Card. Norberto Rivera Carrera Arcivescovo di Città del Messico
Globalizzazione e nuove povertà
Studi Cattolici Milano
n° 490 - Dicembre 2001
   

Vorrei porre qualche premessa al tema che tratterò in queste pagine. In primo luogo, sia chiaro che non sono un uomo politico, né un economista, né un esperto dei "grandi sistemi". Sono innanzitutto un vescovo, un pastore di una grande porzione dei popolo di Dio in una delle più grandi megalopoli contemporanee, Città del Messico, con più di venti milioni di abitanti. Che cosa sarebbe di me se non mi affidassi veramente, alla Provvidenza e alla grazia di Dio, se non contassi sulla intercessione di Nostra Signora di Guadalupe, se non avessi tanti devoti e generosi collaboratori, se non fossi grato, fiero e al tempo stesso responsabile della straordinaria ricchezza umana e cristiana del mio popolo.

Il fatto di essere pastore in questa megalopoli costituisce però una buona preparazione per le considerazioni che svilupperò, giacché nel Messico e nella sua capitale si rendono evidenti le contraddizioni che il processo di globalizzazione porta con sé. Sono come uno spaccato delle sue potenzialità e fragilità. li Messico condivide con tutti gli altri Paesi latino - americani una storia segnata da gravi disuguaglianze e povertà, ma forse più che tutti gli altri Paesi latino - americani vive lo slancio, le trasformazioni e le lacerazioni dell'intenso suo inserimento nel processo di globalizzazione tramite la partecipazione come socio (insieme agli Stati Uniti e al Canada) all'arca di libero commercio che unisce strettamente le economie di questi Paesi (Nafta). Negli ultimi anni il Messico è cresciuto economicamente con un forte ritmo, del quattro - cinque per cento annuo.
È diventato il decimo Paese per volume di esportazioni. Nel medesimo tempo si trova ad affrontare la povertà crescente di trenta milioni di messicani, soprattutto delle masse contadine e indigene. Sono all'incirca quattordici milioni gli ispani di origine messicana che risiedono negli Stati Uniti, qui indotti da un continuo flusso migratorio, legale e illegale. Non è facile essere un Paese di lunghissima frontiera con la prima e unica potenza globale. Nel mio Paese è ben noto il detto popolare: "Povero Messico, cosi lontano da Dio e cosi vicino agli Stati Uniti". In realtà non è vero che il Messico sia lontano da Dio, cosi come la vicinanza degli Stati Uniti è una sfida che può apportare grandi vantaggi.

La sollecitudine cattolica

Nel trattare il temoa della globalizzazione e delle nuove povertà sono inoltre incoraggiato dallo stesso Santo Padre, il,quale ha scritto riflessioni importanti al riguardo nell'Esortazione apostolica Ecclesia in America (1998), che raccoglie le raccornandazioni dei Sinodo dei vescovi di tutte le Americhe. Non posso non ricordare che il Santo Padre depose questo importante documento ai piedi della Madonna di Guadalupe, nel suo santuario a Città dei Messico, nel quinto viaggio apostolico nel nostro Paese. Non invano, Ella è patrona dell'intero continente americano e la sua solenne festività è stata recenteniente inserita nel calendario della Chiesa universale il 12 dicembre. Non mancano negli ultimi anni altri e incisivi interventi di Giovanni Paolo Il in merito alla globalizzazione. Inoltre, il Consiglio episcopale latino - americano (Celam), l'organisino di collaborazione collegiale delle Conferenze episcopali dei Paesi latinoamericani, sta già redigendo la quarta stesura di un documento che avrà come titolo: "Le sfide della giobalizzazione alla nuova evangelizzazione in Arnerica Latina". Infine, sono vescovo della Chiesa cattolica che è presente in rnezzo a tutti i popoli e nazioni, che è protagonista globale e detiene responsabilità globali. Ciò deriva dalla sua stessa natura e inissione di "sacraniento dell'unità del genere umano", come la Chiesa viene definita nella costituzione Lumen gentium dei Concilio Vaticano li. "Cattolico" significa etimologicamente apertura a tutto e a tutti nella carità; vuoi dire essere portatori di un messaggio di salvezza per ogni uomo. L'intrinseca cattolicità della Chiesa è vissuta nelle due indissociabili dimensioni di soggetto universale e di concrete sue localizzazioni - le Chiese locali - , cosi che essa riesce a evitare i cortocircuiti tra il cosmopolitisnio tecnocratico astratto e il particolarismo frammentario. Ogni vescovo porta con sé la responsabilità di questa sollecitudine cattolica, facendo parte dei Collegio universale dei vescovi presieduto dal Papa. Come si vede, vi sono buoni titoli e motivi per parlare della globalizzazione.

Interdipendenza accelerata.

