involontariamente (o no?), Eco abbia fornito a Storace l'indicazione preziosa e precisa della strada da battere. Proprio così. Il modello va ricercato appunto in Marisa Bonazzi-Umberto Eco, I pàmpini bugiardi, Rimini, Guaraldi, 1972. Tanto più che nel frattempo il buon Mario Guaraldi, editore in Rimini, ne ha fatta di strada e ne ha cambiate di idee: e oggi sarebbe lietissimo e prontissimo, nel Trentennale di quella memorabile pubblicazione, a pubblicarne una palinodia e magari a trasformarla in mostra al Meeting di Rimini, del quale è sostenitore di non seconda fila.



Fin qui le ragioni di Umberto Eco. Il quale passa peraltro subito dalla parte del torto - e lo fa alla grande, da par suo - quando cerca di sostenere che quell'egemonia della sinistra, nella scuola e nella ricerca storica specie contemporaneistica d'Italia, non ci sarebbe mai stata. E lo fa partendo dai tempi della sua adolescenza, quando la DC era saldamente accampata al Ministero della Pubblica Istruzione ed esistevano fior di editori e di riviste di segno cattolico, mentre alla RAI il grande Ettore Bernabei censurava le gambe delle ballerine e il lessico delle annunziatrici. Perché, partendo da queste solide posizioni egemoniche, la DC e il mondo cattolico non sono riusciti a costruire anche una solida egemonia culturale (e propagandistica, massmediale) nel paese? E perché quel po' di cultura che il mondo cattolico, nei suoi settori più vivi, ha costruito, è finito per confluire fra i "compagni di strada" della sinistra? E lo stesso è avvenuto ai giovani liberali e/o liberalsociatisti che cercavano di coniugare Gramsci con Gobetti? Il segretario-assistente-confidente di Elio Vittorini si chiamava Raffaele Crovi: non vi dice niente, tutto questo?

Ebbene, commenta Eco, la faccenda è andata nel senso che da una parte il PCI e soci hanno investito moltissimo nella battaglia culturale, gramscianamente certi che il carciofo della società civile italiana si sfogliasse attraverso la conquista della cultura; mentre la DC e soci hanno continuato a giudicare - insieme con quel fine intellettuale ch'era Mario Scelba - che non esistesse la cultura ma solo "il culturame", che cineclubs, cineforum e Case della Cultura fossero giocattoli per onanismi da primi della classe e che, per gestire l'opinione pubblica italiana, bastasse occupare le poltrone dei Consigli d'Amministrazione mentre a procurare i voti ci pensavano le parrocchie.

Ma le osservazioni di Eco - tutte giuste, molte anche corrette - si appuntano soprattutto sul tempo in cui era adolescente lui, più o meno a metà degli Anni Cinquanta. Un lustro dopo, quando ero adolescente io, molte cose erano cambiate. Perché c'erano state di mezzo le crisi di Suez e d'Ungheria, il XX Congresso del PCUS, la rivoluzione cubana, l'avvio della guerra del Vietnam; in Italia il decollo del centrosinistra. E perché un PCI che il grande e terribile Stalin aveva tenuto saldamente al guinzaglio della Terza Internazionale doveva ormai riciclarsi e affrontare una nuova fase della guerra fredda e anzi il grande tempo del "disgelo" internazionale all'insegna della Grande Triade dei Pacificatori: Krushev, Kennedy, Giovanni XXIII. Fu allora che il dialogo tra partito filosovietico e società civile italiana divenne meno settario, più serrato: e alla necessità di occupare i gangli della seconda il primo rispose anzitutto organizzando - a partire dalla scuola, dall'università, dalla RAI, dai sindacati, dal cinema - la conquista intellettuale. Il vecchio Giorgio Almirante aveva capito tutto quando, più o meno nel '63, proclamava che il PCI aveva vinto "la battaglia delle parole": non a caso, a quel tempo, dirsi intellettuale e dirsi "di sinistra" era tutt'uno. Cultura e sinistra erano diventati tautologia; cultura e nonsinistra ossimoro. Ora che questo tempo è ormai passato e vetusto, Eco è padrone di dire che i diktat del PCI non li prendeva sul serio nessuno, e che "tutte le persone colte ritenevano che Zdanov fosse una testa di legno". Che lo ritenessero, sarà vero: che poi lo dicessero con disinvoltura, anche e soprattutto in certi salotti affacciati sulle terrazze fiorite e sui bei giardini pensili di piazza Navona, sono certo sia già meno vero. Quanto a me, povero intellettuale disorganico che non andava mai da Fulvia il sabato sera per la bella ragione che Fulvia - ritenendolo un "fascista" (e quindi, secondo la celebre equazione della sinistra intelligente, un bruto o un criminale o un ignorante o un disonesto) - nel suo salotto si guardava bene dall'invitarlo, mi ricordo benissimo di aver rischiato più volte la carriera, il saluto di amici e colleghi e perfino l'incolumità fisica per aver espresso dubbi ben più moderati di quelli riassunti nel parere che, a detta di Eco, era comunemente condiviso da tutti a proposito del tovarish Zdanov.

