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franco Cardini
Attenti, la cultura non è una guerra tra manifesti
Il Resto del Carlino , domenica 16 giugno 2002, politica

Credo che Forza Italia abbia capito che bisogna organizzare la cultura: cioè bisogna possedere una visione strategica di essa, bisogna insomma sviluppare una politica culturale, se si vuole mantenere l'egemonia politica tout court...

credo che la famosa frase attribuita ora a questo, ora a quell'altro gerarca nazista, "Quando sento parlare di cultura, metto mano alla pistola", non sia in realtà mai stata pronunciata. Da parte mia, comunque, confesso di aver sempre provato una certa simpatia per l'improbabile personaggio che l'avrebbe proferita, chiunque egli sia. Sarà perché infondo, la cosidetta cultura è il mio mestiere. Sarebbe già abbastanza difficile definirla brevemente, la cultura. Credo si debba a riguardo tener fede adalmeno tre distinzioni di livello.

Primo: a livello letterario e scolastico, la cultura è correntemente intesa come quel più o meno modesto bagaglio di cognizioni filosofiche, letterarie, artistiche, musicali eccetera di cui ciascuno di noi dispone. A un livello più ampio, di tipo squisitamente sociologico-etnologico, si chiama cultura qualunque forma di espressione qualificante di un dato gruppo storico. Si può quindi parlare di una "cultura del vino" intendendo con tale termine non solo la cultura propria di enologi e buongustai, ma anche e soprattutto quella tipica di quei paesi che producono vino e che, storicamente parlando, hanno saputo collegare la produzione di esso a una loro profonda realtà, a un loro modo di essere.

Da questo punto di vista, ogni popolo e ogni tempo ha la sua specifica cultura, e ogni cultura ha un valore assoluto. E' molto difficile, e infondo sconsigliabile, qualsiasi tipo di gerarchizzazione: a livello etno?antropologico, per esempio, non ha senso proclamare che una cultura è migliore delle altre. Tutte le culture hanno pari dignità. Vi saranno poi alcune che hanno inciso di più e altre di meno sulla storia del mondo, vi saranno culture che sono diventate il pane quotidiano dell'intera umanità e altre che sono rimaste chiuse nella loro nicchia. Ma questo è un altro discorso.

A un livello squisitamente intellettuale, infine, cultura non è né erudizione, né informazione, né educazione: anche se è senza dubbio una sintesi di tutte queste cose. Ma, principalmente, cultura significa aver senso critico e capacità di rimettersi continuamente in discussione.
Credo sia questa la dimensione ricercata da quei parlamentari, da quei politici, da quegli studiosi, da quegli intellettuali, da quei giornalisti, da quegli uomini di cultura che si sono riuniti a Firenze per discutere intorno a quello che ormai si usa definire il "Congresso degli intellettuali di Forza Italia".
Naturalmente, la definizione è assolutamente inadeguata. Si tratta, in realtà, di un tentativo di mettere insieme persone e indirizzi di vario genere intorno a un progetto di ridefinizione del far cultura nel nostro Paese.

Ho detto "far cultura"; avrei potuto dire anche "cercare un modo di impostare una politica culturale". In effetti, di questo si tratta. Gli studiosi, gli intellettuali e gli uomini di cultura riuniti intorno ad un gruppo che vede come esponenti di punta il senatore Dell'Utri, il sociologo Alberoni, il giornalista e parlamentare Adornato, il filosofo Mathieu ed altri, ha in realtà uno scopo immediato molto preciso: direi trasparente. Il Manifesto, cioè il documento fondamentale sul quale discutere, è stato diffuso attraverso una sua integrale pubblicazione sul quotidiano "Il Foglio".

Nella sostanza, mi sembra che il dato saliente sia caratterizzato dalla costante preoccupazione di sottolineare come il monopolio della cultura non spetti più alla sinistra: nel nostro Paese e altrove. Da un lato, tutto ciò è in effetti una verità abbastanza lapalissiana: chi ha fatto e fa cultura sul serio, sa bene che il monopolio della sinistra apparteneva principalmente alla organizzazione della cultura, non alla cultura in sé e per sé.
Ma proprio questo è il punto su cui discutere. In effetti, l'esercizio della cultura è un fatto eminentemente personale, che diventa sociale, e anzi direi civico, nella misura in cui il sapere criticamente elaborato di ciascuno di noi viene gestito in termini comuni
In questo senso la cultura non può dissociarsi dalla politica; in questo senso il sapere, il pensare, il discutere, il comunicare, il pubblicare è sempre e comunque un atto intellettuale nello stesso momento e nella stessa misura in cui è un atto politico.

