articoli di identità europea
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Franco Cardini
- LETTERA AI MEMBRI DI “IDENTITA’ EUROPEA”, GENNAIO 2004 –
- Europa, la situazione all'inizio del 2004
 
gennaio 2004


Cari Amici,

Identità Europea è ormai diventata una realtà politica e culturale lo sviluppo della quale è senza dubbio limitato da quelle stesse esigenze di libertà che ci siamo posti, e che quindi c’impongono di vivere solo di autofinanziamento (il che significa del nostro lavoro volontario); ma, al tempo stesso, non è più un’Associazione che possa continuar a vivere sulla base di rapporti amichevoli leali e simpatici senza dubbio, ma che si traducono in una certa approssimatività istituzionale, gestionale e organizzativa. Credo che il 2004 debba essere l’anno di scelte più precise, forse più impegnative: forse di ridefinizione e di ristrutturazione, certo di verifica. Ma è inutile – anzi, è insensato – accingersi a renedr più funzionale uno strumento di cui si dispone se non è chiaro lo scopo che attraverso l’uso di tale strumento si vuol conseguire. Non vi faccio pertanto proposte statutarie o congressuali: al contrario, chiedo a voi di formularle, e in tempi brevi. Dal canto mio, a conclusione di una mia prima e troppo personalistica fase “presidenza” (che potrà anche durare qualche altro mese e magari poter poi o meno venir confermata, ma su basi differenti), vi affido semplicemente alcune brevi riflessioni di fondo sul tema “chi siamo-che cosa vogliamo”: propedeutiche, almeno nelle mie intenzioni, al proseguimento del nostro lavoro.

Una volta tanto, quindi, parliamo non di contingenze, bensì di cose di fondo. Le ultime vicende connesse con il sostanziale fallimento (inutile definirlo altrimenti) della prima fase del lavoro vòlto a dotare l’Unione Europea di una sua Costituzione, le difficoltà dell’allargamento dai 15 paesi ai 25 previsto entro quest’anno, la tensione esistente tra fautori e detrattori della cosiddetta teoria dell’ “Europa a due velocità” (una questione dietro la quale si nascondono quelle, non meno fondamentali, dei rapporti dell’Unione con la superpotenza statunitense e delle egemonie statali e nazionali ad essa interne) hanno configurato una situazione di stallo dinanzi alla quale non si deve far la politica dello struzzo. Gli europeisti “tiepidi” e gli “euroscettici” sono tornati dappertutto all’attacco, ora insinuando ora addirittura proclamando che quest’Europa non s’ha da fare, o che comunque così non va bene. Io, che sono un europeista pessimista, resto tuttavia convinto che invece l’Europa si debba fare eccome: se non altro perché potrebb’essere un fattore fondamentale per scongiurar lo scontro – che non è detto sarebbe solo economico, finanziario e produttivo – tra il colosso statunitense e quello cinese, che alcuni osservatori del resto non obiettivi né innocenti “prevedono” (e progettano?) per la seconda metà del prossimo decennio. Vorrei allora invitare a una riflessione storica, una volta tanto, d’un certo respiro sull’argomento.

Non amo le analogie storiche, quelle che oggi vanno tanto di moda: specie quelle con la storia greca o romana, che furoreggiano in questi mesi seguendo una moda invalsa negli Stati Uniti. Da storico, non posso permettermi purtroppo i lussi propri ai miei colleghi (e, scientificamente parlando, cugini) che si occupano di scienze umane. Appunto perché sono profondamente convinto, e non da ieri, che la storia è parente prossima dell’antropologia - come mi ha insegnato uno dei miei più cari maestri, Fernand Braudel – debbo far molta attenzione alle distinzioni tra le due discipline. Nelle scienze umane, compito delle quali è organizzare sistemi generali, quel che contano sono le costanti; nella storia, regno del particolare (e dell’eccezione, dell’imponderabile), valgono invece le variabili. Ciò non significa che sia illegittimo rintracciare, nel comportamento degli uomini e dei gruppi umani comunque strutturati, regole e ritmi: significa semplicemente che la storia non ha una “ragione” immanente, non ha un “senso” (tanto meno poi “irreversibile”); incomma, che non è magistra vitae.

