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Mario Monti
L'Italia in Europa - o campioni o fuorigioco
Dal Sito internet del Corriere della Sera - domenica, 2 luglio 2000

La discussione


2 LUGLIO 2000
L'Italia in Europa
O campioni o fuorigioco
di MARIO MONTI
(Componente della Commissione dell'U.E.O)

Nel giorno in cui l'Europa - da Rotterdam - è nel cuore di tutti gli italiani, si può forse chiedere anche alla loro mente di soffermarsi per un attimo sull'Europa. Quattro anni fa, in questi stessi giorni, si svolgeva un dibattito aspro. Vi era il rischio che l'Italia, con un programma economico-finanziario non sufficientemente ambizioso, rinunciasse a far parte dell'euro fin dalla sua introduzione, nel gennaio del 1999. Il rischio fu percepito. Divenne per qualche mese la questione nazionale. Il governo Prodi reagì. Il Paese lo seguì, accettando uno sforzo più intenso. L'Italia entrò nell'euro. Non vi fu eliminazione, perché era scattata, di fronte a un rischio ben visibile, la sindrome da eliminazione.

Oggi, l'Italia sta correndo un rischio europeo ancora più grave e più insidioso: Più grave. Non è in gioco soltanto - come allora - la posizione dell'Italia in Europa, ma anche il tipo di Europa che, proprio in questi mesi, si sta costruendo per i prossimi decenni: e alcuni tipi di Europa sarebbero drammaticamente sfavorevoli all'Italia. Più insidioso. Il rischio di quattro anni fa si presentava nudo e crudo: una cifra (il famoso tetto del 3% per il disavanzo pubblico), una data (il disavanzo del '97), una sanzione (l'esclusione dall'euro). Il rischio di oggi è che dalla Conferenza intergovernativa per la riforma del trattato dell'Unione europea nasca una nuova Europa, dalla quale l'Italia sarebbe strutturalmente emarginata. È molto più difficile percepire questo rischio, farne una questione nazionale.

Quanti italiani sanno che la Conferenza intergovernativa è in corso? Quanto discute la classe dirigente sulla posizione che l'Italia dovrebbe tenere? Appaiono molto più importanti le nomine alla Rai o i chiacchiericci quotidiani sui "candidati premier". Ridotta all'osso, la questione è la seguente. A fine anno dovrebbe concludersi la Conferenza intergovernativa, cioè la trattativa tra i quindici Stati membri per modificare il trattato di Amsterdam (meno noto del recentissimo "Manuale di Amsterdam", quello sui rigori, stampato in azzurro) al fine di rendere più funzionale l'Unione europea in vista dell'ingresso di una dozzina di nuovi Paesi.

Può darsi che segua, a scadenza breve, un'ulteriore fase "costituzionale", per ridisegnare più in profondità i compiti e i modi di funzionamento dell'Europa integrata. I recenti interventi del ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer e del presidente francese Jacques Chirac hanno avviato un dibattito importante. Stanno emergendo varie linee, che vogliono rispettivamente:

1) un'integrazione non maggiore di quella attuale (Gran Bretagna e per certi aspetti Spagna) o addirittura minore (i Länder, o regioni, della Germania);

2) un'integrazione maggiore di quella attuale, almeno tra quegli Stati membri che vogliono andare più avanti.

Tale "cooperazione rafforzata" può essere perseguita:

a) in un quadro comunitario, cioè con il pieno gioco istituzionale di Parlamento europeo, Consiglio, Commissione e Corte di giustizia (una delle ipotesi di Fischer);

b) in modo puramente intergovernativo, in pratica al di fuori della Comunità (Chirac).

Finora, nella stampa europea, non hanno avuto particolare risalto prese di posizione dell'Italia in proposito. A me sembra però che solo una delle tre linee (2ª, cioè cooperazione rafforzata in un quadro comunitario) corrisponda alla visione storica dell' integrazione europea che l'Italia ha sempre avuto e ai suoi interessi politici ed economici. Infatti l'Italia vuole una maggiore integrazione e non può perciò accettare la linea 1.

