la piccola antologia dei sapori del Garda

Associazione I Ghiottoni


Condotta del Garda Veronese

direttore Angelo Peretti



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La piccola antologia
Clicca sul nome dell'autore per andare al suo scritto sulla cucina e sui piatti del Garda

Bartolomeo Platina
Bongiani Grattarolo
Bartolomeo Stefani

Johann Wolfgang Goethe

Enea Bignami

Agostino Pignolati

Ippolito Nievo

Giuseppe Solitro

David Herbert Lawrence

Floreste Malfer

Riccardo Bacchelli


La piccola antologia
La piccola antologia è stata ideata in occasione della rassegna enogastronomica "Sapori del Garda e dintorni", tenutasi in otto ristoranti del Garda orientale e del Baldo qualche anno fa.

Bibliografia
Vai alla bibliografia della piccola antologia

Storie di piatti gardesani
La storia e le tradizioni dei piatti fondamentali del Garda: clicca sul nome per andare alla scheda

Risotto con la tinca
Bìgoi co le àole
Minestrone con le castagne
Sardéne en saor
Sisàm
Carpione ai ferri

Luccio in salsa
Polenta carbonèra
Anara col pién
Carne salàda


Bibliografia
Vai alla bibliografia de «La cucina tradizionale del lago di Garda»
Sapori perduti
La simbologia dell'alimentazione in area gardesana: clicca qui sotto per andare al testo