Qualcosa da insegnare, comunque, ce l’ha; e tener conto della sua esperienza è sempre buona norma. Rifacciamoci ancora una volta, allora, l’angosciosa domanda: perché cadde l’impero romano? O meglio: perché nella seconda metà del V secolo vennero meno le istituzioni pubbliche e il senso della res publica in quella che, dopo la riforma teodosiana, era la pars Occidentis di quell’impero romano che invece, a oriente e con capitale Costantinopoli, durato senza soluzioni di continuità fino al 1204 (o addirittura al 1453, come alcuni sostengono)?

Nella straordinaria complessità di quel fenomeno, del quale – come sempre nelle vicende storiche – sarebbe grave errore cercar di discernere la causa non diciamo unica, ma anche solo principale, giacché il panorama delle concause e delle loro relazioni va sempre tenuto presente se si vuol fornire un giudizio plausibile, emergono anzitutto tre ordini di fenomeni, del resto tra loro correlati: primo, la crisi demografica e sociale; secondo, il progressivo mutar della struttura socioantropologica della popolazione a causa del continuo ingresso di nuove etnìe al di qua del limes; terzo, la diffusa crisi etico-culturale e l’affermarsi di movimenti religioso-cultuali a carattere al tempo stesso personalistico e universalistico, che ponevano in secondo piano o addirittura tendevano a rovesciare e ad annullare tradizioni sovente secolari legate alle radici etniche e ai ritmi della vita quotidiana e ad affermare con forza un’esigenza di salvezza spirituale. Il più forte di questi movimenti, quello cristiano, si affermò alla fine del IV secolo addirittura come “religione di stato”: una specie di ossimoro storico, dal momento che la proposta cristiana sembrava fatta apposta per scompaginare sotto il profilo etico e spirituale i caratteri di fondo dello stato romano. Cosa che, in effetti, si verificò nella pars Occidentis; non però in quella Orientis, dove al contrario la nuova religione divenne il cemento di una ridefinizione imperiale destinata a durar ancora quasi un millennio. Come si vede, vi sono due avverbi che quando si parla di storia non vanno mai pronunziati: “sempre” e “mai”.



Ebbene: mutatis mutandis (e i mutanda ch’è necessario mutare sono, al solito, parecchi: altrimenti la “lezione della storia” divanta un inutile gioco di bussolotti), il IV-V secolo dell’impero romano presenta straordinarie analogie con il nostro. Crisi demografica ma anche “di valori” entro il limes di quel che noi di solito chiamiamo “l’Occidente” (ma l’Occidente a ovest dell’Atlantico, cioè la compagine statunitense-canadese, è esente almeno dall’aspetto demografico d’una crisi che per altri versi esso stesso attraversa); afflusso migratorio di genti esterne al nostro ambito sociogeografico e al suo equilibrio anche se non più propriamente estranee alla sua cultura (perché i meccanismi di globalizzazione hanno segnato profondamente anche informazione, immaginario, istanze e bisogni); insorgere di movimenti politico-religiosi e affermarsi di istituzioni e di strutture a carattere mondialistico che tendono a superare – e spesso, volontariamente o meno, a scardinare e/o a vanificare – gli equilibri presenti. Potremmo identificare i primi nei gruppi e negli ambienti che in italiano si continuano a indicare con il ridicolo aggettivo di “fondamentalisti” e nel terrorismo che ad essi è legato, anche se non direttamente né esclusivamente; e le seconde nei centri dei “poteri forti” a carattere finanziario-economico-tecnologico che di solito chiamiamo “multinazionali” e che – come ha indicato Jeremy Rifkin – si vanno configurando sempre più come una piramide di gruppi di potere fra loro collegati che stanno svuotando “dal di dentro” il potere politico dei vari governi del mondo, riducendoli a “comitati d’affari” al loro servizio e che, in ultima analisi, si potrebbero ridurre a circa 400 tra persone fisiche e società che, da soli, controllano e gestiscono il 40% delle ricchezze del mondo.