La globalizzazione è certamente un segno dei nostri tempi. È una parola che si sarebbe cercata invano nei più raccomandati dizionari di qualche anno fa. Essa ha fato irruzione nel nostro linguaggio, si è imposta fino a diventare onnipresente nel suo uso e abuso, non lascia indifferenti, suscitando subiot atteggiamenti contrastanti, spesso pregiudizievoli, di entusiasmo o di rifiuto. Tutto cioò è segno che la parola corrisponde a una realtà. In termini molto generici possiamo per il momento dire che la globalizzazione fa riferimento al fatto, al processo, alla tendenza di un'accresciuta e accelerata interdipendenza economica, sociale, politica, culturale e religiosa a livello del mondo intero; interdipendenza intessuta di scambi, di istituzioni e di questioni di portata mondiale, tali da coinvolgere tutti i popoli e nazioni, tutta la famiglia umana. Il mercato globale non è d'altronde una realtà che comincia alle nostre frontiere, ma nelle nostre case. Renato Ruggiero, già Direttore dell'Organizzazione mondiale del Commercio (Wto), offriva, con qualche ironia e tanto realismo, l'esempio seguente: Ci svegliamo al mattino col suono di una radio di marca giapponese prodotta in Malesia. Il nostro vestito è fatto probabilmente con lana australiana e il caffè che beviamo, mentre guardiamo qualche programma della Cnn alla televisione, è verosimilmente colonibiano. Quale che sia la nostra auto, una parte grandissima dei componenti è prodotta in diversi Paesi dei mondo e, se è una "500", essa è stata montata in Polonia. Con essa andiamo in ufficio e, se lavoriamo in una multinazionale, è probabile che il nostro quartiere generale si trovi in un diverso continente, mentre i nostri strurnenti di lavoro provengono, oltre che da Ivrea, dalla Corea dei Sud, da Taiwan, dagli Stati Uniti o da altri Paesi europei (...). Sempre più facciamo colazione in un ristorante, la cui cucina trova origine in continenti lontani, e non è escluso che finiamo la giornata in una sauna finlandese con una spremuta di arance provenienti dal Brasile". Questa è, e sempre di più sarà, la nostra realtà ordinaria, quotidiana.
In verità, non si tratta di una realtà cosi nuova. Condivido il giudizio di molti autori che fanno risalire le origini della globalizzazione all'alba della modernità, e ne distinguono tre fasi di intensificazione e accelerazione. Il primo salto qualitativo della globalizzazione o mondializzazione avviene verso la fine dei XV secolo e nei prirni decenni del XVI, ossia quando hanno inizio l'espansione europea e la scoperta (lei nuovi mondi. Durante lunghi niillenni alcune grandi civiltà - in mezzo a oceani di dispersione neolitica - mantennero tra di loro tenui fili di contatti o persino si svilupparono ignorandosi completamiente (come le diverse civiltà euroasiatiche e le civiltà del grande continente americano). I navigatori portoghiesi, per parte loro, mediante l'intero periplo dell'Africa occidentale, arrivano nell'oceano Indiano e alle grandi civiltà dell'Oriente di cui Marco Polo aveva tempo prima raccontato meraviglie. A sua volta Cristoforo Colombo, e nella scia tanti naviganti spagnoli, si inbattono nella realtà sorprendente della Terra incognita, come venne chiamato sulle prime carte geografiche quel "nuovo mondo" tra i due grandi abissi occanici. Per la prima volta nella storia l'Ecumène intera appare allo sguardo del'uomo. Si tratta di un gigantesco salto di unificazione della storia umana. Comincia l'espansione universale dell'Europa, che si concluderà secoli dopo nell'emergere del mondo bipolare di Jalta. È l'inizio della storia universale.