El chisöl per i pòri morti
Il gambero nell'Ultima Cena di Santa Cristina a Ceredello
L'onesto piacere del carpione
Fra i testi più noti della letteratura "gastronomica" italiana c'è il quattrocentesco "De honesta voluptate et valetudine" di Bartolomeo Sacchi, detto il Platina. Vi si tratta anche del carpione, ma sbaglia il Platina quando sostiene che qui "più che altrove" se ne pesca, perché questo salmonide vive invece solo nelle acque gardesane. Il passo è nella pregevole traduzione italiana di Emilio Faccioli per Einaudi.
"Mi stupisco che niente di scritto intorno ai carpioni abbia lasciato Plinio, il quale molto spesso fa menzione del Benaco, celeberrimo lago del territorio veronese, nel quale più che altrove si pescano i carpioni. Questi pesci si cucinano come si preferisce. Per conservarli a lungo, non appena pescati si devono mettere sotto sale per due giorni, poi si friggono nell'olio finché sono ben cotti. In questo modo si possono conservare anche per un mese, sebbene siano meno gustosi e meno salutari, e persino di più, se sono stati cotti due volte, come altri pesci; ma se non vengono fritti non sarà possibile conservarli così a lungo".
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Una frittura "maccheronica"
Sul Garda, a Toscolano, venne stampata un'edizione cinquecentesca delle "Macaronee" del monaco-poeta Teofilo Folengo, alias Merlin Cocai, famoso per usare la "lingua maccheronica", metà latino e metà dialetto. C'era, su quel volume, un epigramma tutto dedicato al Benaco ed alle gran fritture di pesce che si possono gustare sulla riviera, cotte con l'olio gardesano nelle padelle provenienti da Brescia. Eccone una versione italiana.
"Come sa far tutto a puntino la natura, come tutto procede bene quando ci pensa lei! C'è un lago in Italia, che adesso si chiama di Garda, le cui acque balzan su come quelle del mare in tempesta. Si mangia sempre buon pesce da quelle parti: sardéne, anguille, carpione, tinca, trote. Ma senza il palladio liquore che valgono i pesci? Che valgono se non friggono nell'olio in una nera padella? Ecco perché tutt'intorno le rive sono cariche d'olivi e perché la vicina Brescia fornisce i suoi vasi di ferro. Nascono dunque qui, insieme, olio, pesce, pescatore e perfino la stessa padella che serve a friggerlo, il pesce".
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Olio multiuso
Fra le cose mirabili del Garda, Bongiani Grattarolo, autore d'una cinquecentesca "Historia della Riviera di Salò", ci mette anche l'olio tratto dalle olive coltivate in terra benacense. Un prodotto sopraffino in cucina, ma anche adatto ad altri usi.
"Ci si colgono poi Olive di cui si spremono Ogli piu purgati, e piu odorosi, che quei di Piceno, di Ficione, di Venapro, e di Atene medesima, non solo per acconciar l'insalate, o per frigger i Pesci, e molte altre vivande: ma per le medicine cosi semplici, come alterate da fiori, da herbe, da radici, e da gomme, e da altre droghe. Massimamente quel che viene spremuto dall'olive prima che si facciano bollire, al qual dicono oglio Vergine. Questi danno commodità à gli huomini, & alle donne di leggere, studiare, scrivere, filare, tessere, cucinare, & far altre facende di notte, e di giorno ancora nei luoghi oscuri, senza che offendano la testa col mal'odore, o macchino le persone, e le cose di fastigi".
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Non saper che anguille pigliare
E' nel 1662 che a Mantova, "appresso gli Osanna, Stampatori Ducali", viene pubblicata "L'arte di ben cucinare" di Bartolomeo Stefani. Vi si parla di parecchi prodotti gardesani, com'è il caso delle anguille, per le quali s'apre una disputa: meglio quelle del Garda, di Comacchio o del Po?
