Gennaro Grimolizzi
Intervista al Prof. Franco Cardini
gennaio 2003
 
 

Cultura e libertà hanno costituito e costituiscono un binomio fondamentale per l'attività di studio e ricerca del Prof. Franco Cardini. Egli in una recente autobiografia si definisce "un intellettuale disorganico".
Franco Cardini è ordinario di Storia Medievale nell' Università di Firenze, nell'Università della Sorbona a Parigi e a San Marino. Presiede l'associazione culturale Identità Europea ed è conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo anche per gli studi sui rapporti tra Cristianità e Islam.
Da Parigi lo studioso fiorentino ha rilasciato in esclusiva a la Nuova Basilicata questa intervista.

  • Prof. Cardini, proprio in questi giorni si è ritornato a parlare dei libri di storia in uso nelle scuole medie superiori. Sono faziosi? Forniscono agli studenti un quadro chiaro ed oggettivo degli avvenimenti?

    Francamente, ho l'impressione che la polemica sui libri di testo sia a sua volta in gran parte strumentale, dunque politica: in una parola essa stessa è faziosa. Mi spiego. Senza dubbio, fin dagli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, scuola, università (quanto meno nelle facoltà "umanistiche") e mondo intellettuale sono stati egemonizzati dalle sinistre in generale, da quella marx-gramsciana in special modo. Ciò è potuto accadere anche perché le altre forze politiche (a parte un'estrema destra ghettizzata ed emarginata, quindi anch'essa - per motivi differenti - impossibilitata ad agire) si sono largamente disinteressate di scuola, università e cultura, convinte com'erano di poter egemonizzare e controllare la società civile con altri e più efficaci mezzi. Oggi, le "destre" e i "centro-destra" possono anche, se vogliono, correre ai ripari. Tenendo però conto che scuola e cultura sono mutate e non hanno rispetto alla società civile lo stesso peso di prima. Entrando un po' più nel merito, ho l'impressione che le destre si siano fatte abbindolare non meno delle sinistre dallo pseudoproblema del cosiddetto "revisionismo"; e che nella Casa delle Libertà molti si accontenterebbero di libri di storia - ad esempio - che, lasciando inalterati contenuti ormai vecchi e non aggiornati, immettessero nei loro testi un po' meno di Lager e un po' più di Gulag. Dal canto mio, credo che il problema dei libri di testo si fondi essenzialmente su due punti:
    1) il loro carattere, che dà molto spazio al modulo espositivo-narrativo e poco a quello esegetico e problematico. Ciò conduce a una visione prevalentemente acritica e mnemonica dei fatti storici e mette in second'ordine il fatto che la storia è essenzialmente ricerca critica, riflessione metodologicamente condotta sul passato;
    2) il loro aggiornamento critico e scientifico, che è spesso insoddisfacente. In altri termini, non è solo la storia della Resistenza o del socialismo reale che si può insegnare e apprendere più come venti o trenta anni fa. Non si può nemmeno tornare o restare a una visione apologetico-retorica del Risorgimento (come piacerebbe invece ad alcuni della Casa delle libertà), o continuare a insegnare cose ridicole come la cosiddetta "piramide feudale" (mai esistita fino al tardo medioevo). Non si può nemmeno - in tempi di globalizzazione - continuare a insegnare una storia italocentrica, occidentocentrica o eurocentrica. Quasi un secolo fa , nel 1905, apparvero postume le Weltgeschichetliche Betrichtungen di Jacob Burckhardt, scomparso otto anni prima. Questo fondamentale testo, relativo alla possibilità di considerare la storia sotto il profilo universale, dovrebbe costituire - un secolo dopo - la base per un nuovo modo di insegnare la storia.

  • Come docente universitario, come giudica la protesta dei rettori italiani? In Italia si investe poco in ricerca e istruzione?

    Credo che la protesta dei rettori italiani sia in parte politicamente eteroguidata, ma in parte risenta di un effettivo disagio. Oggi stiamo assistendo in tutto l'occidente a un attacco contro il diritto pubblico all'istruzione. È un aspetto della privatizzazione: i ceti privilegiati si stanno forgiando i loro strumenti di istruzione e preparazione culturale, gli altri stanno scivolando verso la proletarizzazione culturale di massa. È il riflesso culturale della globalizzazione. La base degli aventi cultura (come degli aventi ricchezza) si riduce, la cultura (come la ricchezza) si concentra, scompare un "ceto medio" culturale, avanza l'ignoranza massificata. Tremonti riduce i fondi per l'istruzione perché sta al Governo per garantire un tale trend. Credo che Letizia Moratti non sia invece d'accordo e che il movimento dei rettori, apparenze a parte, non sia contro di lei.