Industrie & comunicazioni

La seconda fase della globalizzazione si attua approssimativamente tra l'ultirno quarto del XIX secolo e la prinia guerra mondiale. É l'epoca di diffusione della "rivoluzione industriale" e della forniazione dei mercato niondiale del capitalismo. Come l'età delle grandi scoperte geografiche fu resa possibile per le notevoli innovazioni apportate nell'arte della navigazione, cosi anche questa fase di mondializzazione divenne possibile per i grandissimi progressi nei trasporti e nelle comunicazioni (che provocarono, tra l'altro, l'emigrazione di oltre sessanta milioni di europei). Basta leggere il Manifesto comunista di Karl Marx, scritto nel 1848, nel quale elogio dell'epopea della borghesia, capace di superare i limiti e gli orizzonti stretti del villaggio, dell'artigianato e delle corporazioni, e di promuovere lo sviluppo delle forze produttive a livello mondiale.
La terza fase della globalizzazione o mondializzazione è quella che è in pieno svolgiemnto dagli ultimi decenni del XX secolo.
Due sono i fattori chiave per capire la novità della sua accelerazione, intesificazione e diffusione: la tecnologia rende possibile la globalizzazione, mentre la liberazzazione la diffonde ovunque. Il primo fattore è infatti quello della rivoluzione delle comunicazioni che stiamo vivendo.
La spinta più rilevante delle innovazioni tecnologiche del nostro tempo si verifa nel campo delle comunicazioni. Lo sviluppo delle reti televisive, anche via satellite e via cavo, combinate in interazione con la rete telefonica e con quella dei comoputer (e di internet in particolare), ha infranto le notre tradizionali categorie di tempo e di spazio: Segni, immagini, suoni e parole si trasmettono ovunque nel mondo senza conoscere frontiere e in tempo istantaneo. Siamo in piena civiltà audiovisiva. Le borse-valori possono funzionare ventiquattr'ore al giorno e vi possiamo accedere da casa premendo alcuni pulsanti del computer. È divenuto possibile un flusso di capitali, merci e persone, informazioni, pubblicità, mode innovazioni tecnologiche da un campo all'altro del mondo, con un'accelerazione stupefacente. Sono tempi di massicce migrazioni globali. Ma anche le reti della delinquenza, del narcotraffico e del terrorismo diventano "globali". Persino i moviemnti "anti-global" ben usufruiscono delle possibilità offerte dalla globalizzazione per configurarsi come movimenti-rete e per dare risonanza alle proteste.
Orbene, questa rivoluzione nelle comunicazioni si combina con fortissiem spinte di liberalizzazione politica, culturale ed economica, soprattutto nei flussi commerciali e finanziari. Il crollo dei regimi totalitari del socialismo reale e la crisi del welfare state hanno profondamente scosso la pretesa dello Stato a considerarsi il responsabile primario ed esclusivo della soddisfazione delle domande e delle aspettative sociali , quasi che lo Stato fosse il costruttore della società. Le prossi politiche e le strategie economiche, che dalla prima guerra mondiale sono state segnate da un forte interventismo dello Stato, lasciando il passo al ritorno del liberalismo vingente sulle rovine del totalitarismo e dello statalismo. Cadono allora le barriere protezionistiche, cosi come erano caduti i controlli valutari, e si entra in unba dinamica di crescente deregulation, di "privatizzazioni" a catena, di ristrutturazioni e dislocazioni di imprese, di fusioni di gruppi multinazionali; si tentano diverse vie di snellimento e di riforma dello Stato; si promuovono la libera iniziativa e l'imprenditorialità. Inoltre, si allargano le aree di libero commercio a livello di macro-regioni e si negozia la più ampia liberalizzazione internazionale nell'ambito dell'Organizzazione mondiale del Commercio. In questo senso possiamo parlare delle globalizzazione come di un dinamismo di cresente interdipendenza e trans-nazionalizzazione dell'economia mondiale.



Mondializzazione anche culturale

Preferisco parlare di globalizzazione e mondializzazione, come sinonimi, anche se globalizzazione rinvia soprattutto all'economia, mentre mondializzazione meglio si applica all'interdipendenza crescente sul piano della politica, della società, della cultura e della religione. Segnalo brevemente come a un nuovo ordine economico mondiale corrisponda una mondializzazione politica. Gli Stati nazionali continuano a essere i soggetti principali della vita internazionale. La disgregazione dell'Unione Sovietica e della Iugoslavia è legata anche al processo traumatico provocato dalle rivendicazionio delle nazionalità oppresse. Mai come oggi sono stati cosi numerosi gli Stati nazionali rappresentati nelle Nazioni Unite. Ma sebbene gli Stati siano spesso troppo grandi per rappresentare e soddisfare radicate modalità di identificazione culturale e regionale, essi si dimostrano troppo piccoli per gli odierni tempi della globalizzazione economica. Henry Kissinger afferma che siamo entrati nella fase degli Stati continentali, o Stati continenti, cioè gli Stati uniti, L'unione Sovietica (quando esisteva come tale), la Cina e l'India, costituitisi come mega-ercati in età di intensa competitività internazionale. Gli Stati-nazione isolati rischiano la marginalità. In questi ltimi dieci ani si sono altresi moltiplicate a livello internazionale le Organizzazioni non governative (ong). Si è ancora alla ricerca di un'architettura politica internazionale, di una governabilità mondiale, essendo questione più urgente che mai quella della riforma delle Nazioni Unite.
Vi è anche una mondializzazione culturale evidente. Le grandi concentrazioni tecnologico-finanziarie a livello mediatico tendono a veicolare una cultura mondiale; e poiché gli Stati Uniti sonon la sola potenza globale del nostro tempo, e vantano un potere mediatico tendono a veicolare una cultura mondiale; e poiché gli Stati Uniti sono la sola potenza globale del nostro tempo, e vantano un potere mediatico di supermazia, la cultura americana tende a essere sempre più cultura mondiale. Si cono autori che parlano della configurazione di un MacWorld a modo di parco di divertimenti, di informazioni e di commerci a livello mondiale, la cui tendenza alla ornologazione - secondo un paradigma neoliberale di modernizzazione - provoca reazione, resistenza ed esaltazione delle identità etniche, nazionali, cuiturali o religiose, spesso indotte al fanatismo e alla violenza. Altro segno di questa mondializzazione è l'importanza critica che ha assunto il dibattito sull'incontro-scontro di civiltà. Dopo gli orrendi e vili attentati terroristici dell'11 settembre, la discussione sul libro di Samuel Huntington ha acquisito nuova e cruciale attualità. Inoltre, la diffusione sempre più ampia dei computer e di internet rafforzeranno ancor più questa partecipazione ai settori della cultura e dell'informazione. Si registra infine una mondializzazione religiosa. Emergono le grande tradizioni religiose del mondo. Si chiude la lunga fase della secolarizzazione. Il relativismo culturale da cadute nichilistiche che serpeggia riell'occidente tecnocratico e consurnista denota una gigantesca crisi culturale. Dappertutto si diffondono nuove domande di senso, sete di religione, le più varie ricerche spirituali. C'è un risorgere delle più diverse offerte di religiosità esoterica, neognostica, occultista e sincretista, tali da riempire le vetrine del supermercato globale per rispondere all'ansia diffusa di afferrarsi a un qualcosa eli solido in mezzo alla confusione generale. Si sviluppano fondamentalismi fanatici e sètte di ogni tipo. É in questo contesto che la cattolicità della Chiesa si dispiega. Un cardinale americano ha scritto sul "papato globale". Viene posta l'esigenza fondamentale di rendere testimonianza dell'unicità, universalità e sacramentalità della salvezza apportata da Cristo.
Qual è il bilancio che si può attualmente fare della globalizzazione in corso? In prinio luogo, rni sembra fuorviante la reazione di lui semiplice rifiuto della globalizzazione. Non c'è senso neill'atteggiamento anti - global. La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. La globalizzazione non è il male in sé. Non è il frutto di chi sa quale cospirazione. É un fatto strutturale, contro il quale nulla valgono l'esorcizzazione rabbiosa, il rifiuto e la contrapposizione globale, la denuncia moralistica, e meno ancora la violenza nichilista e anarchica. Trattandosi di un processo sorretto dalla rivoluzione delle comunicazioni è inevitabile che ovunque aumentino i più diversi livelli d'interdipendenza mondiale. E ciò non è affatto un male. Non è male che, grazie ai progressi della scienza e della tecnica, si creino migliori e più numerose possibilità di comunicazione in seno alla famiglia umana.