"Molte contese vi sono intorno all'Anguilla, circa la preminenza. Comacchio vorrebbe la gloria di produrre le più delicate. Il Lago di Garda anch'egli gagliardamente s'oppone per portarne il vanto. Il Po' anco esso contrasta per questa faccenda. Io però non voglio hora decidere la lite, accioche queste acque quando havessero da me sentenza contraria, con l'orgoglio dell'onde loro non sommergessero le mie ragioni. Dico solo per l'esperienza ne tengo, che tutte sono buone, in particolare arosto, polverizate con pane, polvere di canella, mastice, e zuccaro, servite calde".
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La trota più prelibata
Nel 1786 approdò sul Garda uno dei più grandi nomi del firmamento letterario europeo: Johann Wolfgang Goethe. Di quel viaggio lo scrittore tedesco ci ha lasciato ricordo prezioso nel suo "Italienische Reise". Ed è sotto la data del 12 settembre che Goethe ha annotato il suo incontro col Benaco, "questo maestoso spettacolo della natura". Soffermandosi anche sulla cena servitagli da un albergatore di Torbole, in un passo che leggiamo nella versione italiana, apparsa nel 1907 a Napoli, di uno dei più grandi traduttori goethiani: Eugenio Zaniboni.
"L'albergatore mi partecipò, con enfasi tutta italiana, che si sarebbe stimato felice di potermi servire la trota più prelibata. Queste trote son prese vicino a Torbole, dove il fiume scende dai monti, e nel punto in cui esse tentano di salire a ritroso. L'imperatore ricava da questa pesca mille fiorini per il solo appalto. Non si tratta veramente di trote; queste di Torbole sono grandi, del peso talvolta di cinquanta libbre e picchiettate per tutto il corpo fino alla testa; ma il sapore, fra quel della trota e del salmone, è delicato e squisito".
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Tartufi per l'impero
Si deve a Giuseppe Franco Viviani la pubblicazione di alcune relazioni, conservate presso l'Accademia d'Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, sulla situazione del territorio veronese al tempo della fine della Repubblica di Venezia. In quella indirizzata all'Accademia in data 3 agosto 1791 dal nobile Agostino Pignolati a proposito di Caprino, ai piedi del Baldo, si legge qualche notizia del tartufo.
"Le colline egualmente ubertose di grani sono anch'esse spezialmente ove la terra, è bell'armenica come lo è tutta la campagna, oppura ove è argillosa, non tanto però ove è cretacea, ma tutte essendo di viti, di pochi gelsi, ed ulivi impiantate sono dall'industria, e notabile dispendio a tal segno rese ubertose, che puossi mettere in questione, se più renda la campagna, o le colline in proporzione di terreno, ed oltrecciò sono anco arricchite de' preziosi tartuffi, li quali a preferenza d'ogni altro luogo e vicino e lontano sono ad onta di esorbitante prezzo ricercati, e spediti in lontane regione, e la imperial mensa di Germania per cinque, o sei mesi dell'anno viene ogni giorno imbandita di questo prelibatissimo frutto di Caprino".
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Feigen! Feigen!
E' una sorta di guida turistica scritta a mo' di diario quel volume "Il lago di Garda" che vide la luce nel 1873 a firma di Enea Bignami. E vi si ironizza sulla passione dei visitatori tedeschi per i fichi.
"S'intende come dai Cimbri in qua abbia sempre fatto gola ai Tedeschi questa bella contrada, ma ciò che più li attira, la cagione precipua delle invasioni barbare non l'hanno avvertita nè gli antichi nè i moderni filosofi della storia; ed io, l'ho scoperta stando in piazza di Riva! Non è l'aria temperata, non le acque azzurre, non la vite, non i lauri e nemanco il limone in fiore; nulla di tutto ciò: è il fico fresco! Feigen! Feigen!, gridano entusiasti i biondi uomini, le bionde donne ed i biondi bimbi all'aspetto, del mai veduto fico fresco! E sono da compatirsi; in vita loro non hanno mangiato che fichi secchi! Avviene come di chi non avesse veduto in fatto di fanciulle, che delle mummie d'Egitto; figuratevi le smanie nel vedere la prima donna viva!"
