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appunti di Romano Ricciotti
Sul fallimento dell'esperienza corporativa in Italia
maggio 2001

La cultura politica contemporanea, compresa quella cristiano-democratica e cristiano-sociale, ignora deliberatamente il pensiero sociale della Chiasa cattolica, e cioè l'autentica "terza via"...

Dopo il crollo del colosso sovietico e del sistema di capitalismo di Stato sorretto da un regime politico sanguinario, si profila il trionfo del liberismo capitalista che si manifesta sovente nel suo aspetto più selvaggio.

Delusi dal fallimento del marxismo -anche di quello dal volto umano- i socialisti europei scoprono la "terza via", il vizio intrinseco della quale consiste nella sua natura socialdemocratica (ispirata cioè a una concezione insieme liberale e socialista).

La cultura politica contemporanea, compresa quella cristiano-democratica e cristiano-sociale, ignora deliberatamente il pensiero sociale della Chiasa cattolica, e cioè l'autentica "terza via".

Ignora in particolare le Encicliche "Rerum Novarum" di Leone XIII ("Non può sussistere capitale senza lavoro nè lavoro senza capitale", § 16) e "Quadragesimo Anno" di Pio XI. Quest'ultima insegnò che "la prima mira, lo sforzo dello Stato e dei migliori cittadini" deve essere quello di "mettere fine alle competizioni delle due classi opposte, risvegliare e promuovere una cordiale cooperazione delle varie professioni dei cittadini" (cap. III, § 5). E, premessa una brevissima descrizione dell'esperimento corporativo italiano, ne diede il seguenti giudizio:

"Basta poca riflessione per vedere i vantaggi dell'ordinamento per quanto sommariamente indicato: la pacifica collaborazione delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialistici, l'azione moderatrice di una speciale magistratura".

Ma l'esperienza corporativa era appena ai suoi inizi (La legge di riforma del Consiglio nazionale delle Corporazioni è del 1930; l'Enciclica è del 1931). Il suo esito non fu felice.

Il sistema corporativo italiano finì per fossilizzarsi in un regime istituzionale di carattere burocratico. Le Corporazioni fasciste non avevano natura rappresentativa. La Camera dei Fasci e delle Corporazioni non era eletta, ma i suoi membri erano nominati dal Gran Consiglio del Fascismo. La denominazione di Stato corporativo sarebbe stata esatta solo se alle Corporazioni, private della loro base sindacale, fossero stati attribuiti tutti i poteri dello Stato (W. CESARINI SFORZA, Corporativismo, in Enciclopedia del Diritto, vol. X)

I corporativisti francesi osservarono che ...[nelle Corporazioni italiane] era andato perduto il carattere tradizionalmente proprio degli istituti corporativi, cioè la loro autonomia nei confronti del potere politico.

Nellla valutazione della Storia d'Italia Einaudi (vol. 4, tomo II, p. 1488):

...dietro il velo ideologico delle corporazioni emergevano semplicemente le strutture dello Stato tatalitario ... Ma lo Stato totalitario, preso in sè, non era lo Stato corporativo: era la dittatura di un uomo e di un partito, dietro cui si scorgevano interessi e non ideali.

Secondo LOUIS FRANCK, autorevole economista francese, amico e politicamente affine a Salvemini e ai Fratelli Rosselli:

fino al febbraio del 1934 lo Stato corporativo fascista fu paradossalmente uno Stato senza corporazioni, perché solo allora queste furono create, e in forma del tutto subordinata all'amministrazione statale e al potere politico della dittatura. Nonostante le tesi di certo fascismo "di sinistra" - si pensi a Ugo Spirito - le corporazioni non furono mai altro che nuovi organismi burocratici aggiunti agli altri, ligi strumenti di una politica economica che copriva le sue scelte con la demagogia. L'interesse che, in un mondo scosso dalla crisi, destò il corporativismo fascista durò perlopiù solo il tempo di accorgersi del carattere di espediente politico della "nuova esperienza economica" italiana, e anche cosi può sembrare oggi spropositato. In effetti, bastarono pochi anni per passare dall'interesse per gli aspetti dottrinali e pratici del corporativismo alla preoccupazione ben più impellente per il potenziale reale o presunto dell'economia dell'Italia fascista. Questo percorso è esemplarmente illustrato dai numerosi e approfonditi studi che dal I934 al I939 dedicò alla realtà economica e sociale italiana Louis Franck.

Per lui il corporativismo fu dal I930 al I934 una serie di reazioni difensive alla crisi economica, poi lo strumento di una volontà di potenza che si traduceva nell'autarchia e nell'economia di guerra. La diagnosi, che attribuisce fra l'altro grande importanza allo sviluppo di una nuova classe media di funzionari variamente legata al regime, ritrova l'ispirazione dei grandi esponenti dell'emigrazione antifascista - da Gaetano Salvemini a Carlo Rosselli ad Angelo Tasca - i quali, come ricorda l'autore in una esauriente testimonianza inedita, lo guidarono nei primi passi della sua ricerca. Louis Franck (o Louis Rosenstock-Franck, come si firmava negli anni trenta) è nato nel I906 e si e formato all'Ecole polytechnique di Parigi. Secondo la migliore tradizione di quella grande scuola ha combinato l'attività di pubblico funzionario con gli studi economici e sociali. E' autore in particolare di due libri sull'Italia: L'economie corporative fasciste en doctrine et en fait (I934) e Les étapes dell'economie fasciste italienne. Du corporatisme a l'economie de guerre (I939) [LOUIS FRANCK Il corporativismo e l'economia dell'Italia fascista, a cura di Nicola Tranfaglia (dalla quarta di copertina)].

Giudizio diverso è quello di ZEEV STERNHELL, professore all'Università ebraica di Gerusalemme, ad avviso del quale "con la progressiva identificazione del fascismo con lo stato, le resistenze incontrate nell'applicazione del principio di matrice sindacalista rivoluzionaria modificano sostanzialmente l'equilibrio che si era creato sul piano ideologico tra nazionalismo e socialismo: la dittatura mussoliniana, che trova la sua radice ideale -comune a tutte le componenti del fascismo- nell'orrore per ogni forma di democrazia, darà luogo infine a un regime totalmente privo di caratteristiche di tipo socialista". In definitiva il fascismo fu "una rivoluzione antiliberale, antimaterialistica e antimarxista che non ha precedenti nella storia. Fu una rivoluzione per la nazione nella sia interezza, una rivoluzione politica ma anche morale e spirituale" (ZEEV STERNHELL, Nascita dell'ideologia fascista, Baldini e Castoldi, 1993, pag. 320).

Insomma, il fallimento dell'esperienza corporativa in Italia non fu dovuto -neppure ad avviso dell'autore più ostile (il Franck)- ad intrinseca fallacia o inadeguatezza del principio corporativo (la negazione della lotta di classe). Ma fu causato dalle contingenti condizioni politiche, ossia dal carattere autoritario e burocratico impressole dal regime fascista.




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