Al tempo stesso, avrebbe molto da temere se la maggiore integrazione avvenisse in modo intergovernativo (linea 2b), attraverso un "concerto delle nazioni". In tale "concerto" - non inquadrato in regole comunitarie fatte osservare dalla Commissione e dalla Corte di giustizia nei confronti di tutti gli Stati, anche i più potenti - una "nazione" che non è sempre tra le più incisive sul piano politico-diplomatico-amministrativo sarebbe spesso soccombente. Con grave danno non solo per il Paese, ma anche per i singoli lavoratori e imprese.

Il guaio è che l'Italia è probabilmente l'unico dei cinque maggiori Stati membri (sia pure in compagnia dei Paesi del Benelux, che hanno un "peso specifico" europeo relativamente alto) a essere chiaramente su quella linea. È anche la linea della Commissione europea, perché è nell'oggettivo interesse della costruzione europea. E la Commissione - come il presidente Romano Prodi ha indicato - è impegnata a fondo per affermarla. È però fondamentale che l'Italia - in una conferenza che è in ultima analisi tra i governi degli Stati membri - sappia costruire consenso operando sui margini di indeterminatezza che ancora sembrano sussistere sia in Germania sia in Francia, nonché sugli Stati membri più piccoli che si sentono solitamente meglio tutelati in un quadro comunitario. Ma per essere forte e persuasiva, nei prossimi mesi e nei prossimi anni, una posizione italiana dovrebbe avere spessore: non essere, cioè, puramente espressa dai rappresentanti politici e diplomatici del Paese, ma essere "sentita" dalla sua classe dirigente politica ed economica.

Sarebbe perciò utile che si aprisse un dibattito, nel quale le singole forze politiche e sociali prendessero posizione sia sui temi di fondo, sia su specifiche questioni concrete. Esempi di temi di fondo. È ancora importante, e perché, ed è realistico che l'Italia eserciti un ruolo di leadership nella costruzione europea e come dovrebbe orientarla? Se è importante, lo è anche per le imprese e i lavoratori, od ormai i fenomeni di mercato prescindono dal peso politico degli Stati e dalla forma istituzionale dell'integrazione europea? Sarebbe opportuno, e possibile, ridurre il "tasso di litigio domestico" affinché il Paese avesse più peso sul piano internazionale?

Esempi di questioni specifiche. Per la maggioranza. Quanto rilievo ha oggi, nella vita della maggioranza, la questione europea? Se tale questione, come qui sostenuto, è pressante quanto lo era la rincorsa all'euro, non potrebbe essa offrire un filo conduttore per una politica meno rissosa? Si vede con preoccupazione il possibile emergere di un asse franco-tedesco? Come dovrebbe regolarsi il governo?

Per l'opposizione. L'opposizione ammira le politiche interne liberistiche dei governi spagnolo e britannico. Spagna e Gran Bretagna, al tempo stesso, non hanno certo un ruolo di spinta verso una maggiore integrazione. È possibile praticare quelle politiche e nel contempo battersi per un quadro di più spinta integrazione comunitaria? Che orientamento assumerebbe l'opposizione, se fosse al governo? E quale posizione ritiene che il governo dovrebbe assumere già oggi, nella Conferenza intergovernativa?

Per le organizzazioni imprenditoriali e sindacali. In che direzione stanno cercando di influenzare la posizione dell'Italia al tavolo della Conferenza intergovernativa? E, attraverso le loro organizzazioni europee, le posizioni degli altri governi? Le imprese, in particolare, chiedono sempre che l'Unione europea faccia politiche più favorevoli alla competitività dell' Europa. Oggi, la lentezza di certe decisioni comunitarie ostacola la competitività e tale lentezza è spesso dovuta alla regola dell'unanimità. Stanno le imprese premendo sui vari governi perché accettino di superarla?

Se l'Italia non concentrerà rapidamente la propria attenzione su come vuole stare in Europa e su come vuole che l'Europa diventi, si troverà presto in fuorigioco. Il rischio è meno visibile, ma non meno grave, di quello di quattro anni fa. Sarebbe amaro essere nell'euro, magari campioni d'Europa, ma sempre più ai margini di un'Europa sgradita.

Mario Monti



Lunedì 3 luglio
Prodi
L'appello di Monti? "Ha ragione".