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Frittata e sardelle per vincer la paura
Brutta avventura quella che tocca a Bardolino al protagonista delle "Confessioni di un italiano". La sua compagna di viaggio, Aglaura, in un momento di sconforto si butta dalla Rocca. Per fortuna la caduta è fermata dai cespugli e lui può salvarla. La malinconia passa poi davanti al caminetto, mangiando. Ecco un "assaggio" delle pagine di Ippolito Nievo. Con l'Aglaura che fa onore alla tavola.
"L'Aglaura, non trovando di suo grado le trota, si mise alla padella a sbattervi le ova; io credo che la povera trota fosse ignominiosamente calunniata pel ruzzo ch'era saltato alla donzella di cavarsi questo capriccio. Io ammirava a bocca aperta. China col ginocchio sul focolare, col manico della padella in una mano, e il coperchio nell'altra che le difendeva il viso dal fuoco, ella pareva il mozzo d'un bastimento levantino che si ammanisce la colazione. La fritta riuscì eccellente, e dopo di essa anche la trota si vendicò del sofferto dispregio facendosi mangiare. Le sardelle adoperarono del loro meglio per entrare anch'esse dov'era entrata la trota. Infine non rimasero sui piatti che le reste".
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Bevitori benacensi
Nel "Benaco" di Giuseppe Solitro, stampato sul finire dell'Ottocento, si parla anche, con meticolosa attenzione, della viticoltura gardesana. Finendo col soffermarsi sui "Benacensi bevitori eccellenti".
"I Benacensi preferiscono - ed è naturale - il loro vino a quello d'ogni altra regione. Trincano volentieri e copiosamente, veri figli di Roma antica, giovani e vecchi; i primi per render più gagliardo il sangue e crescer vigore, i secondi per medicina all'età, perché sanno che il buon vino è la poppa dei vecchi.
Nelle annate abbondanti, subito dopo la vendemmia, quando il vino non è ancor vino ma mosto, il popolo cionca l'allegro liquore nelle tradizionali scodelle, mandandolo giù come medicinale a finir la bollitura nel ventre, e di mano in mano che le scodelle si vuotano, i fumi salgono al capo, e impacciano le lingue, e annebbiano i cervelli e fan vacillare le gambe".
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La sera c'era sempre la minestra
David Herbert Lawrence fu sul Garda fra il 1912 ed il 1913. Di quel soggiorno ha lasciato memoria nel suo "Twilight in Italy", dove dice anche d'una semplice cena a Gargnano. La traduzione italiana è quella di David Mezzacapa apparsa presso Newton Compton.
"Nel grande solaio della serra andavo spesso a scrivere. Lassù, a grande altezza da terra, dal lato aperto si dominava il lago, e al di là la montagna nevosa nel bagliore del crepuscolo. Le vecchie stuoie, le assi, gli attrezzi fuori uso dell'antico lavoro creavano ombre nel luogo deserto. Poi dal dietro, dall'alto della casa, giungeva il richiamo: Venga, venga mangiare! Si mangiava in cucina, col caminetto dove bruciava l'ulivo e l'alloro. La sera c'era sempre la minestra. Poi si facevano giochi, o si giocava alle carte; e giocavano tutti. Oppure si cantava, con una fisarmonica, e a volte c'era un contadino che scendeva dai monti e portava la chitarra".
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Il pesce provvidenza
"Il Benaco" di Floreste Malfer, edito nel 1927, è di grande valore scientifico e piacevolissima lettura. E vi si "riabilita", fra l'altro, la "sardéna" (alosa), ingiustamente sottostimata da molti.