Elementi per un bilancio

Consideriamo in primo luogo alcuni pregi e vantaggi della globalizzazione. La giobalizzazione ha ampliato gli spazi di libertà. Ha travolto i muri, le frontiere politiche e ideologiche a difesa dei totalitarismo e di molte dittature. C'è nel mondo un numero più grande che mai di Paesi con regimi di democrazia liberale (più o meno riuscita). Si registra un allargamento della libertà d'iniziativa economica e imprenditoriale, di contro alle degenerazioni burocratiche, clientelari e assistenziali delle amministrazioni pubbliche. La liberalizzazione e intensificazione dei flussi commerciali hanno favorito la crescita economica mondiale. I Paesi che hanno saputo inserirsi efficacemente nel mercato globale hanno partecipato con profitto a questa crescita. Tra il 1980 e il 1994, i quindici Paesi più dinamici nella partecipazione al sistema commerciale mondiale sono stati tutti Paesi in via di sviluppo. L'accelerata modernizzazione tecnologica e industriale dei "dragoni" e delle "tigri" d'Asia, l'aumento impressionante delle esportazioni e la loro crescita economica (nonostante il crollo delle banche e delle valute nel 1997 - 98) hanno inserito nello sviluppo milioni di esseri umani. Il fatto che la quota dei Paesi emergenti nella produzione mondiale passi dal 25% del decennio '60 al 48% previsto per il 2005, e la partecipazione nelle esportazioni di manufatti a livello mondiale sia cresciuta dal 5% del 1973 a quasi il 25% degli anni '90, indica che quei Paesi non sono necessariamente votati all'arretratezza e alla marginalità. Si aggiunga ancora che, nonostante le grandi concentrazioni di potere mediatico, esistono maggiori possibilità di libero accesso all'informazione. I livelli mondiali di alfabetismo e di scolarità, cosi come la speranza inedia di vita, hanno registrato forti progressi negli ultimi venti anni. Anche i gravi problemi dell'umanità e le grandi cause per la dignità dell'uomo, la libertà e la solidarietà trovano un'eco e una dimensione globali.

