Franco Cardini
Occidente in cerca di identità
 
Il Tempo - mercoledì 8 gennaio 2003

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Riflessione comunitaria del circolo "Marzio Tremaglia" Di Bari

Qualcuno, ad esempio Augusto Del Noce, l'aveva già compreso e previsto. Altri se ne stanno accorgendo adesso: e ne nascerà forse un dibattito interessante. Gli eventi politici internazionali ne hanno accelerato lo sviluppo: anche grazie a una vorticosa rinascita d'una scienza fino a ieri da noi semignorata e quasi vilipesa: la geopolitica. Certo è che da alcuni mesi tutti noi ce lo chiediamo ogni volta che il presidente George W. Bush jr. pronunzia - rivolto ora al suo paese, ora ai suoi più o meno stretti alleati, ora alla comunità internazionale - il pronome "we" e l'aggettivo "our". Chi siamo "noi"? Che cos'è "nostro"?

Noi siamo la Civiltà occidentale. Da secoli ci sentiamo tale: ma da quand? E in relazione a quale "Altro-da-noi"? A quale Oriente si oppone il nostro Occidente? L'Europa e l'Asia sono "naturalmente" nemiche, fino dai tempi delle guerre persiane mirabilmente cantate in una tragedia di Eschilo? E questi valori, quest'Occidente, quest'Oriente, sono sempre rimasti invariati? Che Alessandro Magno, un greco semibarbaro, abbia tentato una sintesi eurasiatica, e che la fede cristiana (un credo "orientale"...) abbia conquistato l'Occidente tanto da potersi poi addirittura per lungo tempo identificare con esso, sono cose che non significano niente? L'Occidente di oggi può essere ancora il medesimo del quale, all'alba del secolo scorso, Oswald Spengler profetizzava il "tramonto"? Ed è una realtà e solidale, questo "Occidente", al suo interno: oppure presenta articolazioni e addirittura fratture e contraddizioni? È arduo considerare l'Europa interamente parte dell'Occidente. Questa "occidentalità" dell'Europa intesa sia come continente sia come realtà politica, ch'è tanto fortemente avvertita a Londra, a Lisbona, a Madrid e anche - già con qualche sfumatura... - a Parigi e a Roma, lo è altrettanto a Berlino o a Vienna? Certo lo è molto meno a Budapest e a Varsavia. Fino a che punto lo Sarà ad Ankara e a Mosca, se e quando Turchia e Russia entreranno a far parte dell'Unione Europea. Ma proprio per questo l'Europa è, o sarà, o può essere, qualcosa di più. Essa è impensabile senza il suo "continente liquido" complementare, il Mediterraneo. Attraverso le "semieuropee" Russia e Turchia essa si prolunga fin addentro l'Asia centrale.

"Europeizzazione" e "occidentalizzazione" di terre e culture non considerabili, oggi, né europee né occidentali, sono (saranno) la stessa cosa? E quell'americanizzazione progressiva dei costumi, dei modi di produzione, degli atteggiamenti mentali e culturali che ha fino dall'indomani della prima guerra mondiale (ma era attiva già da prima) conquistato progressivamente l'Europa, non era già per altri versi attiva da tempo - indipendentemente dal nostro continente - in America latina, in Asia (specie in Giappone), in certe parti del continente africano (pensiamo alla Liberia)? Ma oggi l'occidentalismo e l'occidentalizzazione possono essere a loro volta definiti sinonimi di americanismo e americanizzazione? E strumenti quindi, o quanto meno veicoli, di quella che anche negli Usa - ci riferiamo al pensiero dei Brzezinski e dei Luttwak, dei Krautheimer e dei Wolfowitz - è considerata con sempre minori fisime eufemistiche una "politica imperiale" statunitense? E questa "politica imperiale" si accorda poi, e fino a che punto, con la diffusa e fortunata immagine degli Usa disinteressati e generosi guardiani della libertà, della democrazia e della pace nel mondo? Se in Italia questi problemi sono per il momento solo il marginale oggetto di un dibattito (ch'è però in crescita) in certe aree della sinistra o anche della destra cattolica e non-liberista, dove "filoamericani" e "antiamericani" convivono con difficiltà almeno dal 1968 in poi, lo stesso non accade altrove. In Francia ad esempio - il paese europeo che a tutt'oggi, insieme con al Germania, è il più frondista nei confronti della politica egemonica statunitense - la polemica è violenta. Lo attesta un bel libro recente edito dalla Sorbonne, "L'américanisation de l'Europe occidentale. Mythe et réalité", frutto d'un colloquio organizzato in un momento "non sospetto": cioè nel luglio del 2001, due mesi prima del tragico 11 settembre.