"Sulla saporosità delle carni dell'alosa, non abbiamo quel tributo di lodi che sempre accompagnano la trota e il carpione, nè al suo nome ci coglie quel senso di culinaria ammirazione che ci fa inarcare le ciglia. Il lago, lago, gridato per le vie di Verona, o il garda, garda, echeggiante per le vie di Brescia sono piuttosto l'effetto di un'offerta conveniente, e per la modicità del prezzo e per la mole del pesce, atta a soddisfare la numerosa famiglia, piuttosto che quella di un boccone prelibato. Con tutto ciò non possiamo esimerci dal dichiarare che l'alosa nostra completa, con la trota ed il carpione, la triade eletta dalle carni saporose e gentili e che se lungi dalle sue acque non arriva ad essere un piatto veramente eccellente ciò è dovuto al fatto che essa tramonta col giorno. Si potrebbe anzi dire che bastano poche ore, oppure basta che venga un po' strapazzata, perché ad essa, come in tali casi fa il pescatore, si debba preferire qualunque altro cibo. Dev'esser cucinata appena presa e mangiata con l'inseparabile polenta".
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L'Arcadia e la tavola
Riccardo Bacchelli tracciò nel 1952 un ricordo delle vacanze giovanili passate a Garda. Confessando che "fra tante ragioni più elevate d'ammirazione e d'affetto per Garda, c'entra pure un peccato di gola, che si volge in riconoscenza verso i pescatori della Corporazione, per le eccellenti prede che essi fanno, con tanto industriosa passione artigiana, nelle acque del lago". E se da un lato emergeva la "gardesana Arcadia dei miei sogni e ricordi", dall'altro ecco la suggestione della tavola imbandita dalla Signora Gonda.
"Fatto sta che i miei ricordi, anzi le mie sensazioni gardesane, sono come intrise d'una luce di letteratura e di storia, tenue, fuggitiva, non approfondita, ma neanche sciupata, dallo studio critico ed erudito. E viene dalle nostre conversevoli passeggiate e sedute conviviali, sicchè Garda storica e letteraria, insomma, la nostra Arcadia gardesana, non mi si disfocia dal ricordo degli uccelletti e del carpione, e delle sardelle, maestrevolmente cucinati dalla Signora Gonda, e del prelibato vin di Capre o dei Mirabei".
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Bibliografia
I brani dell'antologia sono tratti da:
B. PLATINA, Il piacere onesto e la buona salute, a cura di E. Faccioli, Einaudi, Torino 1985, p. 244
B. GRATTAROLO, Historia della Riviera di Salò, Brescia 1599 (rist. Ateneo di Salò, Salò 1978), p. 29
B. STEFANI, L'arte di ben cucinare, Mantova 1662 (rist. Forni, Sala Bolognese 1983), p. 44
E. ZANIBONI, L'Italia alla fine del secolo XVIII nel "Viaggio" e nelle altre opere di J.W. Goethe. Il Trentino, Ricciardi, Napoli 1907, riprodotto in Goethe: il Viaggio in Italia e i grandi traduttori del Garda trentino, a cura di A. Tonelli, M. Marri Tonelli e S. Carloni, Comunità del Garda, Gardone Riviera 1986, p. 115
E. BIGNAMI, Il Lago di Garda, Milano 1873 (rist. Sardini, Bornato 1975), pp. 48-49
G.F. VIVIANI, Il territorio di Caprino alla fine del sec. XVIII (2° parte) in Il Baldo n. 5, Centro Turistico Giovanile, Caprino Veronese 1994, p. 107
I. NIEVO, Le confessioni d'un Italiano, Mondadori, Milano 1988, p. 665
G. SOLITRO, Benaco, Devoti, Salò 1897 (rist. Ateneo di Salò, Salò 1977), p. 245
D.H. LAWRENCE, Viaggio in Italia, Newton Compton, Roma 1984, p. 90
F. MALFER, Il Benaco, Verona 1927 (rist. Forni, Sala Bolognese 1977), pp. 156-157
R. BACCHELLI, Italia per terra e per mare, Mondadori, Milano 1962, p. 308
La versione italiana dell'epigramma di Teofilo Folengo è di Angelo Peretti; per l'originale si veda T. FOLENGO, Macaronee minori, a cura di M. Zaggia, Einaudi, Torino 1987, p. 510
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Le dieci ricette fondamentali
Le dieci ricette fondamentali della più autentica tradizione del lago di Garda, trascritte da Isidoro Consolini e Flavio Tagliaferro e commentate da Angelo Peretti nei volumetti della serie
"La cucina tradizionale del lago di Garda"