Comunque, di tutto ciò DC e alleati laici non mostrarono di preoccuparsi troppo: anzi, lasciarono che i loro scarsi gruppi giovanili intellettualmente impegnati cedessero all'andazzo. Restava fuori gioco il MSI, fucina in effetti fervida di ricerca intellettuale (leggere Giulio Salierno per credere): ma di ricerca priva di basi e di sostegno; metodologicamente dilettantesca e avventuristica; disorientata, priva di potere e dunque di addentellati effettivi con la scuola, l'editoria, l'accademia; continuamente égarée dietro i falsi e tragicomici miti dell'esoterismo e d'un Kulturpessimismus datato, desueto e malamente rimasticato. Quei ragazzi missini che leggevano Evola e pubblicavano rivistine e rivistacce pagandole di tasca loro erano in fondo i più simpatici: almeno, ci provavano. Ma la loro era una battaglia contro i mulini a vento: del resto, Don Chisciotte era uno dei loro idoli, come un quarto di secolo prima lo era stato per i loro modelli storici, i ragazzini e i ragazzacci della prima Falange Spagnola.

Ed ecco, allora, la verità più vera. Certo che c'è stata un'egemonia se non una dittatura intellettuale della sinistra marx-leninista-gramsciana, che procedendo dagli Anni Sessanta verso gli Anni Ottanta ha semmai attenuato e poi lasciato cadere il referente leninista. Quell'egemonia si rifletteva immediatamente nella scuola, ma non si può certo dire che la sinistra ne fosse l'unica responsabile. Se stravinse e s'impose, ciò dipese anche dall'ignoranza, dall'indifferenza, dall'assenza di prospettive dei suoi avversari. Come ben ha detto Domenico Starnone, i professori "di destra" nella scuola fra terzo e ultimo quarto del Novecento erano quelli che dicevano di non volersi aggiornare perché preferivano ispirarsi ai classici ma che, in realtà, al massimo leggevano le Antologie; e, soprattutto, il "Corriere dello Sport". La mia esperienza di professore di liceo e d'università, maturata tra 1967 (quando vinsi la cattedra alle medie superiori) e 1985 (quando divenni professore di prima fascia all'Università), m'impedisce di dimenticare che fra i colleghi e gli studenti i migliori, i più attenti, i più seri, i più interessati, i più impegnati erano quelli di sinistra, con qualche rarissima genialoide eccezione cattolica o missina.



Ecco perché la prospettiva che Storace ha fatto sua (senza troppa convinzione, ritengo), quella d'una commissione di storici che riveda i libri di testo - non importa se a livello nazionale o regionale - è insostenibile. L'attuale normativa parla chiaro: siamo - per fortuna - in regime di libertà d'insegnamento, e la scelta dei libri di testo è una questione che si gioca tra autori, editori e singoli docenti secondo le regole del mercato. La forza d'inerzia d'una situazione cronicizzata ed ereditata dal passato, ormai ridicolmente senescente, fa sì che nella maggior parte dei manuali di scuola per la scuola media si sia affermato un politically correct veteromarxisteggiante, impermeabile o quasi alle novità della ricerca. Il problema è che tale situazione conformistica si raccorda al torpore e al conformismo d'un ceto d'insegnanti demotivati, culturalmente proletarizzati, che non ha praticamente né la voglia né la possibilità di aggiornarsi, che annega nel conformistico clima dei cliché d'una sinistra divenuta ormai depositaria e garante del perbenismo interpretativo dei manuali. Un ceto d'insegnanti che a ogni primavera viene investito dai rappresentanti delle case editrici che propongono regolarmente o quasi dei remakings dei vecchi manuali, magari sottoposti a un più o meno accattivante maquillage grafico-tecnico, e accompagnati dalla vecchia gadgettistica dei volumi-omaggio o dei viaggi aggiornamento-premio in cambio di massicce adozioni.

