Segreteria di Identità Europea
Globalizzazione e ipocrisie
settembre 2001
 
 

Forma contemporanea di omologazione a un progetto totalizzante, la propaganda globalista decreta per i miscredenti lo stesso ostracismo che i totalitarismi del XX secolo riservavano ai nemici, condannandoli come gente finita ai margini della Storia.

Da che mondo è mondo, le lotte per il potere si sono combattute (anche) con le armi della dialettica, con le menzogne, con le parole scelte a bella posta per rincuorare gli alleati e spaventare gli avversari, seminare il dubbio in casa d'altri e pavimentare di certezze la propria causa. Chi abbia un briciolo di conoscenza delle norme non sempre scritte della politica non ha dunque, in linea di principio, nessun motivo per scandalizzarsi dei toni aspri, faziosi e spesso falsi che costeggiano, di questi tempi, il cosiddetto dibattito - che tale non è, non essendo alcuno degli intervenienti interessato ad ascoltare i presunti interlocutori - intorno alla globalizzazione. Eppure, anche per l'osservatore più realista è difficile abituarsi al crescente frastuono massmediale sul tema e all'inconsistenza di gran parte delle argomentazioni che ne emergono.

I toni striduli e gli argomenti fuori misura contraddistinguono entrambi i fronti costituitisi attorno alla questione e pesano sulla possibilità di affrontarla con cognizione di causa e - quel che più conta - renderne consapevole la larga massa degli spettatori non partecipanti allo scontro.

Sul movimento del no global, pesa una letale contraddizione: la pretesa di combattere sul terreno meramente economico un fenomeno che nel contempo viene auspicato e magnificato in tutti i suoi aspetti culturali. Chi non capisce che l'immigrazione di massa dai paesi poveri e la pretesa di costruire società multietniche basate sull'assimilazione degli ospiti alla cultura degli Stati ospitanti è parte integrante - e oggi preponderante - del processo di occidentalizzazione del mondo, ha armi spuntate in partenza. L'intensificazione di una già esagerata industrializzazione, lo sfruttamento di una manodopera scarsamente sindacalizzata e disposta ad accontentarsi di condizioni di vita degradate, l'ulteriore esplosione del consumismo, l'omologazione delle abitudini e dei gusti, e l'aggravamento della catastrofe ecologica che consegue al coniugarsi di tutti questi fenomeni, hanno come motore il trasferimento di "braccia in eccedenza" da zone ad alta natalità e basso reddito. Il rischio del formarsi di un governo mondiale unico, sostenuto e condizionato dalle concentrazioni transnazionali di potere economico, in grado di esercitare selettivamente il ruolo di giudice di colpe e meriti dei singoli Stati e delle popolazioni che li abitano, servendo gli interessi politici, militari, economici, sociali e culturali dei più forti è alimentato da quell'isteria propagandistica sui diritti umani che, in seno alla sinistra più o meno radicale che alimenta o costeggia il "popolo di Seattle", ha trovato i più fervidi sostenitori. Non ha avuto torto Ernesto Galli della Loggia nel fustigare di recente i tanti contestatori del mercato globale che hanno per stella polare, sia pure in versioni aggiornate e rimaneggiate, l'una o l'altra delle due concezioni del mondo che alla rimozione delle barriere nazionali e culturali si sono maggiormente adoperate, il marxismo e il cristianesimo. I ragazzi con lo zainetto che sono scesi a Genova, a Göteborg, nel Québec, a Seattle, a Davos per gridare la loro rabbia contro la sopraffazzione dei potenti sui diseredati, con una mano sostengono la propria causa e con l'altra la indeboliscono: non capiscono che la pretesa di eguaglianza è incompatibile con la difesa delle specificità dei popoli e delle loro culture, né che il "mondo senza frontiere" che reclamano è proprio quello che serve alle multinazionali per spadroneggiare ad ogni latitudine.