E da noi? Qualcuno minimizza: che volete che conti se c'è chi "vuo' fa' l'americano", secondo una maschera che un film interpretato da Alberto Sordi o una canzone di Renato Carosone hanno reso popolare fin dagli Anni Cinquanta? Possono mai preoccupare chewing gum e hamburger, al di là di certi limiti di buon gusto? Ci si può davvero aduggiare se gli americani sono più bravi di noi a creare mode, a far del cinema, a inventare stili musicali nuovi? E - mode a parte - gli aspetti deteriori della modernità, se e nella misura in cui ci sono, possono davvero imputarsi tutti e solo agli Usa? Non erano già iscritti nello sviluppo delle filosofie e dei modi di produzione europei almeno dal XVIII secolo? Egoismo e materialismo, capitalismo e individualismo, non sono forse valori e/o disvalori occidentali in quanto europei, ai quali gli Usa hanno semmai fornito un contributo e un incremento a partire dall'Ottocento, ma seguendo un trend in parte segnato?

E poi, sono questi gli aspetti caratteristici del mondo statunitense in opposizione all'Europa? Solo una tardiva e acritica rilettura del desueto Americanismo e bolscevismo di Julius Evola potrebbe farlo pensare. Samuel Huntington ha indirettamente risposto a queste critiche e a questi malumori sottolineando che il centro dello spirito occidentale è la Magna Charta, non il Big Mac. Ma attenzione: l'assunto del profesor Huntington non è per nulla avalutativo, come qualcuno vorrebbe. Egli sa bene che la sua tesi non si limita a ritrarre la realtà e a proporne una visione "obiettiva": egli mira a un'identificazione tra Usa, Europa e Occidente al punto tale da aver dichiarato, all'indomani dell'11 settembre, che la tragedia era servita se non altro ad allineare del tutto l'Europa sul fronte della causa occidentale. Il che la dice lunga su come in realtà egli veda i rapporti fra States e Unione Europea.

Certo, lo spirito della Magna Charta è autenticamente europeo. Ma viene da chiedersi come abbia letto, Samuel Huntington, quel documento del 1215 che solo tirandolo per i capelli si potrebbe interpretare come fondamento della democrazia moderna (lo era, semmai, di una visione aristocratico-oligarchica del potere). Nel costituzionalismo americano, fino dall'Ottocento, forte è stata la volontà d'intendere la Magna Charta in funzione dell'uso che se ne fece nell'àmbito del parlamentarismo inglese del Seicento: e nel presentarla come la base delle istanze portate nel Nuovo Mondo dai Pilgrim Fathers, attraverso i quali si sarebbe trasferito in America "il miglior sangue d'Europa". Il costituzionalismo statunitense, al pari del movimento cosiddetto "teutonista" che tanto significato ha avuto tra i membri dell'aristocrazia economica e intellettuale bostoniana (i "bramini", come gli Adams e i Lloyd George), ha sempre teso a interpretare la vita della giovane America come l'esito di un movimento di salvezza e di liberazione: via dalla follìa papista e tirannica della vecchia Europa, i valori più positivi del continente si sarebbero trasferiti oltreatlantico. Come nell'impero romano l'anima era fondata sulla cultura ellenica, mentre la forza risiedeva nelle armi e nel diritto pacificatore di Roma. Una pax americana, dunque, sul modello della pax romana. Non stupisce come, in quest'ordine di attegiamenti, non sia mancato neppure chi ha visto in quest'Occidente "megaleuropeo" politicamente, economicamente e militarmente egemonizzato dagli Usa l'ultima versione e magari l'ultima spiaggia della Cristianità. Magari, d'una Cristianità minacciata dal fondamentalismo islamico. O dell'Islam tout court, che sarebbe perfino più insidioso quando si presenta come "moderato".

Sul fronte opposto, militano intellettuali e studiosi che da Alain de Benoist a Romolo Gobbi (quindi da "destra" a "sinistra") sottolineano al contrario come, e fin dall'Ottocento, la politica statunitense si sia ispirata sistematicamente a un antieuropeismo ben cosciente; e come la stessa dichiarazione Monroe del 1823, al di là della sua lectio facilior isolazionista, debba esser letta al livello di una dichiarazione di guerra all'Europa che allora doveva essere espulsa - come accadde - dal continente americano, e oggi dev'esser trattata come un alleato al quale assegnare compiti secondari. Da qui la proposta di un giornalista abituato alle provocazioni, Maurizio Blondet: se così stanno le cose, perché l'Unione Europea non chiede di divenire la cinquantaduesima stella sulla bandiera stars and stripes?

Il dibattito è aperto.




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