I libri, in queste condizioni, non si scelgono; di solito si confermano; anche perché il non-più-PCI ha mantenuto abbastanza in piedi, istituto per istituto, cellule e agit-prop, e il docente che rinunziasse al manuale "democratico" per adottarne magari uno sospetto di tendenze "revisionistiche", sarebbe segnato a dito. E non venitemi a dire che questa descrizione dei fatti non corrisponde a verità. L'ho vissuta, sia come docente, sia come autore di un manuate scolastico verso la metà degli Anni Settanta, allorché una casa editrice fiorentina mi pose alle costole due solerti (e del resto ben preparati) funzionari incaricati di sorvegliare quel che andava scrivendo quel giovane professore che si diceva fosse "bravo" ma del quale erano note le inclinazioni reazionarie.

Che fare allora, amico Storace? Credi a me, le commissioni di esperti e di saggi non solo non servono, ma addirittura sono impraticabili. Storace, ch'è uomo intelligente - e anche più colto di quanto non ami farsi credere: e può essere anche una buona tattica... - non è tuttavia "del mestiere", sa solo approssimativamente che cosa sia la storia e per nulla chi e che cosa siano gli storici. È ammirevole, quasi commovente, quando dichiara la sua fiducia nella "verità storica". Il fatto è che una commissione di storici - da lui auspicata -, se mai accettasse di venir convocata da lui, si rivelerebbe un rimedio peggiore del male. Perché la "verità obiettiva" e la "verità storica" non possono mai, per loro natura, coincidere: per quanto nella deontologia professionale dello storico sia scritto a chiare lettere ch'egli deve far di tutto - nella più ampia libertà di scelte concettuali e metodologiche - per avvicinarle il più possibile.

Ma la verità obiettiva è per sua natura irraggiungibile e inconseguibile; mentre la verità storica è il risuttato non tanto e non solo della ricerca, quanto e soprattutto dell'interpretazione. La storia è esegesi continua: per questo è opera aperta. Ed è appunto nel nome di ciò che possiamo dichiarar patetici e ridicoli i tentativi - anche recenti - di stabilire per legge i limiti della ricerca e di fissare quella che sarebbe la verità storica; o addirittura "il senso" e "la ragione" della storia, dal momento che la storia non ha né un senso, né una ragione immanente. Siamo dunque in mare aperto, amico Storace. Ti scandalizza che i manuali non parlino delle foibe? Scandalizza anche me. E mi scandalizzano, in essi o nella loro maggior parte, un sacco di altre cose.

Mi scandalizza com'essi nascondano tante infamie del presente - dai bambini che muoiono ogni giorno di fame in questo beato secolo dei consumi e della globalizzazione ai disgraziati irakeni che pagano con le toro vite la tirannia del loro rais e gli esiti cinici della politica statunitense - e presentino in modo tanto inadeguato fatti, istituzioni e strutture del passato, ad esempio mantenendo un taglio ristrettamente occidentocentrico all'insegnamento della storia destinato a ragazzi che, nel secolo della cultura mondialista, non possono continuar a baloccarsi imparando che cosa facevano Minghetti e Zanardelli e ignorando o quasi chi mai siano stati Genghiz Khan, Tamerlano e Muhammed Ali.

Ma andiamo in fondo alla faccenda. Chi ha detto che l'iniziativa di Storace mira a "legittimare il revisionismo" o addirittura tout court a rivalutare il fascismo, chi ha sostenuto che essa mirerebbe a "bruciare di nuovo i libri" (come nel '33... ), ha pronunziato delle ridicole, grossolane sciocchezze: mi auguro solo che lo abbia fatto in malafede, perché in caso contrario vi sarebbe sul serio da dubitare dell'intelligenza di personaggi che passano - e non a torto, secondo me - per essere importanti intellettuali e fini studiosi. Il punto è che il solo pensare che sia possibile elaborare e imporre "dall'alto" manuali migliori, o anche solamente "più obiettivi", è un non-senso. Non solo a tal fine mancano - per fortuna - gli strumenti giuridici: ma, soprattutto, elaborare di comune accordo, fra specialisti, testi obiettivi sarebbe impossibile proprio nella misura in cui la struttura della storia in quanto disciplina scientifica rifugge per sua natura da qualunque criterio di obiettività nel senso di "verità-verosimiglianza".