E non c'è solo questo difetto a lasciare scettici sulle capacità di effettiva incidenza delle mobilitazioni di massa suscitate da ogni incontro al vertice dei "Grandi" del pianeta. Cosa si può pensare di un movimento che sfoga sugli obiettivi simbolici della sua protesta gli istinti violenti di qualche frangia estremista ma non sa farli oggetto di un'azione di contenimento efficace? Sfondare le vetrine di un McDonald's è segno di impotenza quando non si dispone di una capacità di suggestione sufficiente quantomeno ad invertire - non si pretende certo di disseccarlo dall'oggi al domani - il flusso che porta milioni di coetanei ad invadere ogni giorno i negozi della catena alimentare americana ingurgitando un cibo che "fa tendenza". Rischiare la vita in scontri con la polizia che difende gli appuntamenti internazionali di politici o banchieri per poi farsi ritrarre, feriti, con ai piedi un paio di Nike, come è accaduto in Svezia, non significa dare un'impressione di confusione mentale e di subordinazione psicologica all'avversario? I contestatori del nuovo ordine mondiale dovreebbero porsi, su questi e molti altri problemi - a partire dalla militarizzazione sceneggiata della propria presenza nei cortei, che di certo non è fatta per rassicurare e convincere gli osservatori indecisi - quesiti seri e risolverli in fretta, se non vogliono appassire nel folklore; ma, date le premesse su cui si è sviluppata la fioritura dei gruppi in cui sono riuniti, è improbabile che lo facciano. Con la conseguenza che un fallimento della loro azione verrà spacciato per una prova di invulnerabilità dell'avversario.

Se questo è il non esaltante panorama del fronte antiglobalista, dall'altra parte un osservatore dotato di senso critico trova ancora maggiori motivi per dispiacersi. Perché fra gli entusiasti della prospettiva di un governo mondiale dell'economia e della politica lo strumento di espressione più diffuso è l'ipocrisia, che della retorica è, da sempre, l'ingrediente più indigesto.

Non ci si può non lamentare, da questo punto di vista, della sostanziale inesistenza di osservatori, centri di ricerca, sedi istituzionali di dibattito in cui gli argomenti a carico e a discarico della globalizzazione possano essere confrontati e soppesati. Per la vastità degli interessi che sono sul tappeto e per l'esigenza dei mezzi d'informazione di rappresentare i temi in discussione secondo lo schema fuorviante ma attraente che mira a porre sempre lo spettatore di fronte alla scelta di collocarsi "o di qua o di là", gli spazi di riflessione neutri in questa materia non hanno diritto di cittadinanza. Esperti, commentatori, parlatori da talk show sono scelti in ordine all'attribuzione di posizioni precostituite e secondo dosaggi numerici che variano a seconda del colore politico - o, nei casi migliori, delle opinioni sul punto specifico - di testate e programmi.

In questo modo, il problema della presentazione del fenomeno al pubblico, nei suoi termini più generali, si trasforma in un primo terreno di scontro fazioso. E sì che già di per sé la questione non sarebbe di quelle che si dipanano facilmente. Malgrado il profluvio di studi già editi, il significato da attribuire al termine attorno a cui ruotano le polemiche resta infatti ancora molto vago. Si deve intendere per globalizzazione un dato di fatto già acquisito oppure una tendenza suscettibile di diversi e non ancora chiari sviluppi? È un fenomeno di ordine prevalentemente economico o culturale? È lo scenario indispensabile allo svolgersi delle "leggi di mercato" preconizzate dai fondatori dell'economia liberale classica, oppure è solo il frutto di scelte arbitrarie di alcuni specifici soggetti provvisti di forti quote di potere, politico-militare o economico-finanziario, statale o transnazionale, a sostegno dei propri interessi? Insomma: si tratta di un concetto dai connotati descrittivi, che deve servire a comprendere e spiegare l'eliminazione progressiva degli ostacoli alla circolazione delle merci, dei flussi finanziari, degli esseri umani, delle forme di pensiero, dei modelli di comportamento e degli stili di vita oggi in atto, oppure di una nozione normativa e prescrittiva, che, lodando e giustificando in modo incondizionato i processi ora accenati, pretende di indicare la direzione verso la quale l'umanità dovrebbe incamminarsi per raggiungere fulgidi traguardi?

La differenza non è di poco conto, perché a seconda della prospettiva in cui si sceglie di esaminarla, la globalizzazione si presta a considerazioni diverse. E poiché i maggiori canali informativi rinunciano ad una "noiosa" esposizione dei fatti affidata ad esperti di diversa formazione ma uniti da un approccio avalutativo, preferendo la "vivace" diatriba fra intellettuali schierati da una parte o dall'altra, gli argomenti esibiti danno piuttosto l'idea di assomigliare a clave.