Tutto ciò va preparando un nuovo equilibrio che interesserà l’intera l’ecumène? E’ probabile. Ciò è un male o un bene? Tale questione, in termini storici, non ha senso. Alla fine del mio libro Astrea e i Titani (Laterza) – un contributo scientifico alla comprensione di quel che ci sta accadendo intorno, che alcuni recensori prevenuti hanno preferito non leggere, ma condannare a priori come “antiamericano” (cosa che non è affatto) – ho citato Schmitt: “…molti vedono solo un disordine privo di senso laddove in realtà un nuovo senso sta lottando per il suo ordinamento”. Il mondo sta cambiando; sta sorgendo un nuovo ordine e noi assistiamo alla dialettica tra varie forze cointeressate a indirizzarlo e ad egemonizzarlo. Uscire dal mondo che Bzrezinski, qualche anno fa, aveva definito out of control, è concorde scopo di molti: con maggiore o minore lucidità, con maggiore o minore interesse personale o di gruppo, anche Cheney, i neoconservatives e al-Qaeda nonché molti altri stanno lavorando in questo senso. Con intenti, certo, molto diversi fra loro.

Se d’altronde il fenomeno storico del quale siamo spettatori (e, in qualche misura, anche coattori) è molto interessante, ciò non significa affatto che come cittadini le nostre preoccupazioni non siano giustificate. Dio ci liberi dai periodi storicamente interessanti, dicono i cinesi: ma sembra proprio che nei prossimi vent’anni noi invece ne attraverserseremo uno.

In questi casi è giusto presentarsi il più possibile aperti alle novità; ma è legittimo anche tutelare quelli che riteniamo essere dei valori: sarà poi la storia a incaricarsi di selezionare quelli fra essi destinati a sopravvivere, magari profondamente modificati, e quelli che viceversa scompariranno. Ma dal punto di vista dell’umanità, è legittimo che le persone e i gruppi lottino per preservare e sostenere quelli che sembrano loro più giusti, non quelli che hanno maggior probabilità apparente di affermarsi come vittoriosi.

Io credo in particolare che due valori vadano tutelati con quanta più energia sia possibile: quelli legati alle identità religiose e nazionali da una parte, quelli connessi con i diritti e i bisogni delle persone e dei popoli – in particolare dei più deboli - dall’altra. I politici che abbiano mantenuto una seria coscienza della loro funzione dovrebbero lavorare in questo senso. Per questo ritengo che la dimensione pubblica dello stato e l’esperienza delle organizzazioni sovrastatali e sovranazionali che si fondano su di esso ma che al tempo stesso hanno come obiettivo l’armonizzare e l’unire le forze statali in più forti e capaci compagini vadano sostenute e non abbiano ancora definitivamente assolto alla loro funzione storica, non debbano esser ancora considerate obsolete: sia perché attraverso le ancor vive istituzioni statali vive e si traduce in forme concrete la coscienza identitaria storica dei singoli gruppi umani, sia perché nel XXI secolo gli stati conservano e mantengono ancora quella funzione che ad esempio nell’Europa del XVIII secolo era assolta dalle organizzazioni comunitarie a carattere corporativo, religioso, caritativo, e che non a caso i regimi assolutistici “illuminati” combatterono in modo che le persone dei sudditi si riducessero a individui soli e indifesi dinanzi all’onnipotenza dei poteri statali. Oggi – chi vuole scorga pure in tutto ciò una forma di contrappasso storico – gli stati e le organizzazioni sovrastatali come la stessa ONU – rappresentano quei “corpi intermedi” che continuano a tutelare i singoli dalla prepotenza anonima dei Nuovi Poteri rappresentati dalle multinazionali (fra le quali sono da annoverare anche quelle “multinazionali del crimine” che sono le organizzazioni terroristiche: tenendo presente tuttavia che il terrorismo è una sola tra le dimensioni criminali possibili). L’impero statunitense e la “guerra asimmetrica” tra le forze da esso egemonizzate e organizzate e l’invisibile esercito del terrore, del resto interfaccia del secolare “scambio asimmetrico” che ha costituito uno dei fattori di lungo periodo della storia della globalizzazione, sono le caratteristiche che inquadrano in apparenza la nostra epoca. Ma i veri pericoli che la minacciano sono da un lato la scomparsa degli organi e degli strumenti attraverso i quali i governati abbiano la possibilità di mantenere la “trasparenza” e pertanto di esercitare un controllo dei loro governanti effettivi e delle loro scelte (perché i governi costituiti dai politici sono sempre più formali ed apparenti: così come di potere effettivo si stanno svuotando le istituzioni rappresentative, al di là della “retorica democratica”); dall’altro la sfrenatezza e l’illimitatezza, appunto, dei poteri effettivi che oggi egemonizzano il mondo e la loro carenza etica, sostituita da una “volontà di potenza” che si traduce in termini di illimitato arricchimento, di altrettanto illimitato sfruttamento delle risorse del pianeta, di azzeramento tecnologico e utilitaristico di qualunque forma di etica, di crescente e irreversibile noncuranza delle sorti future sia del mondo, sia dello genti che lo abitano. L’autentico rischio che l’umanità sta correndo non è quello di cader preda e di divenir suddita di un’oligarchia strapotente; è quello dell’incontrollabilità, dell’amoralità e della cecità (se vogliamo, dell’incultura) delle élites selezionate da quest’oligarchia e che di essa sono in parte l’elemento costitutivo, in parte gli organismi funzionali ed esecutivi.



