L’identità di un popolo, la sua consa- pevolezza, il suo orgoglio passano attraverso la valorizzazione della sua memoria storica, attraverso il ricono- scimento di una esperienza acquisita dalla conoscenza della storia. L’e sperienza della storia insegna non solo il passato, ma il futuro. È però necessario leggere la storia attenti a non entrare nella spirale dei luoghi comuni, delle interpretazioni forzate che vedono la verità solo dalla parte dei vincitori, dimenticando l’universo di chi è stato vinto ma ha combattuto, ed è morto, in nome della sua religione, della sua tradizione, della sua cultura.
Così è stato in Francia nel 1789, come in Italia dieci anni dopo. I vandeani come i sanfedisti, i toscani come i lucani, hanno intuito il significato irriverente e blasfemo dei simboli portati dalla rivoluzione, di quegli alberi della libertà piantati davanti alle loro chiese. Quella società, fatta di popolo e terra, di casa e di pane che stentava a comprendere le filosoferie su parole lontane come Libertà, uguaglianza, fraternità, ha subito colto la lampante contraddizione di una libertà astratta che veniva a privarla delle piccole libertà di ogni giorno, di una uguaglianza apparente che mutava solo il padrone cui obbedire, di una fraternità illusoria nel cui nome vedeva massacrare ogni giorni i suoi figli. La storiografia ufficiale ricorda gli uomini che spontaneamente si opposero a questa invasione come volgari briganti.
Brigante un intero popolo, che ha scritto con il suo sacrificio un’epica, l’«epica del mondo rurale» e della sua lotta dimenticata. Briganti, o meglio insorgenti, per desiderio di riscatto, di affermazione di un mondo e dei valori che lo hanno guidato da sempre. Contrapposti a loro, i rivoluzionari francesi e l’élite giacobina italiana portatori di una visione del mondo completamente antitetica a quella del Trono e dell’Altare.
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