È innegabile che gli esponenti del movimento no global danno spesso la sensazione di disconoscere la complessità del problema e di procedere per slogans; ma il modo di procedere della parte avversaria è davvero più accurato? Ad onta dei mezzi certamente più adeguati messi in campo - scienziati, economisti, intellettuali generalisti, politici di prima fila, giornalisti di nome -, non si direbbe. Gli esponenti del fronte dell'accettazione indulgono alla tentazione di truccare le regole del gioco quando premettono al proprio discorso un fervorino sulla "inevitabilità" della globalizzazione; che può essere più buona per certi versi e meno per altri, ma c'è e non è eliminabile; e neppure, se non marginalmente (qui, a seconda dei casi, la perorazione può oscillare nei toni), correggibile. La versione estrema di questo discorso edificante giunge addirittura a presentarla come "una tappa della storia della specie, un passo inevitabile", per cui "rifiutarla sarebbe folle, oltre che impossibile" . Curiosamente, si esprime qui in filigrana quella contraddizione che in precedenza abbiamo constatato nel campo avverso: molti dei teorizzatori della bontà del pianeta senza spazi chiusi, limiti e frontiere appartengono ad un campo convenzionalmente definibile "di destra", ma tutte le loro argomentazioni si richiamano a uno schema culturale tipicamente "di sinistra", il culto del Progresso, filo conduttore di un inarrestabile Senso della storia. Convinta di celebrare il proprio trionfo, la destra globalista si smentisce, abiura radici e storia, dà torto alle cause combattute in passato; si spoglia dei panni conservatori e della prudenza del realismo, proiettandosi con foga incosciente nell'utopia e in quel "costruttivismo" che i liberali alla Hayek e alla Mises tanto detestavano. Ogni parola dei suoi portavoce si abbevera all'idea che la tecnologia e la scienza - manipolazioni genetiche in primo luogo - forgeranno un mondo migliore, più ricco e più giusto, finalmente libero dalla tirannide della natura (alla quale vengono attribuite le responsabilità di ingiustizie in realtà sin troppo umane e quasi sempre legate all'avidità istigata dalle filosofie individualiste). Così facendo, ancora una volta l'arrugginita paratia che divide la destra e la sinistra otto-novecentesche cede e si annulla non in una mistura indistinta, ma in una retorica che distingue comunque vinti e vincitori dei precedenti scontri epocali.

Il peggio di sé, l'arcipelago globalista lo dà però quando è chiamato a reagire alle tesi che avversa. Se già gli accenti della sua apologetica tendono a oscillare fra il patetico e il ridicolo - il sottotitolo di un recente dossier del "Corriere della Sera" intitolato Il bello della globalizzazione recitava testualmente: "È una rivoluzione che crea anche perdenti. Ma che in tre decenni ha dimezzato la povertà nei Paesi emergenti. E che sta aprendo le porte della crescita a miliardi di persone. Fa paura, soprattutto all'Occidente ricco". E poi si dice che i toni della propaganda in stile Komintern sono relitti di ere sepolte… -, quelli della critica scadono ulteriormente di livello. In compenso, ne cresce la varietà.

C'è infatti la tecnica liberale classica, che scivola rapidamente nell'anatema, identificando nella Cosmopoli globalizzata il modello realizzato della "società aperta" e agitando sulle teste chi non l'apprezza lo spettro demonizzante della tentata ricostituzione delle "società chiuse" totalitarie (non senza citarne, in spirito di par condicio, le due versioni classiche: nazista e comunista sovietica. La Cina attende il suo turno, in attesa di vedere dove la condurranno le robuste iniezioni di economia capitalista). In questa lettura, la globalizzazione non è apprezzata in prima battuta per i supposti miracoli economici che attiverà, ma perché toglie spazio alle tirannie politiche (forse sarebbe il caso di aggiungere: a quelle che non servono gli interessi del pernio del mondo globalizzato, gli Stati Uniti d'America) e porta libertà dove non c'era. In quest'ottica, l'aumento del Pil di un paese è considerato di per sé segno di "benessere" (associato alla libertà per un principio ideologico elevato a teorema scientifico) e dunque di miglioramento delle condizioni di vita dei suoi abitanti. Le preoccupazioni per l'ingiusta distribuzione della ricchezza, per la perdita di sovranità dei governi, per la disgregazione dei patrimoni culturali o per le catastrofi ecologiche indotte dal circuito "virtuoso" della produzione e dell'accumulo di ricchezza sono spazzate via con qualche cenno sprezzante alle ubbìe di chi ancora cocciutamente se la prende con la mercificazione dell'esistenza: roba da secondo millennio… Naturalmente, questo schema argomentativo fa a sua volta ricorso alla clausola del determinismo storicistico e progressista, secondo cui, giusto per prendere un esempio, "tornare indietro sarebbe dannoso soprattutto per i poveri del mondo. È la via del tribalismo, del nazionalismo, della miseria" […] Oggi che la tecnologia dei trasporti e delle comunicazioni rende arduo ogni tentativo di isolare un Paese, tornare indietro richiederebbe ancor più repressione e crudeltà che in passato". L'opposizione all'ideologia globalista viene dunque equiparata a una regressione reazionaria, ad una volontà di isolamento, alla chiusura di ogni frontiera, caricaturalizzando le idee di chi dissente dal Verbo. L'idea che il mondo a venire possa essere ordinato, invece che attorno a un'unica polarità egemonizzata da un'unica superpotenza, per grandi spazi continentali comunicanti ma sovrani e autosufficienti, non viene neppure presa in considerazione. Gli anacronismi diventano strumenti dialettici di annientamento del dissenso: "Non si può ignorare che la questione sociale fu aggravata, non risolta, con la soppressione del mercato e la chiusura delle frontiere". L'intenzione di imporre un'egemonia planetaria politicamente e geograficamente connotata viene coperta dal velo di un eufemismo polemico: "[non si può ignorare] che il terzomondismo inteso come ideologia alternativa abbia portato tirannia, disuguaglianza e povertà" .