Fine dell'euforia ottimistica

Tutto bene, dunque? Purtroppo, non è cosi. Già non rimangono quasi tracce di quella euforia illusoriamente ottimistica che animava George Bush senior quando, poco dopo il crollo dei regimi comunisti, annunciava un "nuovo ordine internazionale" di pace, prosperità, libertà e democrazia per tutti. Che cosa resta della "fine della storia", proclamata nell'omonimo libro di Francis Fukujama, il quale non intravedeva alcuna altenativa sistematica e praticabile all'econornia di mercato e alla democrazia liberale, il cui indissociabile sviluppo costituirebbe la linea necessaria del progresso umano? La rinascita del liberalismo vittorioso suscitava allora la riproposta dell'utopia dei mercato autoregolatore, cioè l'opera della "mano invisibile" dei mercato tramite la legge dell'offerta e della domanda, che porterebbe ineluttabilmente ad accrescere insieme il bene individuale e il bene comune, il bene di ogni Paese e la prosperità e il progresso dei popoli dei mondo. Se ieri è crollata l'utopia dei comunismo - i paradisi promessi si sono rivelati reali inferni - , comincia oggi a mostrare tutti i suoi limiti e le congenite contraddizioni l'utopia del mercato autoregolatore. Forse gli attentati terroristici dell'11 settembre scorso pongono in maggiore evidenza l'apertura di una nuova fase congiunturale. Un'invadente e totalizzante economicismo, cioè l'assolutizzazione dell'economia, come se il mondo fosse retto solo da meccanismi e forze di concorrenza, vede l'irruzione della politica e della geopolitica, un più deciso e necessario intervento dello Stato nell'economia, l'attenta considerazione della cultura, delle civiltà, delle religioni.

Alla crescita economica dell'ultimo decennio - che negli Stati Uniti conobbe uno straordinario ciclo virtuoso, il più lungo di tutta la loro storia, operando come locomotiva della crescita mondiale - non ha corrisposto una più equa distribuzione dei progressi tecnologici e dei frutti del benessere mondiale, Non ha funzionato la teoria dello diffusione della ricchezza prodotta e accumulata in un prima fase, la quale, in un momento successivo, avrebbe arrecato beneficio a più vasti strati di popolazione. La tesi neoliberale del graduale riequilibrio economico - sociale provocato dall'afflusso di capitali nei Paesi e nelle regioni di maggiori vantaggi comparativi, non sembra avere funzionato. Lo rilevava già il Papa nell'Esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in America: "Se la globalizzazione si sviluppa secondo le sole leggi del mercato applicate secondo gli interessi dei potenti, porta conseguenze negative". Certo, secondo le statistiche delle Nazioni Unite il numero dei poveri si è assai ridotto, sebbene ne restino sempre molte centinaia di milioni. In Cina la povertà si è dimezzata da quando essa ha accolto elementi di economia di mercato. Probabiliriente tutti (mediamente) stanno un poco meglio, ma chi stava già niolto bene ha visto ancora aumentare enormemiente il proprio benessere. Le disuguaglianze sono cresciute all'interno dei Paesi e a livello internazionale. C'è un divario sempre più largo tra quanti partecipano all'economia e alla cultura "globalizzate" e coloro che non riescono ad accedere al mercato, che rimangono sempre più ai margini della società, dell'economia e della cultura, che vivono nella povertà assoluta. Questa disuguaglianza è cresciuta negli ultimi dieci anni anche negli Stati Uniti, nonostante la loro sorprendente crescita economica e la creazione di milioni di posti di lavoro.I Paesi latino - americani, in generale, fanno parte della "classe media" delle nazioni nel concerto internazionale, ma le disuguaglianze all'interno sono le più grandi a livello mondiale.



