Lucia Menichelli
La scuola, la protesta, la retorica.
 
da il "Roma", 22-12-2001

I professori non hanno intanto perso soltanto la loro importanza, il loro degno stipendio e la loro autorità, ma la loro stessa identità. Su cosa si devono formare?
Quali dev'essere il loro sapere e che cosa devono insegnare?

Sono molti i docenti, i presidi, i genitori e anche gli alunni che si lamentano e non condividono le agitazioni studentesche che caratterizzano questo momento dell'anno scolastico.
Vuoi perché occupazioni, autogestioni, assemblee permanenti sono proteste illegali; vuoi perché si finisce sempre in un grande caos autorizzato; vuoi perché tutto fanno, tranne che rendere maggiormente consapevoli gli studenti delle problematiche del mondo della scuola. Ma nessuno è in grado di opporsi a tutto ciò!
Il problema, beninteso, non si pone solo quest'anno, né si pensi che sia stato scatenato dalla riforma Moratti: ogni anno, infatti, a dicembre si svelano i gravissimi problemi della scuola italiana e sorge impellente il desiderio di ribellione.

Ma non me la prendo con gli studenti, che fingono indignazione e sconforto ogni volta che si pongono sul tappeto determinate questioni - ma solo determinate questioni, beninteso - e non esitano a mascherare la loro massima aspirazione, cioè anticipare le vacanze natalizie, manifestando un generico quanto improduttivo "dissenso" verso l'istituzione scolastica, che quasi sempre significa solo ed esclusivamente ostacolare il normale svolgimento delle lezioni (ma quanti, tra l'altro, sono veramente consapevoli dei reali problemi della scuola italiana, e quanti sono veramente d'accordo con queste agitazioni e non preferirebbero, invece, continuare a fare lezione normalmente, ma si adeguano solo per conformismo).

Non me la prendo con le famiglie, che, invece di intervenire a bloccare questa situazione e impedire che i loro figli perdano tempo (anche se questi ultimi dicono di impegnarsi per un'azione "civica e democratica"), si limitano, nella migliore delle ipotesi, a una generica lamentela verso la scuola, accantonando del tutto l'idea di accordarsi tra loro, perché dimenticano che anche loro fanno parte, con dei rappresentanti regolarmente eletti, dei Consigli di classe e d'istituto.

Non me la prendo con qualcuno dei miei colleghi, che allarga le braccia (come me, d'altronde.), del tutto neutralizzato da questa forza della natura, qual è la protesta studentesca; o che plaude in silenzio a questa protesta, perché è convinto che realmente porti a qualcosa, o magari perché
diventa una scusa per stancarsi di meno facendo lezione.

Non me la prendo nemmeno con i Presidi, che di fatto non provano ad impedire che questa pantomima si riproponga ogni anno, con lo stesso esordio, lo stesso andamento e lo stesso esito.
Se la massima aspirazione degli studenti è quella di studiare meno possibile, quella dei presidi è di farsi notare meno possibile; è per questo che quasi nessuno si decide a denunciare le manifestazioni illegali: sarebbe un atteggiamento troppo "autoritario", "dittatoriale", sicuramente criticato e demonizzato mica solo dagli alunni, ma certo anche da qualche genitore e docente.

Insomma, non me la prendo con gli effetti, ma con le cause. E le cause sono remote, ma certo sempre attuali. Si deve risalire molto addietro nel tempo, quando si cominciarono a diffondere quelle nuove idee sull'educazione, che si iscrivono in un progetto culturale tendente sostanzialmente a rifiutare la tradizione, per costruire finalmente un "uomo nuovo".
Queste idee nei secoli, negli anni si sono progressivamente radicate nella società e nella cultura, al punto che ormai fanno parte della mentalità dell'"uomo della strada".
Sono entrate così a pieno a titolo anche nel mondo della scuola, modificando profondamente sia il modo di educare che i contenuti dell'educazione.
Se oggi, infatti, si permette che gli alunni possano organizzare qualsiasi cosa, purché la chiamino protesta, è perché da decenni, ormai, l'idea cardine della nuova didattica è la "centralità dell'alunno", che deve, con ogni mezzo, in qualsiasi modo e a ogni costo sprigionare la propria personalità.
E ciò si deve proprio alla suddetta volontà di costruire un "mondo nuovo", fatto di "uomini nuovi", pretesamente non condizionati, cioè, da alcun "pregiudizio", il che vuol dire da ogni sapere dato.
Da ciò è stato breve anche il passo verso una perdita di importanza e, quindi, di autorità (nonché di una degna retribuzione.!) della figura del professore: già, perché, in una scuola libera dai saperi tradizionali, in cui tutto è rimesso in discussione, cosa può pretendere di insegnare un professore?
Come può credersi depositario di qualche contenuto da trasmettere, se i contenuti devono essere sempre scoperti, sperimentati e passati a un vaglio critico? E allora, detto questo, cos'è ora la scuola? Si può immaginare che sia "tutto e niente"?
Purtroppo mi sento di rispondere di si.

Tanto è vero che inesorabilmente poi accade che a scuola sia lecito parlare di tutto, e di niente: i contenuti diventano indifferenti, possono essere questi o quelli, a volontà.
E i professori non hanno intanto perso soltanto la loro importanza, il loro degno stipendio e la loro autorità, ma la loro stessa identità. Su cosa si devono formare?
Quali dev'essere il loro sapere e che cosa devono insegnare? I saperi tradizionali o quello su cui gli alunni vogliono "dialogare", cioè, magari, il "Grande fratello", la musica rock, i balli latino-americani, o un bel sermone no global? E se a un professore tutto ciò non piace o non interessa?
Sarà condannato ad essere giudicato un cattivo docente?
Non è un caso che la tendenza più attuale per la formazione del corpo docente privilegi su ogni altra cosa la didattica, sempre finalizzata ad esaltare la centralità del discente e non più i contenuti di base che gli si devono insegnare: ma questo potrà bastare?

Concludo con il pensiero dello studioso Estanislao Cantero Nunez: "L'immaginazione e l'intuizione presuppongono delle idee, delle conoscenze. Senza di esse la "creatività" è ridotta a fantasia irrealizzabile e, una volta messa in pratica, a fallimento e distruzione. Ma per avere le idee che la rendono possibile ci vuole una disciplina, la disciplina imposta dalla verità, alla quale deve assoggettarsi l'opera creatrice".




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