Una seconda versione, più "socialdemocratica", ammette che la globalizzazione non è tutta rose e fiori ma si sforza di minimizzarne le ricadute negative, raggiungendo vette ineguagliabili di quell'ipocrisia cui abbiamo fatto cenno. I versanti argomentativi prediletti in questo caso sono due.

Uno, più schiettamente economico, punta sul fatto che la liberalizzazione totale dei mercati creerà ricchezza nei paesi oggi svantaggiati per una automatica applicazione delle leggi elementari della concorrenza: offrendo quei paesi manodopera a prezzi (molto) più bassi, la produzione vi si orienterà in proporzioni crescenti, delocalizzando stabilimenti e, in certi casi, uffici. Le multinazionali si trasformeranno dunque da sfruttatrici in benefattrici. Il difetto di una ricetta di questo genere è che passa sotto silenzio le controindicazioni del farmaco. Solo per citarne alcune: a) la regola che spinge i paesi in cui cresce la ricchezza ad innescare una crescita dei consumi e dunque dei salari, rendendo in breve tempo più conveniente ai detentori di capitali l'investimento in zone più depresse e di minori pretese ed innescando quindi trasferimenti dei cicli produttivi; b) la sproporzione della crescita indotta dagli investimenti, che, gonfiando i profitti delle imprese occidentali, aumenta, anziché ridurlo, il divario fra i paesi che dispongono dei capitali e quelli che forniscono la forza-lavoro; c) il dominio del capitale finanziario virtuale, trasferibile in tempo reale, su quello reale legato alla produzione, al territorio e a tempi più lenti, che può riaggiustare in un attimo i processi di redistribuzione planetaria della ricchezza attraverso manovre speculative, come è accaduto nel caso dei paesi del Sud-Est asiatico, che avevano alzato troppo le pretese; d) la necessità dei colossi economici occidentali di garantirsi pace sociale e condizioni politiche favorevoli nei paesi d'origine, mantenendo quantomeno invariato il divario di ricchezza e livelli di consumo nei confronti dei paesi deboli del Terzo Mondo, la cui povertà è l'unica garanzia di poter usufruire di duraturi serbatoi di manodopera a prezzi irrisori

La seconda via dialettica privilegiata da questi ambienti chiama in causa fattori più direttamente culturali. Appartengono a questo filone i discorsi più rozzi ed elementari - ma proprio per questo, ohinoi, efficaci a livello di massa - che pretendono di liquidare l'accusa di omologazione degli stili di vita ricordando che nei McDonald's giapponesi le polpette di carne si mangiano con salsa sushi e nelle Filippine con un condimento molto più piccante, o che le soap operas che vanno per la maggiore in Europa non sono solo made in Usa ma anche messicane, australiane o persino di produzione autarchica, quasi che sia l'origine geografica e non la stereotipia dei modi di pensare o di comportarsi a definire il carattere seriale di queste espressioni della cultura. Ma anche argomentazioni più raffinate. Molte di esse mirano a spacciare per difesa delle diversità quei processi di omologazione che coinvolgono gli immigrati nelle società occidentali, diffondendo la convinzione che si può restare fedeli alle proprie radici pur coniugandole con gli usi delle società di accoglienza. In questo modo, il sistema di dominio legato all'espansione imperialistica dello stile di vita occidentale americanomorfo viene camuffato e edulcorato. Si citano ad esempio la "Nike-babbuccia, metà scarpa da tennis e metà ciabatta araba" che l'industria di articoli sportivi statunitense assurta al ruolo di icona cosmopolita ha immesso sul mercato "essendosi accorta che i giovani arabi tagliavano le scarpe da tennis nella parte del tallone per toglierle comodamente entrando in moschea", oppure "una strana bambola Barbie bionda con gli occhi azzurri che però balla la danza del ventre al suono di una melodia di musica araba". Queste banali ma efficacissime forme di sradicamento culturale vengono presentate, con uno stravolgimento radicale dei fatti, come fecondi esempi di contaminazione prodotti dalla libertà di circolazione, modelli di integrazione "societaria" da opporre all'oscurantista preservazione "comunitaria" dei caratteri formativi di una popolazione, finendo addirittura col sostenere che "il mercato e il consumo, con la loro indifferenza, sono più avanti nel produrre inclusione e accettazione delle diversità (sic!) di quanto lo siano le nostre società" .