Globalizzazione della solidarietà

Il fitto più grave è l'ampliarsi dei fossato che separa sempre più le società tecnocratiche e consumistiche dell'ipersviluppo - sebbene abbiano anch'esse grossi problerni interni di povertà - e i paesi assoggettati alla marginalità miserabile e violenta. La parte del reddito mondiale detenuto dal 20%, più povero del mondo è passata dal 2,3% all'1,4%, tra il 1960 e il 1995, mentre la parte del 20% più ricco è passata dal 70% all'85%. Impressiona constatare che il patrimonio dei tre uomini più ricchi risulta oggi più elevato del Prodotto interno lordo complessivo dei quarantotto paesi meno sviluppati. La tragica marginalità sofferta attualmente dall'Africa, senza che ci sia un sussulto di fattiva solidarietà nella coscienza mondiale, è questione di irresponsabilità scandalosa. Questioni fondamentali di quella che il Papa chiama "globalizzazione della solidarietà" non sono state ancora affrontate con la volontà politica, l'impegno culturale ed etico e la condivisione economica da esse richieste. Il debito esterno è una tremenda ipoteca che pesa sulle possibilità di sviluppo di interi popoli e nazioni. Non è possibile devolvere tutto o gran parte di ciò che si ricava con le esportazioni per pagare non già i capitali prestati, ma semplicemente gli interessi. La questione è stata assunta e gestita irresponsabilmente dai ceti politici locali, col risultato di ledere e rendere peggiori le condizioni di vita di vasti strati popolari, che soffrono la continua fiduzione della spesa pubblica nei settori igienicosanitario, scolastico e dell'assistenza ai poveri. Noti si può pretendere che i Paesi poveri o in difficoltà facciano cadere tutte le barriere doganali per favorire il libero commercio, mentre i Paesi altamente sviluppati le mantengono elevate, talvolta in modo assurdo e iniquo, come nel caso della "politica agricola europea". I Paesi in via di sviluppo hanno bisogno di certi livelli di protezione per la crescita delle loro produzioni e industrie strategiche, per favorire la possibilità di portarle a livello competitivo sul mercato internazionale. Non possono continuare a essere solo produttori ed esportatori di prodotti agricoli e minerali, in uno scambio ineguale con i Paesi che esportano soprattutto macchine e beni di capitale. I nostri Paesi hanno bisogno urgente di accedere ai grandi mercati dei Paesi ricchi: abbattere le loro barriere protezionistiche sarebbe molto più importante che l'assai misera cooperazione internazionale. I Paesi poveri o in via di sviluppo hanno beneficiato del maggiore afflusso di capitali esteri disponibili durante il decennio degli anni '90; ne continuano ad avere bisogno per la loro crescita e nodernizzazione econornica. Ciò che importa, però, è che siano soprattutto capitali di investimento, che portino innovazioni tecnologiche, collaborino nell'accrescere la ricchezza e aumentino l'occupazione, piuttosto che capitali rondine, a breve scadenza, di natura speculativa, sempre pronti a volare verso altri cieli finanziari appena si intravede qualche difficoltà o un luogo di più alto rendimento immenediato. L'alleanza mondiale che si è formata per isolare e colpire le reti del terrorismo - compito certamente urgente e necessario contro la barbarie di una violenza disumana deve essere accompagnata da un serio ripensarnento sulle lacerazioni, gli squilibri e le situazioni esplosive del mondo contemporaneo per affrontarli cori un rinnovato contratto di solidarietà internazionale, aprendo cosi quella che il Papa, nel recentissimo discorso al nuovo amibasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede, ha chiamato una "nuova èra di cooperazione" per la costruzione della pace, della giustizia e della solidarietà.
Chi legge conosce forse le statistiche fornite dal "Rapporto sullo sviluppo umano 2001 " delle Nazioni Unite, riferite a dati dei 1993. Sono drammaticamente eloquenti: mentre il 25 % della popolazione della terra possiede il 75% dei reddito mondiale, 2.400 milioni di persone non possono fruire dei seirvizi sanitari più elementari e circa 1.000 mihoni non hanno accesso all'acqua potabile. E ancora: 1.200 milioni di persone vivono con meno di un dollaro al giorno e 2.800 milioni di persone con meno di due dollari al giorno. Sono 30.000 le morti giornaliere di bambini con di meno di cinque anni, che ben avrebbero potuto essere salvati. Le statistiche, però, sono nudi numeri, simboli dietro ai quali vi sono i volti dei poveri, la fatica degli oppressi, l'angoscia delle madri con i figli morenti in braccio, il vagabondare dei disoccupati e dei mendicanti, la sopravvivenza delle moltitudini nelle periferie miserabili delle niegalopoli e nelle reti del lavoro informale, l'orrore di popolazioni mutilate dalle violenze, i campi senza fine dei profughi e dei rifugiati politici, le epidemie di massa: Le situazioni enderniche di arretratezza e di povertà approfondiscono ancor più l'enorme fossato che separa quelle folle da una vita degna di esseri umani.