Un processo unitario europeo e, all’interno di esso, il mantenimento della coscienza identitaria e del senso di appartenenza a istituzioni comuni tese a tutelare valori e interessi condivisi, può anche essere qualcosa di “perdente”, nel breve periodo, rispetto alle forza che oggi si vanno imponendo nel mondo e che dispongono di potenza tecnologica, economica, massmediale e decisionale formidabile. Ma nella storia non c’è mai nulla né di “naturale”, né di definitivo. Lo stesso capitalismo e le stesse cosiddette libere e cosiddette rigorose leggi del mercato sono ben lungi dal potersi proporre come realtà non transeunti; e d’altronde il consenso “maggioritario”, ottenuto e manipolato con sistemi anche molto raffinati – quelli tipici delle postdemocrazie – non può comunque in nessun caso pensar di sostituirsi a valori fondati su un criterio assiologico. Ecco perché non è affatto ozioso il problema delle radici cristiane dell’Europa: radici che non gelano, che non debbono esser considerate alla stregua di sia pur venerabili oggetti da museo ma che sono, semmai “gioielli di famiglia”: quelli cioè che costituiscono un “bene-rifugio” e che al momento opportuno possono venir estratti dalla cassaforte e rimessi in circolazione, comunque trasformati, per concorrere alla soluzione di un problema urgente, di una questione indilazionabile. Se oggi, nella sensibilità corrente, i valori dell’Occidente si fondano principalmente su una “democrazia” che sta divenendo sempre più un sistema rappresentativo manipolabile e svuotato di poteri effettivi, nonché sul potere incontestato del mercato e delle sue cosiddette leggi, bisogna avere il coraggio e la lucidità necessari a replicare che l’Europa – la storia e la cultura della quale sono tutt’altro che innocenti dinanzi alla degenerazione materialistica e utilitaristica del mondo - è tuttavia un’altra cosa rispetto ad essa, ed è in grado di fronteggiarla e di fermarla, proprio in quanto e nella misura in cui si regge sulle e si alimenta delle sue profonde radici cristiane, attarverso le quali ci sono giunti anche linfa e succhi delle civiltà ebraica, custode prima della Rivelazione, e delle tradizioni pagane rispetto alle quali il cristianesimo si è posto non come negazione, bensì come compimento e pienezza.

Essere europeisti non ha quindi senso se non si è altresì profondamente comunitaristi e solidaristi; non ha senso se il nostro europeismo si radica in un’istanza di giustizia sociale che va oltre i limiti dell’Europa e che non si lascia intimidire dalla coscienza del fatto incontestabile che la storia europea ha sovente traduto e stravolto quelli stessi principii ch’erano pur inscritti nelle sue stesse radici; non ha senso se si tira indietro dinanzi alla consapevolezza del fatto che costruire un’unione europea, oggi, significa impegnarsi per ristabilire nel mondo un equilibrio che lo strapotere della superpotenza e l’arrogante violenza delle multinazionali stanno minacciando di definitivamente travolgere.

Ma oggi unione europea, nel senso delle istituzioni comunitarie, significa anzitutto Costituzione, politica estera, politica di difesa comune svincolata da forze extraeuropee di sorta. Questi sono i tre obiettivi ai quali bisogna lavorare per sensibilizzare gli europei. Resta indispensabile, per efficacemente portar avanti questo lavoro, determinare un vero sviluppo della coscienza patriottica europea: concretamente intesa come consapevolezza storica e, al tempo stesso, assunzione di responsabilità civiche. Queste le linee di fondo del programma che Identità Europea è chiamata a sviluppare nei mesi immediatamente futuri.




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