Nessun traguardo sembra precluso a questa strategia di eufemizzazione dei guasti che l'applicazione di un'ideologia cosmopolita ai processi di transnazionalizzazione oggi in atto sta provocando. Siamo arrivati al punto che il presidente e amministratore delegato di McDonald's può rivendicare senza vergogna alla sua compagnia quella democraticità che l'Unione europea faticosamente si sforza di acquisire e di cui i bersagli istituzionali del "popolo di Seattle" - G-8, Fondo monetario internazionale, Organizzazione mondiale del commercio, Banca mondiale - sono privi. I 175 milioni di persone che "hanno frequentato McDonald's in tutto il mondo durante i quattro giorni di protesta a Seattle nel 1999 contro la Wto" possono essere invocati a testimoni di una "correttezza politica" che si illustra anche nei modi più impensabili. Queste megastrutture devastano il tessuto connettivo delle attività economiche locali? Ma quando mai! "Noi offriamo dovunque un'opportunità agli imprenditori di gestire un esercizio locale con personale locale rifornito con prodotti locali da un'infrastruttura locale. […] Che io sappia non esiste nessun'altra azienda di servizi che tocchi così tante persone in maniera così personale. Noi serviamo 45 milioni di persone al giorno in 28 mila ristoranti di 120 paesi […] McDonald's è vista come una minaccia culturale. Siamo diventati il simbolo di tutto quello che non piace alla gente o che rappresenta una minaccia per la propria cultura. Siamo presenti in nazioni come il Giappone, il Canada e la Germania da quasi 30 anni. Non vedo vacillare queste culture a causa di McDonald's. […] Il fatto è che noi vendiamo carne, patate, pane e latte, Coca-Cola e lattuga […] Quello che una persona decide di mangiare è una questione puramente personale […] Ma la gente che cosa fa? Non indica forse la propria preferenza frequentando i nostri ristoranti? E quei ristoranti […] non creano posti di lavoro per migliaia di ragazzi che […] hanno passato tempi duri cercando di entrare nel mondo del lavoro?" .

La strategia argomentativa, ammettiamolo, è perfetta (e, del resto, certamente curata da una delle migliori agenzie di marketing disponibili - e globali). Si potrebbe dire di meglio? Il Grande Fratello di Orwell avrebbe detto qualcosa di diverso? C'è tutto: la banalizzazione della democrazia per via gastronomica, la tutela del diritto inalienabile della persona a farsi condizionare dalle mode e dalla pubblicità, persino il principio di sussidiarietà: a noi le vetrine e i megaspazi, a voi locali la catena dell'indotto con i relativi proventi. E la manipolazione? Scomparsa. Finiti i tempi dei vecchi tiranni totalitari, che avevano bisogno di reprimere e mobilitare con parate e palchi. Gli stessi risultati si possono ottenere con gli spot e con il denaro che li finanzia: l'illusione di libertà che rende i sudditi ancor più obbedienti, inutilmente perseguita in 1984, è finalmente realtà. E chi si oppone alla deriva ha due possibilità: rinchiudersi nella solitaria devianza, finché ne ha gli strumenti, o protestare ad alta voce. In questo caso c'è, per lui, l'accusa di voler coartare il diritto delle maggioranze, di inseguire i sogni anacronistici del protezionismo, di non prestarsi a cooperare per dar vita ad un mondo più ricco. E la condanna senza appello come "perdente della modernizzazione".

Forma contemporanea di omologazione a un progetto totalizzante, la propaganda globalista decreta per i miscredenti lo stesso ostracismo che i totalitarismi del XX secolo riservavano ai nemici, condannandoli come gente finita ai margini della Storia.

 

 




Vuoi essere informato sulle novità del sito e le iniziative di Identità Europea?
iscriviti cancellati


© Identità Europea 2004
Sito ottimizzato per una visione 800 x 600 px
Explorer 5.0 - Netscape 6 - Opera 7
e superiori


 

 
articoli censurati dalla stampa