Colonialismi & emarginazioni

Nell'odierno processo di globalizzazione la formazione culturale e professionale, nonché le capacità tecniche, sono divenute risorse fondamentali per il mondo dell'econornia e del lavoro. La tecnologia è il fattore più propulsivo della crescita economica. Non esistono dunque investimenti più lungimiranti, capitali più redditizi, ricchezza più valevole di quelli derivanti da un'autentica opera educativa, dall'universale alfabetizzazione, da sempre più alti livelli, qualità e rendimenti di scolarità, dalla preparazione scientifica e tecnica, all'interno di una ipotesi di "senso" e di valori in grado di affrontare e assumere tutta la realtà. Vale soprattutto ciò che sa unire scienza e saggezza, che sa padroneggiare le tecnologie per finalità veramente umane, che riesce a conibinare la specializzazione con l'aggiornarnento, la flessibilità con il discernimento culturale: una grande opera di formazione in una crescita integrale di umanità.
L'analfabetismo è pertanto uno dei peggiori mali. Nei Paesi sottosviluppati 850 milioni di persone sono ancora analfabete, 325 milioni di banibini e banibine riniangono ai margini di ogni scolarità. I Paesi in via di sviluppo hanno, inoltre, tirgente bisogno di poter accogliere le innovazioni tecnologiche dei Paesi più progrediti e di adattarle e fruirne secondo le esigenze delle loro popolazioni. E invece preoccupante la tendenza all'ernietismo degli Stati e delle iniprese inultinazionali in ordine alle proprie ricerche scientifiche e innovazioni tecnologiche, considerate fonte di profitto e di potere piuttosto che beni coniuni appartenenti al patrimonio universale; e ciò proprio in quella che viene chiamata la nuova èra della conoscenza e dell'informazione. D'altronde, nientre parlianio delle ineraviglie propiziate dalla rivoluzione delle coniunicazioni e dall'uso dei coniputer e di internet, si dinientica che il 60% della popolazione mondiale non ha niai fatto una chianiata telefonica e tiri terzo della popolazione dei mondo non fruisce di elettricità. Infine, ki propagazione dei paradigini neoliberali della niodernizzazione e della globalizzazione mediante potenti struivienti mediatici e finanziari può portare - come avvertiva nuovaniente il Santo Padre nell'udienza concessa il 28 aprile 2001 ai partecipanti a un Seminario organizzato dall'Aecadeinia Pontificia delle Scienze Sociali - a un "nuovo tipo di coloniafismo", tale da non rispettare la diversità delle culture nell'arribito dell'universale armonia dei popoli. In questa prospettiva occorre tener presente quanto rileva l'econornista indiano Amartya Sen: misurare la povertà non è sufficiente; la cosa foridamentale è misurare la profondità dello stato di povertà. Oltre alla povertà in termini di reddito, vi sono handicap in terinini di educazione, di diritto, di salute, di condizione sessuale, cori forti ripercussioni negative sulla capacità di trasformare beni priniari nella libertà di perseguire i propri obiettivi. Vi è un'altra frangia ancora di nuove povertà emergente socialmente nel quadro dei processi di globalizzazione. È quella delle persone che soffrono particolari situazionidi vulnerabilità e che non sono reputate "utili", "produttive", socialmente rilevanti, e dunque non inserite attivamente negli ingranaggi della macchina produttiva e sociale. Si costata la solitudine di un numero sempre maggiore di anziani, di donne abbandonate che da sole attendono alla cura dei figli e al sostegno della famiglia, di bambini spesso caduti nella mendicità o nelle reti della delinquenza, di malati terminali senza cure e compagnia. C'è una logica darwinista - la sopravivenza dei più forti - che ben si coniuga con la logica neomalthusiana, ossia l'eliminazione fisica degli innocenti e dei più deboli, come i bambini concepiti e cresciuti nel seno materno, o i malati e i vecchi sui quali pende la minaccia dell'eutanasia, per non parlare del reale rischio di una deriva eugenetica nella manipolazione del bios.

La povertà della persona

Tutto questo ci porta per mano a un'ulteriore povertà, d'altro tipo, ma non meno preoccupante, non meno grave: la povertà umana della persona. Non è retorica quando a volte si dice che i Paesi poveri hanno molte ricchezze umane, sempre più rare in alcuni Paesi ricchi. Alla luce della mia esperienza emssicana, potrei parlare a lungo di tanti poveri che hanno grande consapevolezza della propria dignità, che testimoniano una saggezza profonda di vita, che sono lieti e pieni di speranza nonostante le loro durissime condizioni di esistenza. La cultura dominante agli inizi del terzo millennio tende però a diffondere ovunque, capillarmente, un'aura che banalizza la coscienza e l'esperienza dell'umano, così da promuovere l'adeguamento conformistico alla società del consumo e dello spettacolo. Questa funziona come una gigantesca macchina di censura degliinterrogativi più fondamentali dell'esistenza umana: Da dove vengo, chi sono, qual è il mio destino, quale il senso della sofferenza nella vita? La vita tutta è cammino verso il nulla? Su quale speranza fondare la propria vita? La ricerca della felicità piena è solo illusione ? Tutto ciò che amiamo, che amiamo è destinato alla morte? Vengono altresì censurati e offuscati nella coscienza delle persone e enla cultura dei popoli i desideri e le atttese connaturali al "cuore" dell'uomo, quelli che definiscono la sua natura razionale, che mantengono viva l'umanità dell'uomo: i desideri e le attese di libertà, di verità (cioè il senso della propria vita e l'intelligenza di tutta la realtà), di felicità che non deluda, di belllezza e giustizia, di piena realizzazione di sé. Chi elude quelle domande e chi lascia atrofizzare quei desideri soffre di una radicale povertà nell'affrontare la propria vita. Il suo "io" deventa solamente una fasio di reazioni e di sensazioni frammentarie, dipendenti dalla propria istintività o dalle influenze del potere. Non percepisce la grandezza e la bellezza dell'essere. Non cerca risposte e a quelle domande insopprimibili, ineludibili. Rimane senza criteri veramente umani per fronteggiare tutta la realtà. Vive in superficie. Si tratta infatti di un vivere alla giornata, senza riconoscere le fondamenta su cui poggiare, senza criteri oggettivi di bene e di verità, senza un significato e grandi ideali per la propria vita, senza passione per il proprio destino e per quello degli altri. La crisi delle istituzioni che dovrebbero essere educative, come la famiglia e la scuola (in certe situazioni…anche la Chiesa) lasciano le persone sole, con profondi scompensi affettivi, orfani indifesi in mezzo alla gigantesca crisi culturale dell'Occidente. È questa una terribile forma di povertà per l'uomo, che si diffonde tramite un imperante relativismo culturale e, più ancora, mediante un nichilismo di massa, che risulta essere all'apparenza tranquillo, gaio e confortevole nel segno del panem e t circenses proprio della società del consumo e dello spettacolo (ma finisce spesso nella noia, nel malessere che porta alla droga, nella violenza irrazionale, nella solitudine angosciosa), e tuttavia anche anarchico per coloro che soffrono e temono la globalizzazione e, nella confusione, reagiscono con la vilneza.
Una cultura sempre più lontana dalla tradizione cristiana rende la vita meno umana. Anche perciò l'Occidente ipersviluppato e opulento attira e seduce ocn la sua potenza, la sua tecnica e il suo benessere, diffondendo ovunque processi di modernizzazione che sradicano popolazioni intere dalle modalità di vita tradizionale, non fornendo però contributi di "senso2 e di valore per affrontare queste nuove realtà. Così, dalla propria situaizone privilegiata, l'Occidente nonfa altro che suscitare sentimenti di rifiuto e di resistenza, che in condizioni di fanatismo religioso portano a violenze inaudite.