La battaglia dev'esser condotta quindi tutta al livello della base: autori, editori, insegnanti, studenti, scuole, famiglie. E qui ha ragione Umberto Eco, anche se il suo quadro d'una cultura odierna almeno quantitativamente in mano "alle destre" è d'una falsità esilarante (ed egli lo sa benissimo). Purtroppo, oggi impazza il peggior supermarket di paccottiglia ispirata al sensazionalismo pseudostorico e all'esoterismo "new age" che si possa immaginare: consumismo e massificazione della cultura editoriale, informatica e audiovisiva hanno prodotto questa nauseabonda frittata in cui navigano brandelli di astrologia, di ufologia, di templarismo, di pseudospiritualità "orientale". Parola mia, quasi quasi rimpiango Lukács e perfino - Dio mi perdoni - Brecht.

Ma questa non è una cultura "di destra" opposta a quella "di sinistra" ch'era egemone prima e che resta tale in ambienti editorialmente e accademicamente più qualificati. Questo è il ciarpame postmoderno nel quale la civiltà dei consumi e dei profitti ci sta affondando. Pertanto, diciamolo parafrasando i vecchi libretti verdiani, si risvegli il leone polista. O si svegli tout court, dappoichè finora il nobile felino ha ciondolato tra Arcore e Roma senza dar particolari segni di vivezza almeno intellettuale.

Mobiliti il Polo i suoi studiosi, i suoi intellettuali, i suoi editori, le sue organizzazioni d'insegnanti e di studenti, i suoi comitati scuola-famiglia. Si denunzino i pàmpini bugiardi della sinistra; si propongano tralci veritieri rigogliosamente cresciuti nelle vigne cattolica, liberale, cattoliberale, cristianosociale, nazionalpopulista e quant'altro. Si facciano mostre, convegni, tavole rotonde. Si scrivano, si mettano in commercio e si facciano adottare e circolare nelle scuole nuovi manuali. E si colga così l'occasione per un ripensamento serio sulla storia: che non è mai stata insegnata come materia "neutra", ma ch'è sempre servita a uno scopo.

"Uso della storia", si è detto con disprezzo. Ebbene, in fondo sì. È dall'Ottocento che in tutta Europa s'insegna la storia soprattutto per mostrare ai ragazzi come si diventa buoni cittadini. Forse, il fatto che l'insegnamento della storia e la storia stessa come materia di studio è in crisi in tutto l'Occidente dipende proprio da questo: che negli standards educazionali hanno posto sempre più ampio le materie che insegnano cose "pratiche" e che dispongono magari a far quattrini, mentre sempre più ristretto è il ruolo delle discipline il cui fine ultimo è la formazione etica e civica. Non a caso, in tutto l'Occidente l'insegnamento della storia è in crisi e da più parti se ne denunzia "l'inutilità".

Il che richiede una sua rifondazione. La recente riforma della scuola ripartisce l'insegnamento in due grandi cicli. Sarebbe forse utile impiegare il primo per insegnare dei rudimenti di storia secondo il modulo "narrativo-espositivo" (avvenimenti, personaggi, date, qualche linea istituzionale), e il secondo per ripercorrere l'avventura delle civiltà umane secondo un modulo "problematico", privilegiando il taglio antropologico e i grandi spazi che dovrebbero abituare il ragazzo agli orizzonti mondiali del mondo della globalizzazione che lo aspetta e fornendogli i rudimenti metodologici che lo abilitino a capire dall'interno il processo storico anziché accettarlo, già preconfezionato, dalle pagine dei manuali o magari dai programmi del computer.

Come vedete, altro che "revisionismo" ci vuole. Quel ch'è necessario, è una sorta di rivoluzione copernicana nell'insegnamento della storia ed una sua autentica riqualificazione. Se ci sono gli studiosi, gli insegnanti, gli studenti e le famiglie orientati verso la "Casa delle Libertà" e disposti a questa rivoluzione copernicana, si facciano avanti: perché per loro ho parlato.




Vuoi essere informato sulle novità del sito e le iniziative di Identità Europea?
iscriviti cancellati


© Identità Europea 2004
Sito ottimizzato per una visione 800 x 600 px
Explorer 5.0 - Netscape 6 - Opera 7
e superiori


 

 
articoli censurati dalla stampa