Franco Cardini
Theseus recensioni
Pamsa, le verità dimenticate sul 25 aprile
 
Avvenire – lunedì 13 ottobre

Queste cose, dicevo, le sapevamo in molti: forse tutti. Tra i superstiti dell'altra parte, quella dei vinti, c'era chi della raccolta d'un raccapricciante martirologio aveva fatto la ragione della sua vita. Ricordo, soprattutto, Giorgio Pisanò. Ma su questi eventi c'è stata una colossale, generalizzata censura.

se n'era sempre parlato. Magari a mezza bocca, talvolta con rabbia, più spesso con rassegnazione. Specie in Lombardia, in Toscana e in Emilia, nel cosiddetto Triangolo della morte. Erano storie oscure e truci: di tradimento, di vendetta, di delazione, di violenze efferate. Le stragi cominciarono subito, dopo il "passaggio del fronte". In Toscana, nell'autunno del '44; tra Emilia e Lombardia dopo il 25 aprile del '45 e andarono avanti a lungo, molto addentro il '46. Gente presa prigioniera dopo essersi arresa su garanzia e ammazzata a freddo; gente prelevata a casa e sparita nel nulla; gente massacrata dinanzi ai familiari e spesso con loro, anche quando c'erano donne e bambini. Non tutti erano fascisti o loro complici: nella rabbia e nell'impunità del momento - un lungo, lunghissimo momento - molti fecero le loro vendette private, molti approfittarono della situazione per regolare vecchi conti che con la politica poco o nulla avevano a che fare. Parecchie tra le vittime di quei mesi meritavano forse castighi anche molto severi: ma non quelli, non in quel modo. Ad altri si sarebbero potute rimproverare solo la loro lunga militanza, la loro onesta coerenza; alcuni erano religiosi che si erano limitati ad esercitare la pietà e la carità, e lo avevano fatto nei confronti di chiunque avesse bisogno, a qualunque campo appartenesse; altri erano ragazzi, poco più che bambini, colpevoli di aver risposto in buona fede, con entusiasmo candido, a un appello lanciato nel nome della patria e dell'onore. Se avevano sbagliato, non era la morte - quella morte, troppo spesso infame e spietata - che meritavano.

Queste cose, dicevo, le sapevamo in molti: forse tutti. Tra i superstiti dell'altra parte, quella dei vinti, c'era chi della raccolta d'un raccapricciante martirologio aveva fatto la ragione della sua vita. Ricordo, soprattutto, Giorgio Pisanò. Ma su questi eventi c'è stata una colossale, generalizzata censura. Se dei crimini commessi negli ultimi mesi della guerra e subito all'indomani di essa si fosse parlato, la pacificazione nazionale - quella che ancor oggi, nonostante tutto e dopo più di mezzo secolo, stenta ancora ad affermarsi - sarebbe giunta prima e sarebbe stata più vera, più profonda. Perché, fra l'altro, quei crimini non avrebbero certo né obliterato, né cancellato quelli commessi dai nazifascisti. La ferocia isterica e il tentato linciaggio morale con i quali è stato accolto il recente libro di Giampaolo Pansa, «Il sangue dei vinti» (Sperling & Kupfer), è la prova gravissima che il passato non riesce a passare. Faccio il medievista da un quarantennio. Le atrocità dei guelfi e dei ghibellini, quelle raccontate magistralmente da Shakespeare nel «Giulietta e Romeo», mi sono purtroppo familiari. Le ritrovo ora nel libro di Pansa. Quel povero sangue versato contro umanità e giustizia non riscatta la causa sostenuta da quelle vittime, se davvero l'avevano sostenuta ed era una causa sbagliata. Ma umanità e giustizia vogliono che oggi sia anch'esso riconosciuto e placato: e che anche sulla sua memoria si costruisca infine la pacificazione vera tra gli italiani. Finché ciò non avverrà, resteremo divisi nel profondo. Ch'è invece quel che istericamente vogliono i Bocca, gli Aniasi e gli altri patetici nostalgici del tempo dell'odio.




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