Se Dio non esiste siamo inutili

Infine, vi è una povertà umana sempre più diffusa legata al processo di scristianizzazione che l'individualismo, il relativismo e il nichilismo dell'odierna cultura dorninante non fanno che esprimere e alimentare. E la povertà di chi non riconosce il motivo più radicale ed eccelso della propria dignità umana. Se non esiste Dio, tutto è permesso, poneva in bocca a uno dei fratelli Kararnazov il geniale scrittore russo. Se non esiste Dio, cade il fondamento e la garanzia di un disegno buono per l'uomo, di ogni seperanza umana. Se non esiste Dio, non vi è vera risposta ai desideri di pienezza di verità e di felicità del cuore dell'uomo. Se non c'è Dio, non c'è amore per sempre. Se non c'è Dio, tutto è votato alla decomposizione, al nulla. Se non c'è Dio, l'avventura umana è per certo, come affermava Jean-Paul Sartre, "una passione inutile".
Tutta la vita chiede, invece, l'eternità; e dall'eternità, Dio creatore ha voluto irrompere nella storia degli uomini per mostrarci il suo vero volto, quello del Verbo incarnato nato da Maria, Gesù di Nazaret, per inseirici in una storia di amore e di salvezza da sempre e per sempre. Non si può non dire che rifiutare questo incontro con Cristo Geù, o chiudere l'intelligenza e l'affettività a questa possibilità, è una grande povertà umana. Siamo tutti più poveri (anche io cardinale di Santa Romana Chiesa) quando non riconosciamo i segni della presenza di Dio nella nostra vita e l'affiddiamo invece al potere, alla ricchezza , al successo, al piancere, le forme dominanti dell'idolatria, che rendon l'uomo non libero, non figlio, non fratello.
Compito fondamentale per il nostro tempo, all'alba del terzo millennio, in mezzo ai mutamenti epocali, è quello di governare la globalizzazione in senso verament eumano, in funzione del bene comune. Non fornirò modelli né ricette per questioni di grande complessità. Non è questo il mio ministero, il mio servizio. La dottrina sociale della Chiesa ha proposto con forza tre grandi principi di orientamento, che sono anche criteri di discernimento e direttive per l'azione: la dignità della persona umana mai ridotta "a particella della natura o elemento anonimo della città umana"; la sussidiarietà al fine di educare, promuovere e mettere in movimento la libera osggettività creativa della pesona, della famiglia che è cellula naturale e fondamentale del tessuto sociale, e dei "corpi intermedi", ossia delle libere associazioni e opere, suscitando una vasta partecipazione democratica dal basso e uno sviluppo costruttivo di emergie di lboriosità e di impreditorialità, di operosità e cooperazione, di volontariato e servizio; e infine la solidarietà, in quanto "ferma determinazione per il benen comune", con speciale cura dei poveri e degli oppressi, dei malati e dei sofferenti, dei deboli e dei bisognosi.

Una nuova civiltà dell'amore

C'è bisogno di una "globalizzazione della solidarietà" insiste il Papa, risoluta ad affrontare le grandi questioni della giustizia, della pace, dei diritti umani, della salvaguardia del creato, dello sviluppo solidale delle nazionim della governabilità mondiale. È difficile che si riesca ad affrontare in radice qusti importanti problemi, se non da una rinascita di energie morali e religiose, cristiane, che muovano l'intelligenza e la libertà nella ricerca realistica, appassionata, creativa, di forme nuove di vita per l'uomo intero e per tutti gli uomini.
Non si tratta di ainventare nuoe utopie, che finiscono in chiacchere o in violenze, ma di aprire strade e costruire luoghi, opere e istituzioni che ricerchino soluzioni più umane, sempre fragili, riformabili , suscettibili di migliroamenti. I cristiani non pretendono né cercano egemoie o privilegi, ma solo la libertà di affronare tutto il reale con la certezza che chi costruisce senza Cristo, contro Cristo, scartando questa "pietra angolare", edifica sulla sabbia o sulla pagli, e finisce per costruire con l'uomo. Tutti i cristiani sono tenuti a erigere una nuova civiltà dell'amore.

 




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