CAMALDOLI (Arezzo) - Sale in cattedra il professor Romano Prodi. Dà lezione di Europa, come presidente della Commissione Ue, al convegno di Camaldoli. Vola alto, ma è così preso da ciò che spiega che sfora il tempo previsto e rischia di perdere l'aereo. Dà lezione e bacchetta un'Italia che pare stia a guardare, proprio quando "è partito il discorso dell'alleanza franco-tedesca". Mentre, a maggior ragione "deve assumere una funzione di trascinamento. C'è bisogno dell'Italia, di un Paese di profonde radici europee che utilizzi questa alleanza sapendo che è indispensabile, per il futuro dell'Unione Europea, che si ponga come garante verso coloro che sono impauriti da questo grande disegno". E quindi, dice, pure per questo condivide l'articolo di Mario Monti sul Corriere.

Anche nella parte dedicata a maggioranza e opposizione? "Ho detto che lo condivido. Ne abbiamo largamente parlato. Non sono articoli che nascono così", è la secca risposta. Nell'editoriale, di ieri, il Commissario europeo chiedeva tra l'altro: quanto rilievo ha oggi, nella vita della maggioranza, la questione europea? Che orientamento avrebbe l'opposizione, se fosse al governo, verso Spagna e Gran Bretagna che non hanno un ruolo di spinta verso una maggiore integrazione? Prodi d'accordo con Monti.

Dini
"Ma il governo è già in prima fila"

Quasi stizzita, invece, la risposta del ministro degli Esteri, Lamberto Dini, venuto a sentire le parole del Professore sull'Europa, "parole perfettamente condivisibili, è la linea che porta avanti il governo. L'Italia partecipa in prima fila nella costruzione dell'Europa: non c'è bisogno che ce lo dica Monti". Ieri, Prodi ha parlato del sogno europeo, un sogno che potrebbe riunire "democraticamente" 500 milioni di persone. Ma ha ammesso le difficoltà, e il pericolo che il sogno non si realizzi.

Ma anche se il Grande Disegno dovesse fallire, vale la pena che l'Italia si impegni, anche perché "ciò consentirebbe un grande salto, e tutti i problemi interni avrebbero più respiro". Ma come, sembra dire, c'è una Europa da costruire e voi vi attardate a litigare di premiership e altri piccoli provincialismi. E se bacchetta la maggioranza il rimprovero vale anche per i suoi, quasi tutti presenti. Quindi, si può fallire, ma la partita è assolutamente da giocare. In filigrana, ci può essere una chiave di lettura diversa. Cari amici del centro-sinistra, c'è il Grande Progetto dell'Ulivo che vi aspetta e voi, invece, state a litigare sui candidati, sulle egemonie e date per scontata la vittoria del Polo: il disegno può fallire, ma è vitale tentare. E, tanto per continuare, invita i presenti a guardare oltre.

"Perché dall'Europa c'è da imparare. Qui si parla di federalismo e non si sa bene che cosa sia". E' indispensabile conoscere, come pure è importante guardare soprattutto ai fatti. E ricorda il "caso Haider" in Austria: un partito antidemocratico in un governo democratico. "Non ho alcuna simpatia per Haider (che ieri ha minacciato il veto dell'Austria all'allargamento dell' Europa, ndr), mi richiama alcuni aspetti della Lega. Ho usato con Haider lo stesso metodo usato con Bossi. Mi hanno accusato di essere fragile. Ma io prendo sul serio i fatti, non le parole. Bossi faceva le grandi adunate (con Prodi a Palazzo Chigi, ndr), ma non mi commuovevano perché io sono padano e lui è svizzero. Ma quando ci fu l' assalto a San Marco, abbiamo reagito in maniera durissima". E sottolinea che l'Europa non può abbandonare un Paese in difficoltà, in questo caso l'Austria.

Il Professore spazia dagli Usa alla Russia, dai Balcani all'Africa. "Ma ora questa Europa si allarga o si spacca, e noi non possiamo prenderci la responsabilità di far rinascere il Muro di Berlino". Ricorda poi alla Spagna, che oggi chiede "di costituzionalizzare gli aiuti, come dire: non una lira in meno a Madrid", che quando entrò "in Europa era povera, ora è cresciuta".