I primi


Il risotto con la tinca
Gastronomicamente, la riviera orientale del Garda la si potrebbe dividere in due aree quasi distinte: a nord c'è il regno dell'olio e dei bìgoi co le àgole (e cioè gli spaghetti al torchio conditi col sugo d'alborelle in salamoia), mentre più sotto, dopo Garda, che fa da "spartiacque", c'è il dominio della vigna e del risotto con la tinca. È, questo risotto, un piatto dibattuto fra storia e moderna invenzione della ristorazione. E al proposito Giovanni Capnist sembra non aver alcun dubbio nell'optare per la seconda ipotesi, quella della modernità. Afferma infatti che "questo tipico risotto gardesano non trova riscontro nelle ricette antiche", aggiungendo che "è certamente di origine abbastanza recente ma risulta particolarmente appezzato dai turisti che affollano il lago di Garda". Annotando peraltro che "è un piatto che, se ben cucinato, è veramente squisito" (Capnist 1987: 87). In effetti, può parer strano attribuire origini remote ad un risotto d'area gardesana, visto che il riso non è fra le pur molte produzioni del territorio benacense. Ma non è sempre stato così. Perchè il riso, nei secoli passati, è stato coltivato anche sulla riviera. E dunque ci potrebbero essere elementi a sostegno d'una qualche ipotesi di iscrizione del risotto con la tinca nel numero dei piatti tradizionali che possono vantare una qualche vetustà. Certo, mancano testi antichi a sostegno di questa tesi: ma quanti sono i piatti "di popolo" che trovano attestazione nei ricettari del passato? Del resto, che il risotto con la tinca appartenga da tempo alla cultura gastronomica gardesana lo dimostra Floreste Malfer, che nel suo "Benaco" del 1927 testimonia come questo fosse il piatto forte delle cene dei pescatori che operavano in cooperativa: "Il sogno dei locali seguaci d'Apicio è il risotto di tinca. Si preferiscono i maschi da Kg. 1 1/2-2 1/2. Rosolato il pesce, come nella preparazione a guazzetto, s'aggiunge poi una conveniente quantità di acqua. Quando il pesce perde l'occhio è cotto e si leva e si mette il riso che si rimescola fino alla cottura. La festa del risotto ha luogo normalmente in qualche ricorrenza del luglio-agosto, tra le piccole compagnie esercenti in cooperativa le varie pesche. È corona e premio alle lunghe fatiche estive ed è un'ora di gaudio lungamente attesa, assurgendo, in luogo, il risotto di tinca a piatto veramente regale" (Malfer 1927: 246-247). Tinca e riso uniti in un piatto davvero delizioso, dunque. Del resto, come s'è detto, si tratta di ingredienti che per qualche tempo sono stati da ascrivere contemporaneamente fra le produzioni gardesane, com'è attestato a Garda dalla persistenza del toponimo Risare. E che in quell'area si coltivasse il riso è testimoniato da fonti documentarie. Nereo Maffezzoli, studiando i registri della Corporazione degli antichi originari di Garda, ha per esempio trovato una nota datata 10 novembre 1686 nella quale s'incolpano d'una epidemia di tifo le "Risare nel centro di questa valle angusta" (Maffezzoli 1986: 88-89). È relativo al 1686 anche il processo relativo ai presunti dannosi effetti della presenza delle risaie in Garda studiato da Bruno Chiappa sulla scorta dei documenti rintracciati nel fondo "Ufficio di Sanità" dell'Archivio di Stato di Verona. Vi si legge, ad esempio, che il consigliere della comunità di Garda Vincenzo Pasotto attribuiva alla "mala qualità dell'aria, che resta infetta dal fetore che cagionano alcune risare" quel "color giallizzo e brutto" della sua gente. Ma forse i veri problemi erano altri (Chiappa 1995: 86-87). Sta di fatto che questi incartamenti seicenteschi dimostrano la presenza delle risaie in riva al lago. E quindi il riso potrebbe non essere stato estraneo alla cultura alimentare dei gardesani. Magari unito alla tinca. C'è poi da annotare, come pur vago indizio a possibile sostegno della tesi d'una relativa antichità del piatto, che presso alcuni pescatori gardesani rimane viva la memoria dell'utilizzo, per il risotto, delle interiora della tinca, e non già delle carni, che venivano invece consumate a parte, accompagnate da una salsa piccante. Si tratta d'un uso gastronomico, questo delle interiora del pesce, che ha qualche curiosa affinità con uno dei famosi piatti quattrocenteschi di Maestro Martino, la "menestra de trippe de trute" (Faccioli 1987: 153). Trippe di trota in brodo, in questo caso, con aggiunta di prezzemolo e menta. Così come i pescatori di Garda usavano, per il loro risotto, interiora di tinca e biete. Curiose coincidenze, o indizi d'un qualche peso?
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I bìgoi co le àole