  • Lei è stato consigliere della Rai. Ritiene che la televisione pubblica dia spazio adeguato alla cultura?

    La TV non può far nulla di serio per la cultura perché è un mezzo di eterodirezione di intrattenimento di massa, e la nostra opinione pubblica è dominata da un dilagante neoanalfabetismo di massa. Una direzione Rai-Tv che volesse andare in controtendenza perderebbe popolarità, quindi ascolto, quindi budgets. Solo una volontà "pedagogica" da parte delle nostre classi dirigenti potrebbe cambiare questa tendenza: assumendosi la responsabilità di una scelta impopolare, che farebbe calare audience e share. In una Rai-Tv, dominata dalla lottizzazione e dai budgets determinati dalla "raccolta pubblicitaria" (quindi dalla logica consumistica), ciò non è possibile.

  • Il libro da Lei curato La paura e l'arroganza (Editori Laterza), è in contrasto con La rabbia e l'orgoglio di Oriana Fallaci. Come definirebbe chi non è né filo né anti-americano?

    La paura e l'arroganza, simmetria di titoli a parte, non è opposto a La rabbia e l'orgoglio in quanto il pamphlet della signora Fallaci è uno sfogo violento che non contiene né idee storiche meditate né tesi politiche plausibili. È necessario respingere l'antiamericanismo come qualunque altra "ideologia" negativistica. Non vi è alcuna ragione per essere "antiamericani", più di quanto ve ne siano di essere antifrancesi, antitedeschi, antirussi, anticinesi, anticubani e antiraniani. Ma è necessario rendersi conto che l'attuale dirigenza USA persegue una politica di egemonia mondiale che ha radici profonde nella storia statunitense e che risale alla "dottrina Monroe" del 1823. Bisogna rendersi conto inoltre che attualmente la superpotenza USA ha accettato di farsi "braccio armato"della politica delle multinazionali, com'è apparso evidente dal vergognoso "veto" statunitense del dicembre 2002 all'accordo internazionale che avrebbe consentito ai paesi africani di produrre a basso costo farmaci anti-AIDS e salvare così milioni di vite umane. Gli USA si sono schierati a favore dei titolari dei brevetti e dei loro profitti, condannando così a morte milioni di poveri. È un crimine senza nome.

  • Secondo Lei ci sarà un attacco militare in Iraq e Osama Bin Laden verrà un giorno catturato?

    L'attacco militare degli USA e dei loro satelliti a danno dell'Iraq ci sarà: è già stato deciso da molti mesi, per ragioni che riguardano la situazione interna statunitense, la produzione delle armi di distruzione di massa (ottimo affare economico) e il controllo delle risorse energetiche mediorientali. Poi dovremo attenderci altri atti di guerra (contro lo Yemen?, il Nord-Corea?), perché la macchina avviata è inarrestabile salvo un'energica sterzata politica. Credo che l'Europa dovrebbe almeno attenersi a un principio, se non può e non vuole contrastare (e purtroppo non lo vuole) lo strapotere statunitense: partecipare alla guerra solo in caso di una decisione ONU, pur sapendo che anche le Nazioni Unite sono egemonizzate dagli USA. Così, però, si salverebbero almeno le apparenze. Seguire unilateralmente l'avventura americana fuori o contro le decisioni dell'ONU sarebbe appoggiare esplicitamente la fine del diritto internazionale e il ritorno alle leggi della jungla. Su Osama Bin Laden non posso emettere giudizi: troppi aspetti della sua personalità sono poco chiari. Potrebbe essere di tutto.

  • Lei è un grande conoscitore dell'area mediorientale e dei rapporti tra Cristianità e Islam. Intravede una soluzione per la questione palestinese?