No, dunque, agli egoismi nazionali. E gli spiace che il progetto Genoma non sia nato in Europa: "I cervelli li abbiamo". L'Europa non è solo mercato e politica, potrebbe andare molto oltre per cultura e scienza, "anche col sentimento".

Sergio Stimolo



domenica, 9 luglio 2000

Il dibattito sull'UnioneItalia-Europa
Una questione di fiducia
di Tommaso Padoa Schioppa

Sarebbe bello che nella riflessione sull'Italia e l'Europa, sviluppatasi in modo serio e aperto nelle ultime settimane, fossero presenti anche i giovani, chi oggi non ha ancora trent'anni. Quest'articolo è scritto pensando soprattutto a loro. Il dibattito verte sul loro futuro.

1957. A rileggere oggi la discussione che si svolse oltre quarant'anni fa, colpisce come autorevoli figure dell' economia e della cultura quasi escludessero che l'Italia potesse trarre vantaggio da una partecipazione al nascente Mercato Comune.

1978. La definizione del Sistema monetario europeo (proposto da Schmidt e Giscard d'Estaing) fu affidata ad un comitato di tecnici nel quale l'Italia era assente. Al momento di decidere se aderire o no all'accordo, alcuni degli uomini e delle istituzioni più eminenti del Paese si pronunciarono contro l'ingresso della lira nello Sme.

1996. Nel settembre di quattro anni fa, la decisione del governo italiano di porre l'ingresso nell'euro a cardine della propria azione fu accolta con incredulità e scetticismo da segmenti importanti della società.

Se vigesse il buon costume di riconsiderare, alla luce del poi, le cose dette e fatte prima, si concluderebbe che in quelle circostanze (e in altre che potrei ricordare) chi voleva l'Italia pienamente coinvolta in Europa ebbe ragione, chi sconsigliava l'impegno ebbe torto. A meno di due anni dall'avvio dell'euro, infatti, l'economia cresce bene, le pubbliche finanze sono a posto, si creano molti posti di lavoro.

Le esitazioni o la contrarietà ad un pieno impegno europeo dell'Italia erano spesso fondate non sull'ostilità al progetto, bensì sulla sfiducia di molti italiani in se stessi.

Nascevano dalla convinzione che l'impresa europea fosse superiore alla capacità di carico delle nostre strutture politiche, economiche e sociali. Erano alimentate da profonda disistima verso la classe politica. Dal confronto con i Paesi più forti saremmo stati travolti.

Ora che l'unificazione europea comincia un nuovo ciclo, vale la pena di soffermarsi su un elemento dei nostri atteggiamenti verso l'Europa che potremmo chiamare la questione di fiducia sull'Italia europea. In altri Paesi l'anti-europeismo si associa alla convinzione di essere abbastanza forti da poter fare a meno dell'Europa. In Italia si è spesso associato al timore di essere troppo deboli per poter stare in Europa.

Se si guarda all'esperienza di cinquant'anni, la sfiducia è palesemente infondata. Innanzi tutto, l'Italia ha fatto bene all' Europa. Ha contribuito in modo determinante a che l'Unione si facesse, e si facesse con le caratteristiche di democrazia e di soprannazionalità che la rendono una realtà del tutto nuova e originale nella storia delle relazioni tra i popoli. Ce l'ha ricordato molto bene Daniel Cohn-Bendit su questo giornale tre giorni fa. Sembra talvolta che solo noi italiani non lo vediamo.

In secondo luogo l'Europa ha fatto bene all'Italia. Non c'è dubbio che dall'Unione europea siano venuti i maggiori impulsi a progressi e modernizzazioni che nessuno oggi rinnegherebbe. Tra i moltissimi esempi possibili, mi limito ad alcuni che ho conosciuto direttamente negli ultimi vent'anni: la riforma della legislazione bancaria e finanziaria e la liberalizzazione valutaria, la disciplina del cambio per combattere l'inflazione, il modello di una legislazione sulla concorrenza, l'indipendenza della politica monetaria e della Banca d'Italia, le spinte al risanamento della finanza pubblica. A ogni passo le resistenze furono forti e si basavano su professioni di sfiducia: non ce la facciamo, è un salto nel buio, andiamoci piano.