Da qui ad elaborare complessi culturali e organici, ce ne corre. Uno dei rischi dai quali i convenuti a Firenze debbono liberarsi è quello della tentazione dell'elaborare manifesti culturali "alternativi". Voglio dire che quella che io definisco la "manifestite acuta" degli intellettuali italiani dovrebbe finalmente entrare nel vasto magazzino degli oggetti in disuso. Se c'è una cosa di cui in Italia non si sente il bisogno è quella di un nuovo "Manifesto degli intellettuali". Dal 1925, dal tempo cioè dei due opposti manifesti degli intellettuali antifascisti e di quelli fascisti, di manifesti ne abbiamo avuti, letti, finnati e rinnegati fin troppi. Non servono a nulla: se non, appunto, a organizzare una politica culturale. Ora, quello che serve a Forza Italia in genere e ai partiti che fanno capo al Polo delle libertà, in particolare, è semmai una politica culturale: cioè un modo organico e sistematico di sviluppare un discorso coerente attorno ai grandi problemi della scuola, dell'università, della cultura diffusa, del rapporto tra il sapere e il vivere civile e via discorrendo. Si tratta di sviluppare una maggior sensibilità per temi che fino ad ieri erano patrimonio quasi esclusivo della sinistra. Quando si parla di una "dit tatura intellettuale della sinistra" nel nostro Paese a partire dagli Anni Cinquanta in poi, si dovrebbe avere il coraggio di completare il discorso: quella dittatura intellettuale fu infatti possibile nella misura in cui le forze diverse da quelle di sinistra si disimpegnarono e si disinteressarono rispetto ai temi culturali: lasciando i loro avversari liberi nelle università, nel mondo della letteratura, nel mondo del cinema, in quello del teatro, in quello della musica e così via.

Si pensò, allora, che bastasse occupare le poltrone dei consigli di amministrazione giusti e ramazzare i voti attraverso le parrocchie o attraverso altre forme organizzative esistenti nel mondo del ceto medio, per aver ragione della sinistra. Non era del tutto vero: prova ne sia il fatto che il disegno di una egemonia politica della sinistra, cui l'egemonia intellettuale aveva reso ottimi servizi, è fallito in Italia perché è fallito il grande progetto socialista egemonizzato dall'Unione sovietica. Se esso non fosse venuto meno, propabilmente oggi noi vivremo ancora nell'onda lunga dell'egemonia fondata dai movimenti di sinistra, uno dei principali ingredienti della quale fu proprio il loro prevalere sul piano intellettuale.
Il fatto di aver saputo sostenere e appropriarsi di una buona produzione letteraria, cinematografica, teatrale, musicale e via discorrendo.

Forse, con qualche ritardo e non senza molte ingenuità, si sta pensando di correre ai ripari. Credo che Forza Italia abbia capito, forse un po' meglio delle altre forze del Polo, che bisogna organizzare la cultura: cioè bisogna possedere una visione strategica di essa, bisogna insomma sviluppare una politica culturale, se si vuole mantenere l'egemonia politica tout court. Può darsi che tutto questo equivalga a una specie di chiusura della stalla dopo che i buoi sono fuggiti: o può anche darsi che equivalga al famoso restar padroni delle acque dopo che la flotta avversaria, magari vincitrice, se ne è andata perché lo specchio marino che la interessava è diventato irrilevante. Può darsi che gli intellettuali e gli studiosi convenuti a Firenze stiano preparandosi a fare in realtà la guardia a un bidone di benzina che è stato lasciato vuoto da tempo.
Resta comunque il problema, resta il disorientamento di una maggioranza di Governo che si sente non appoggiata dai valori della cultura e da tutto il mondo sociale e morale da essi rappresentato, e che sente il bisogno di riempire questa lacuna. Spero che tutto ciò non preluda a nuove illusioni di organicità intellettuale. I tempi dei Manifesti sono passati. Non abbiamo nessun bisogno di versioni di destra delle circolari di Lysenko.

Non abbiamo nessun bisogno nemmeno di riedizioni della dittatura intellettuale alla Benedetto Croce o delle peraltro a suo tempo intelligentissime veline del ministro Bottai. La cultura del futuro, se e nella misura in cui sarà impostata dalla destra di governo, dovrà essenzialmente essere una cultura del Pluralismo, del confronto, dell'attenzione e della sensibilità per i nuovi problemi' emergenti. Una cultura agli antipodi rispetto a quella a senso unico finora proposta dalle varie segreterie deipartiti o dalle varie Chiese ' cristiane o laiche che siano E' una sfIda di livello alto.
Rispetto ad essa, il Manifesto Presentato a Firenze sipale sa come ancora qualcosa di largamente incoativo e, per così dire, non-concluso. Bisogna aspettare nuovi apporti, bisogna affidarsi a un'ampia e spregiudicata discussione.
Quel che resta da decidere, è se veramente i promotori del Manifesto hanno bisogno e desiderio di impiantarla, questa discussione spregiudicata. Sarà il futuro a dircelo.




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