    Non nell'attuale situazione. Non finché il mondo appoggerà unilateralmente gli oltranzisti israeliani; non finché non si avvieranno sul serio il processo di smantellamento degli insediamenti dei coloni e quello del ritorno parziale dei palestinesi nelle loro terre o di un adeguato risarcimento. Se le cose continueranno così, l'esperimento autonomistico palestinese non potrà che fallire e i palestinesi saranno messi dinanzi a questo dilemma: o accettare di diventare cittadini israeliani di serie B in quanto non-ebrei o emigrare.

  • Proprio dalla Palestina nascerebbe il terrorismo, al quale viene poi affiancato l'aggettivo islamico. Quale arma si può usare per sconfiggerlo?

    La soluzione almeno parziale del problema: consentire sul serio l'autonomia, smantellare i campi profughi che sono scuola di fanatismo, di abiezione e di crimine, render umana e dignitosa la vita dei palestinesi. Che sono però troppo numerosi per le aree geografiche assegnate loro: il che preoccupa Israele. In mancanza d'una soluzione equamente negoziata e sinceramente accettata da tutti, temo il peggio: il riavvicinarsi della "guerra asimmetrica" fra mondo ufficialmente inquadrato nell'ONU, egemonizzato dagli USA che proteggono unilateralmente Israele, ed "esercito invisibile" terroristico.

  • La sinistra si è appropriata il tema della globalizzazione. Come andrebbe visto ed analizzato questo fenomeno da destra?

    La Destra nasce da un equivoco mai adeguatamente chiarito. Esiste una Destra liberale e liberistica, che pospone i problemi della vivibilità del pianeta a quelli del primato dell'economia, della produzione, dei profitti, dei consumi. Esiste una Destra che direttamente o indirettamente affonda le sue radici nella tradizione cristiana antimaterialista, che rifiuta il primato dell'economia e che oggi si sente essenzialmente in sintonia con le posizioni del Santo Padre circa la giustizia e la pace nel mondo. Questa Destra, attualmente, si muove sul piano politico a rimorchio della precedente: se non si libera da tale subalternità, subirà gli esiti peggiori della globalizzazione e ne sarà corresponsabile.

  • Si può parlare distintamente di Europa e Occidente?

    I termini "Europa" e "Occidente" sono stati a lungo, storicamente parlando, sinonimi. Ma nel pensiero politico statunitense dell'Ottocento è nato un uso di "Occidente" contrapposto all'Europa. Tale tendenza è ancora viva negli USA, per quanto alcuni neoconservatori statunitensi tendano a nascondere tale realtà ostentando "europeicità" che forse essi avvertono sinceramente, ma che non ha alcun membro politico. Una futura affermazione politica europea, se ci sarà, si svilupperà non "contro", ma nonostante l'Occidente egemonizzato dagli USA. L'Europa del futuro, se vorrà essere libera dall'ipoteca statunitense, dovrà guardare all'Europa e al Mediterraneo. Gli USA auspicano una "Grande Europa" nella quale l'Atlantico si restringa, una Europa-"Occidente" egemonizzata da loro. Credo si debba puntare a una Europa-Continente, amica degli USA (e di chiunque altro), ma cerniera fra Occidente ricco e popoli poveri.

  • Quali iniziative ed attività promuove Identità Europea, l'associazione culturale internazionale da Lei presieduta?

    Convegni, pubblicazioni, scambio di informazioni via web: tutto quello che può servire alla creazione di una coscienza identitaria europea ispirata ai valori della solidarietà sociale e all'affermazione di un sentimento comunitario che ci salvi dal pericolo corso oggi dalla civiltà cosiddetta "occidentale": l'individualismo, del quale il turbocapitalismo selvaggio sostenuto dalle multinazionali è la perversione sul piano planetario. Identità Europea vuole tre cose: 1) la formazione di una vera e propria Unione Europea a carattere federale o confederale (su ciò il discorso istituzionale resta aperto), dotata di autentica indipendenza e di sicura autorità sovrana politica e militare (l'Europa di oggi è un'espressione prevalentemente economica); 2) giustizia sociale e dignità umana per tutti i popoli della terra, affamati dallo sfruttamento delle multinazionali; 3) istituzioni giuridiche internazionali forti e indipendenti dal controllo di superpotenze che regolino i rapporti fra gli stati, le unioni sovrastatali e i gruppi di pressione economico-finanziaria e produttiva a carattere internazionale.

 




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