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Romano
Ricciotti
Per una giustizia non liberale e non marxista
Da AREA - Febbraio 2003
 
 

l'equilibrio perpetuo fra i tre poteri (Legislativo, Esecutivo e Giudiziario) non sarebbe stato possibile perchè presto o tardi uno dei tre avrebbe finito per prendere il sopravvento sugli altri...

Risale a Charles Louis de Secondat de Montesquieu la teoria, astratta, della divisione dei poteri dello Stato, ove si sosteneva che "il potere deve arginare il potere". Il pensatore si muoveva in un ambito squisitamente politologico, nel quale poco importa che la macchina giudiziaria funzioni bene, purchè vi sia equilibrio fra i poteri (Legislativo, Esecutivo e Giudiziario). Ma lui stesso aveva preveduto (annota Guido Zanobini nell'Enciclopedia italiana, ediz. 1949, voce Poteri) che "l'equilibrio perpetuo fra i tre poteri non sarebbe stato possibile perchè presto o tardi uno dei tre avrebbe finito per prendere il sopravvento sugli altri, e che questo sarebbe stato il potere legislativo".

Non previde, però quel fenomeno, denominato "partitocrazia", che si manifesta con l'occupazione dei poteri Legislativo ed Esecutivo a opera dei partiti.

Dall'occupazione resta fuori l'Ordine giudiziario, che rappresenta, con tutti i suoi limiti e difetti, l'ultima difesa contro il prepotere della politica e verosimilmente per questa ragione viene attaccato, secondo le contingenze politiche, dalla Sinistra e dalla Destra.

Quando, nel 1965, Magistratura democratica enunciò al Congresso dell'Associazione nazionale magistrati di Gardone le sue tesi sulla politicità della giurisdizione, si affidò, per la relazione congressuale, non a un cattedrattico della schiera dei "giuristi democratici" (leggi: di osservanza comunista) ma al professor Giuseppe Maranini, il maggior politologo liberale di quegli anni.

Il professore intitolò la relazione: Funzione giurisdizionale e indirizzo politico e vi sostenne che "al singolo giudice e alla magistratura nel suo complesso" appartiene una "funzione di indirizzo politico".

La tesi di Maranini, e di Magistratura democratica, si armonizza con il pensiero -liberale- corrente negli Stati uniti d'America, alla stregua del quale "il giudice va considerato un attore politico" ( v. Guarnieri, Magistratura e politica in Italia, Il Mulino, 1992, p. 37).

Chi ritiene, come la Destra, che il giudice non è un organo politico, non può ispirarsi a siffatto pensiero liberale.

Tanto meno si può seguire la più compiuta elaborazione delle dottrine della Sinistra politica e giudiziaria, che, in un ormai celebre Convegno di Catania (maggio 1972 - atti pubblicati da Laterza nel 1973) teorizzarono L'uso alternativo del diritto. Magistratura democratica e il mondo politico-accademico della Sinistra proponevano di utilizzare il diritto vigente per restituire "alla classe operaia la capacità creativa della storia", prendendo (i giudici) coscienza "della natura politica della funzione giudiziaria".

Liberali, Magistratura democratica e Sinistra sono tutti d'accordo sulla concezione politica della giurisdizione e dunque del giudice.

Tutto ciò ha un significato preciso: se la giurisdizione è politica, il potere politico deve controllare la giurisdizione. L'ispirazione liberale e quella della Sinistra non possono essere dunque poste alla base delle riforme giudiziarie.

Le riforme

Il Consiglio superiore della magistratura

A un organismo costituzionale capace di sottrarre l'Ordine giudiziario al governo -politico- del Ministro della Giustizia si pensò in tempi non sospetti, ossia all'epoca nella quale si tentò di elaborare la Costituzione della Repubblica sociale italiana. Il Senatore Vittorio Rolandi Ricci, incaricato da Mussolini di rivedere il progetto di Costituzione del ministro Carlo Alberto Biggini, redasse un testo nel quale prevedeva che le ammissiomi, le promozioni e le rimozioni dei magistrati erano attribuite a una Commissione di quindici membri, composta da magistrati della Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, presieduta dal presidente della Cassazione. Il potere politico non avrebbe avuto alcuna parte nella sua composizione.

La Costituzione della Repubblica italiana si differenzia da quel progetto per la presenza di membri eletti dal Parlamento nella proporzione di un terzo di tutti i componenti.

Nel Disegno di legge per la riforma dell'ordinamento giudiziario presentato dal Ministro della Giustizia al Senato il 29 marzo 2002 non è previsto alcunchè in ordine al Consiglio superiore. La ragione sta nel fatto che il Consiglio era già stato oggetto di una legge di riforma appena promulgata (Legge 28 marzo 2002 n. 44).

I suoi componenti sono stati ridotti da trenta a ventiquattro, dei quali sedici magistrati e otto politici. Con questa composizione, i membri politici possono paralizzare l'attività del Consiglio, astenendosi (anche solo in cinque) dal partecipare alla seduta e così facendo mancare il numero legale. Con la stessa legge è stato modificato il sistema di elezione dei componenti magistrati del Consiglio, introducendo il sistema maggioritario in collegio unico nazionale. Questo sistema ha avvantaggiato la Sinistra giudiziaria che ha conquistato otto seggi su sedici, mentre ne aveva otto su venti, a danno della corrente "moderata" di Magistratura indipendente, che è passata da quattro a due.