I bìgoi co le àgole sono uno dei piatti più semplici e saporiti della gastronomia benacense. Le àgole sono le alborelle (il termine dialettale viene da Brenzone: sul resto del lago si usa dire àole). Poste in salamoia (salàe), diventano la materia prima per il condimento dei bìgoi, grossi spaghetti prodotti con un torchietto a mano oggi poco diffuso, ma un tempo in uso in ogni famiglia. I bìgoi o bìgoli sono la tipica pasta che in terra veneta è coniugata, secondo la zona e la fantasia del cuoco, coi più vari condimenti. La "Guida all'Italia gastronomica" del Touring Club Italiano ne riassume splendidamente il rito domestico della preparazione: "Ottenuto l'impasto di base - un tempo farina e acqua oggi sostituita da uova, ma con un ritorno ecologico alla farina integrale - la massaia, anziché tradurlo in sfoglia, e subito dopo, in paparele o lasagne, lo mette nel bigolaro, una riproduzione in miniatura del torchio dei pastai di tutta Italia. Per far scendere l'impasto verso la minuscola trafila, che dà forma ai bigoli, non occorre un motore, ma basta la forza delle braccia. Gli spaghettoni vengono cucinati subito, o dopo una breve essiccazione" (Alberini - Mistretta 1984: 60-61). Sulla riviera gardesana i bìgoi hanno dunque trovato una comunione con le alborelle sotto sale, così come altrove si sposano con la sardella salata (è questo ad esempio il tipico piatto quaresimale veneto) o con altri condimenti. A Brenzone, e di riflesso anche in altre località rivierasche, il merito di aver tolto il velo d'oblio che aveva coperto questo rustico piatto popolare è spettato negli anni Ottanta a Livio Parisi. Alla guida del centro culturale "El Cossét", inventò e organizzò, dal 1985 al 1989, un curioso "campionato comunale dei bìgoi co le àgole", che riscosse notevole successo e rilanciò il piatto anche nella ristorazione "ufficiale", oltre che negli usi domestici. Parisi spiega che al torneo "partecipavano 12 concorrenti che in quattro serate ad eliminazione diretta si contendevano l'ambito titolo. La giuria era composta da persone del pubblico, che esprimevano il proprio voto dopo l'assaggio dei piatti proposti" (Parisi 1996: 92). I concorrenti non erano cuochi professionisti, bensì appassionati del luogo. Ed è interessante annotare come le ricette presentate nelle varie edizioni del campionato brenzonese non prescrivano mai di lavare le àgole prima di usarle per la salsa, ma solo di asciugarle dalla salamoia.
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Il minestrone con le castagne
Quel minestrone coi marroni che qualcuno ancora cucina sul Baldo è in fondo una interessante variazione sul tema della famosa minestra coi fagioli della tradizione padana. E non è neppure esclusiva dell'area baldense, perchè l'uso delle castagne nelle minestre ha attraversato le regioni ed i secoli. Basti pensare che già il milanese Bonvesin de la Riva, vissuto fra il 1240 ed il 1315, poeta e grammatico, ebbe a scrivere che le castagne "spesso si lessano senza guscio e, cotte così, molti le mangiano con i cucchiai; oppure, buttata via l'acqua di cottura, spessissimo le masticano senza pane, o anzi, al posto del pane" (Rorato 1991: 26-28): minestra poverissima, insomma. La castagna la troviamo anche in compagnia coi ceci in una zuppa descritta nel trecentesco "Libro della cocina" d'un anonimo compilatore toscano: "Togli ceci rossi e bianchi; e, tenuti a mollo cuocili col pepe, e col zafferano, e erbe odorifere. E quando sono queste cose cotte, ponni parte nel mortaio e pesta che sia spessa, e ponvi brodo saporoso, e poi ponvi castagne arrostite intere, e radici di petrosilli, e brodo di carne" (Faccioli 1987: 50). A beneficio del lettore, chiariamo che il "petrosillo" è il prezzemolo. Proseguendo lungo il cammino dei secoli, arriviamo al Seicento e al "Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l'erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano" di Giacomo Castelvetro, che si sofferma sulle castagne secche, ricordando che con quelle "la povera gente ben si nutrisce, cuocendole a diverse maniere, e prima in minestra, sole in compagnia d'alcuni legumi, quali sono fagiuoli" (Coltro 1983: 70). A nobilitare il piatto, e a dimostrare che se ne può trarre una ghiottoneria da tavola nobile, ci pensa il raffinato "Cuoco piemontese perfezionato a Parigi", volume edito a Torino nel 1766. Vi si legge la ricetta della "minestra di castagne in magro e grasso". Eccone il testo: "Per fare una minestra di castagne in magro metterete in una casseruola un pezzo di butiro con tre cipolle tagliate in fette, una carotta, un occhio di scellero e tre porri, il tutto tagliato in piccoli pezzi, un mezzo bacello d'aglio, due garofani, mettete tutto al fuoco, finché sia un po' colorito, bagnate con acqua, facendo bollire per un'ora, colate il brodo per la stamigna, aggiungendovi sale, poi prendete un centinaio di castagne di quelle marroni, oppure di quelle grosse, levategli la prima scorza, mettendole al fuoco in una padella pertuggiata, maneggiandola sempre finché si possa levare la seconda scorza, quando saranno ben mondate fatele cuocere con una parte del brodo, in appresso scegliete quelle che sono intiere per ornamento della minestra e le altre le pestarete e passerete per una stamigna facendone un sugo colato, che bagnerete col brodo che si adoperò per farle cuocere; fate mittonare la minestra col brodo di erbaggi e quando servirete mettetegli il sugo delli marroni. La minestra grassa si può fare nella stessa maniera, mettendo in luogo del brodo magro quello grasso" (Serventi 1995: 61). Anche qui è d'obbligo chiarire che "scellero" sta per sedano, la padella "pertugiata" è quella bucata che si usa per le caldarroste, la "stamigna" era un panno che si adoperava per filtrare.
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Piatti di acqua