"Profeti di sventura" li chiamava Giovanni XXIII, e nemmeno il suo viso sorridente poteva attenuare la terribilità di quelle tre parole. In che Italia e in che Europa vivrebbero i giovani, se i profeti di sventura fossero stati ascoltati? Com'è ovvio, antichi nostri difetti e carenze non sono scomparsi per il fatto di stare dentro l'Europa: difetti di organizzazione, di cultura dello Stato, di buona amministrazione, di senso dell'interesse collettivo. Paesi dove quei difetti sono minori ricavano dall'Europa un sovrappiù di valore che, però, è a disposizione di chiunque sappia coglierlo.

Ma saremmo stati, da quegli stessi difetti e carenze, meno penalizzati se ci fossimo tenuti fuori dell'Europa? È paradossale, ma il legame tra Italia ed Europa ha tratto vantaggio anche da circostanze che erano in sé avverse: un sistema politico senza possibile ricambio di governo e del quale per lungo tempo le forze di opposizione rifiutavano i tre pilastri fondamentali delle libertà "borghesi", dell'economia di mercato, della collocazione internazionale. L'Europa era per l'Italia una salvaguardia di quei pilastri: anche da ciò nascevano la continuità della politica europea e lo straordinario sostegno di cui essa godeva nell'opinione pubblica. "Anche", ma non "soprattutto": sopra tutto vi furono l'opera di una classe politica più lungimirante della stessa classe dirigente, e una cultura popolare impregnata di valori universalisti.

Che il dibattito oggi si faccia più aperto, e che vi emergano diversità e spregiudicatezze, è un avanzamento e una maturazione. E se le libertà democratiche e i principi dell'economia di mercato sono condivisi da maggioranza e opposizione, è interesse vitale dell'Italia che anche gli elementi essenziali della sua collocazione internazionale lo siano. In primo luogo, la presenza attiva in Europa, perché le libertà democratiche e i principi del mercato là hanno, ancor oggi, la principale salvaguardia.

Fra i molti crinali che percorrono la storia della partecipazione italiana all'unificazione europea, quello che distingue i fiduciosi dagli sfiduciati risale molto indietro nel tempo. Si radica nei secoli del dominio straniero, nel ritardo nella nascita di uno Stato unitario e di una struttura industriale, nell'emarginazione dalla grande storia europea dopo il Rinascimento, nell'umiliazione della guerra perduta. Forse, soprattutto nel Mezzogiorno, nasce anche da quell'enorme depauperamento di talenti che fu l'emigrazione di massa; emigrarono, infatti, le persone meno rassegnate, le più intraprendenti, quelle che sentivano in sé le energie per riuscire nella vita.

Ma nella classe dirigente la sfiducia era anche intrisa di un particolare pigmento che nella società italiana, particolarmente fra gli intellettuali, è stato considerato, per gran parte del dopoguerra e spesso ancor oggi, ingrediente immancabile dell'intelligenza: il pessimismo. Con ciò intendo un far prevalere, tanto nell'analisi quanto nelle decisioni, la valutazione dei rischi rispetto a quella delle opportunità. Di qui un diffuso criterio per giudicare: se l'esito è cattivo il pessimista ha avuto ragione, se l'esito è buono l'ottimista è stato fortunato. "Gli assenti hanno sempre ragione", osserva amaramente Paolo Sylos Labini.

In realtà, cinquant'anni di rapporti tra Italia e unificazione europea insegnano che proprio l'intelligenza, se così chiamiamo una corretta analisi delle situazioni e delle prospettive, indicava qual era l'interesse dell'Italia, quali le possibilità di riuscita, quale il costo della rinuncia e dell'estraniazione. E l'insegnamento può servire per il futuro.

I DOCUMENTI

La proposta francese
(avanzata dal presidente Jacques Chirac):

- no all'idea federalista;
- un Europa a due velocità, centrata sulle "cooperazioni rafforzate", cioè su una stretta integrazione realizzata da un gruppo di stati pionieri;
- presidente dell'Unione europea scelto dagli Stati;
- creazione della figura del "Segretario", che coordini i pionieri (con conseguente indebolimento della Commissione europea;
- elaborazione di una Costituzione europea che riguardi soprattutto gli Stati e indichi le attribuzioni di governi nazionali ed europei;
- ruolo fondamentale dell'asse franco-tedesco.




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