Franco Cardini
Un saluto ai partecipanti alla manifestazione del 13 dicembre 2003
 
dicembre 2003

In questo momento, in Iraq si stanno svolgendo avvenimenti che sono stretta e diretta conseguenza della guerra d’aggressione voluta dal governo Bush e dal perdurare di un’occupazione condotta con metodi repressivi e brutali dei quali nessuno di noi intende continuar a esser complice...

Care Amiche, cari Amici,

gli organizzatori di questa manifestazione mi chiedono una breve testimonianza, che fornisco volentieri.

Anzitutto un auspicio: quello che – nonostante i numerosi equivoci e soprattutto le numerose provocazioni, senza dubbio non casuali, che ne hanno acompagnata la preparazione – queste giornata si svolga in un clima quanto più possibile sereno e il messaggio che ne scaturirà al paese sia forte, chiaro e unitario.

So bene d’altronde che, pur convergenti e animate da buona volontà, non tutte le posizioni di chi ha aderito alla manifestazione sono le stesse. Esiste anzi una pluralità di modi d’intendere quel che si può definire “Resistenza irakena” e quel ch’è opportuno fare per appoggiarla.

Personalmente, vorrei aprire queste mie poche parole con un ricordo dedicato ai caduti italiani dell’attentato di Nassiriya e ai 9000 soldati del nostro paese attualmente impegnati in servizi di pace in tutto il mondo. Credo non si debba dubitare del loro sincero impegno di pace e del loro senso del dovere. E’ d’altro canto evidente che i governi italiani che hanno deciso d’impiegarli a più riprese in differenti campagne, e soprattutto l’attuale che li ha inviati in Iraq facendo passare per un’operazione di peacekeeping quella che non poteva non essere di guerra, perché in quel paese continua ad esserci una guerra, si sono assunti pesanti responsabilità. All’attuale governo chiediamo di desistere dal continuar ad appoggiare una guerra d’aggressione in una cobelligeranza che esso stesso non ha osato proclamare e che la stragrande maggioranza degli italiani non vuole. I nostri soldati debbono lasciare immediatamente l’Iraq occupato dalle forze della cosiddetta “coalizione” guidata dagli Stati Uniti d’America e rientrarvi soltanto, come aeffettiva forza d’interposizione e di pace, nell’ambito di un’azione concordata dalle Nazioni Unite che proceda a riconsegnare al più presto l’Iraq agli irakeni.

In questo momento, in Iraq si stanno svolgendo avvenimenti che sono stretta e diretta conseguenza della guerra d’aggressione voluta dal governo Bush e dal perdurare di un’occupazione condotta con metodi repressivi e brutali dei quali nessuno di noi intende continuar a esser complice. E’ chiaro che la Resistenza popolare, che si esprime com’è consueto in casi come questo mediante atti di guerriglia la frequenza ed efficacia dei quali sarebbe impensabile senza il corale appoggio della gente, e non solo nel cosiddetto “triangolo sunnita” – contrariamente a quanto recita la “vulgata” massmediale -, s’intreccia e si confonde con azioni perpetrate dai residui delle forza fedeli al regime saddamista e con atti terroristici organizzati dalle forze più diverse, tra le quali quelle dei miliziani wahabiti dei gruppi che genericamente si indicano con il nome dell’organizzazione di al-Qaeda. Che l’aggressione statunitense avrebbe avuto tra i suoi effetti quello di rafforzare i simpatizzanti e gli adepti del terorismo fondamentalista era eventualità ovvia: e talmente logica da far pensare che gli aggressori intendessero appunto conseguirla, al fine di giustificare con l’insorgere della spirale degli attentati terroristici il protrarsi della loro occupazione. In questo senso, politica del governo Bush ed azione terroristica locale e internazionale si giustificano e si sorreggono a vicenda.

D’altronde, una delle ragioni del protrarsi dell’occupazione è apparsa in tutta la sua cinica evidenza nel documento emanato il 10 dicembre scorso dal Pentagono e presumibilmente messo a punto dal sottosegretario Paul Wolfowitz: ai quasi 19 miliardi di dollari stanziati dal congresso statunitense per la “ricostruzione” dell’Iraq, ripartiti in 26 appalti, avrenno accesso i 63 paesi che hanno appoggiato l’aggressione: gli altri saranno “puniti” venendo esclusi dalla ripartizione. Questo è il pagamento per la complicità internazionale: un gesto che ribadisce, se ancor ve ne fosse bisogno, come dietro la campagna irakena si nascondesse e si nasconda una colossale manovra finanziaria, tecnologica e produttiva e come gli USA di Bush si stiano comportando in territorio irakeno come una potenza coloniale all’indomani della conquista. Vantaggio finale dell’aggresssore, nei piani di Bush, un definitivo e duraturo radicamento statunitense sul suolo irakeno, con la relativa gestione delle ricchezze petrolifere e dello spazio geopolitico acquisito: in vista, magari, di altri capitoli della “guerra infinita” da aprire nei prossimi mesi.

Dinanzi a un’arroganza e a un cinismo che non hanno forse precedenti nella storia mondiale dal 1945 ad oggi, è evidente che il sostegno alla Resistenza irakena dev’essere un sostegno politico nel senso più ampio del termine. Non si tratta né di auspicare né d’incoraggiare nuove azioni militari, che provocherebbero rappresaglie (quelle rappresaglie della quali non si parla mai) e che recherebbero altre sofferenze a una popolazione già duramente provata da oltre un ventennio di dittatura, un decennio di duro embargo e quasi un anno di guerra. La Resistenza dovrà esser aiutata ad esprimersi politicamente, ad attrezzarsi sul piano dell’informazione e dell’impatto sull’opinione pubblica mondiale, a esprimere compiutamente i suoi progetti politici. Nessuno desidera un nuovo Vietnam. Vogliamo che i popoli di tutto il mondo, a cominciare da quello statunitenze, prendano coscienza della violenza inaudita che si sta perpretando ai danni d’un popolo sovrano e di una nazione civile alla quale si stanno negando sovranità, libertà e indipendenza e che viene minacciata sia nelle sue ricchezze, sia nella vita dei suoi figli. Esigiamo che questo scandalo inaudito cessi immediatamente. Esigiamo che l’ONU si assuma sul serio le sue responsabilità, superando l’ambiguo dettato della risoluzione 1511 che di fatto consente tacitamente agli Stati Uniti di continuare la loro occupazione: un’ambiguità che ha già dato i suoi frutti avvelenati, come si è visto nel giro di vite che Putin è stato autorizzato a dare in cecenia in cambio della sua rinunzia a usare il diritto di veto della Russia a quell’infelice risoluzione, e nella recrudescenza feroce del terrorismo ceceno che non si è fatta attendere, e che a sua volta ha fornito al governo russo l’alibi per una più dura repressione. Di questa spirale d’odio e di violenza, di questi palesi inganni è tessuta la politica internazionale di oggi, che vede giocare alle centrali terroiristiche il ruolo delle principali legittimatrici della politica di aggressione della superpotenza, in un disegno di obiettiova complicità ch’è indipensabile smascherare e spezzare.




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