Il Centro-destra ha aumentato così il tasso di politicizzazione del Consiglio attribuendo maggior potere ai componenti di estrazione politica e avvantaggiando la Sinistra giudiziaria, con pregiudizio della componente "moderata", da sempre contraria alla concezione politica della giurisdizione.



La Commissione "Tangentopoli"

La Commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha varato in questi giorni il testo del Disegno di legge per l'istituzione di una Commissione d'inchiesta su "Tangentopoli" con il compito di accertare -senza esclusione per i processi in corso- se si sia indagato su tutte le parti politiche, se vi siano stati intenti persecutori, se esistano collegamenti fra correnti di magistrati e organizzazioni politiche. Anche questa indagine del Parlamento sulla Magistratura va a iscriversi, secondo il parere di molti osservatori, nel quadro del controllo politico sulla giurisdizione, in violazione dell'articolo 104 della Costituzione, a norma del quale "la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere".

Vi è chi sostiene che, se questa è la linea di tendenza, la prossima riforma riprenderà una vecchia proposta consistente nel rovesciare la proporzione dei componenti del Consiglio superiore, portando a due terzi i politici e a un terzo i magistrati e pervenendo così al controllo pieno della politica sulla giurisdizione.

Il Pubblico Ministero

I problemi riguardanti il Pubblico Ministero, in Italia, sono numerosi e complessi. E' sufficiente indicarne uno: la c.d. separazione delle carriere. L'idea dominante nella maggioranza e in parte dell'opposizione è quella di collocare i magistrati del Pubblico Ministero in un ruolo diverso da quello dei giudici, con concorsi di accesso diversi e con due consigli superiori.

Le ragioni della separazione appartengono sostanzialmente alla psicologia giuridica. Non è funzionale, si dice, alla c.d. terzietà del giudice che magistrati del pubblico ministero possano accedere alla funzione giudicante. Soprattutto in un sistema processuale di tipo accusatorio, la forma mentis (o, se si vuole, la deformazione professionale) dell'accusatore è diversa da quella del giudice, con conseguenze negative sulla garanzia di neutralità del giudizio.

All'indipendenza di giudizio dei giudici nuocerebbe anche la "contiguità psicologica" con magistrati requirenti che appartengono allo stesso ordine, lavorano nello stesso palazzo e bevono insieme il caffè.

Si risponde che la tradizionale appartenenza dei magistrati del pubblico ministero e dei giudici all'Ordine giudiziario non priva i giudici della necessaria autonomia di giudizio. Il Procuratore generale della Cassazione ha riferito, nel discorso inaugurale per il 2003, che, nel 2002 i procedimenti penali nei quali è stata esercitata l'azione penale sono stati 543.200, e le sentenze di non luogo a procedere, di proscioglimento e di assoluzione sono state 64.602 (11,89%). Tenuto conto tuttavia che taluni esiti non sono rigorosamente classificati come condanne o come proscioglimenti, il rapporto percentuale fra le seconde e i primi può ritenersi attestato intorno al 15%. E', questa, nella valutazione del Procuratore generale, una percentuale del tutto fisiologica, che dimostra e conferma l'esercizio prudente dell'azione penale. E, si può aggiungere, l'impermeabilità dei giudici ai colleghi del Pubblico Ministero. Insomma, la "contiguità psicologica" pare non avere effetti.

Negli Stati uniti d'America, secondo quanto riferisce un magistrato all'esito di un viaggio di studio, "la provenienza dei giudici è equamente ripartita fra l'avvocatura e la pubblica accusa" (Patrizia Caputo, Critica penale, I - 1998).

La ragione più pesante addotta contro la separazione dei ruoli è quella che attiene alla nuova figura di magistrato requirente che ne deriverebbe: un super poliziotto con le garanzie costituzionali del giudice. Dopo di ciò, si aggiunge, non potrebbe sfuggire che, se la funzione è di polizia, il Pubblico Ministero deve essere assoggettato al potere politico, come nell'Italietta liberale.

Per ora, nel Disegno di legge governativo, si parla soltanto di distinzione delle funzioni. E', questa, una formula di comodo perchè le funzioni fra pubblico ministero e giudice sono già ben distinte. I critici sostengono che, con la distinzione delle funzioni, si vuole in realtà rendere il passaggio fra quella requirente e quella giudicante così difficile da pervenire al risultato pratico della separazione dei ruoli. La qual cosa è nell'aria, se si tien conto di voci perentorie provenienti da Forza Italia e dallo stesso Presidente Berlusconi, il quale ha affermato "con decisione" che "ora è necessaria la separazione delle carriere nella magistratura" (ANSA, 3 dicembre 2002)

Il processo penale

E' in corso l'elaborazione di ulteriori modificazioni al codice di procedura penale (progetto Anedda, poi Pittelli), l'approvazione delle quali, a giudizio di osservatori esperti, renderà ancora più macchinoso e lento il processo penale. A questo proposito qualcuno fa notare perfidamente che l'onorevole professore Carlo Taormina, personaggio noto per la sua franchezza, ha dichiarato (Il Corriere della Sera, 14 gennaio 2003) che "la lunghezza dei processi è diventato uno strumento di garanzia da una magistratura che lascia a desiderare soprattutto sotto i profili della professionalità e dell'imparzialità".




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