Le sardéne en saór
Il Garda fu territorio della Serenissima per quasi quattro secoli. Dal 1405 all'avvento di Napoleone anche sulle riviere benacensi sventolò il gonfalone col leone alato di San Marco. Gli interscambi commerciali e culturali fra il Benaco e Venezia furono dunque assidui. Tanto che sulle riviere vennero "importate" anche elaborazioni gastronomiche provenienti dalla laguna. Così crediamo sia andata ad esempio per il saór, "cibo di marinai e scorta di terraferma", come lo definisce Bepo Maffioli, riferendosi alla terra veneta in generale (Maffioli 1992: 125). Ancora oggi a Venezia le sarde in saór "rientrano nel tradizionale menù della cena della festa del Redentore, quando i veneziani nelle loro barche, decorate con frasche e palloncini luminosi, si recano in laguna ad assistere allo spettacolo dei fuochi d'artificio" (Brusegan 1997: 22). Sono, insomma, piatto popolare e "rituale" nel contempo. A variare fra Venezia e il Garda è sostanzialmente solo la provenienza del pesce adoperato per la preparazione del piatto. Se infatti in area veneziana il saór lo si fa con le "sarde" di mare, sul Garda - dove non ha assunto funzioni "rituali" - lo si prepara invece con le sardéne lacustri. Basato sulla doppia tecnica della friggitura e della marinatura, il saór consente di conservare per qualche tempo il pesce. Fattore importante in tempi in cui era vitale non buttar via niente e far durare il più a lungo possibile le (poche) derrate disponibili. "Da questa necessità di conservare il cibo - dice Marcello Brusegan - ebbe origine anche la più caratteristica pietanza della cucina veneziana, il pesce in 'saor' (sapore), che così preparato può mantenersi saporitissimo e sano per una settimana e senza tanti frigoriferi (Brusegan 1997: 16). Insieme alla salagione e all'essicazione (con la variante-aggiunta dell'affumicatura), la marinatura - sul Garda nelle diverse formula del saór, della carpionatura e del sisàm, anch'esso di probabile derivazione veneziana (Peretti 1996: 81-88) - costituiva infatti la triade delle vie praticabili per conservare il pesce quand'era lontana l'"invenzione" della refrigerazione. Ed il saór, "conservandolo in luogo fresco, resiste un paio di settimane, ed è più digeribile se le cipolle non vengono soffritte nell'olio che è servito per friggere il pesce, ma in olio nuovo" (Maffioli 1992: 125). Bepo Maffioli, nel suo famoso "Ghiottone veneto", fornisce dunque la ricetta del saór veneziano, che è interessante verificare per toccare con mano le analogie esistenti con la formula in uso sul Garda: "Il pesce, specie quello azzurro, viene infarinato e fritto nell'olio. Da questo a cottura avvenuta viene tolto il pesce, e vi si aggiunge della cipolla affettata sottilmente. Quando la cipolla imbiondisce, si spegne con vino bianco ed aceto in proporzioni diverse. Il tutto viene versato sul pesce fritto, disposto a strati in un recipiente di terraglia abbastanza profondo" (Maffioli 1992: 125). Non è poi raro trovare col saór altri ingredienti, come uvetta e pinoli. Sostiene Marcelo Brusegan che questa sarebbe una "variante non ortodossa", con la quale il piatto "perde molto del suo particolare sapore agrodolce" (Brusegan 1997: 21). Ma il parere, probabilmente più condivisibile, di Bepo Maffioli è invece che questa aggiunta, "presente anche in altri cibi, serve ad aumentare la dignità, a farne un piatto 'ricco' secondo una tradizione di dolcificazioni medioevali, ed ancor prima, bizantine e romane" (Maffioli 1992: 125). Luisa Bellina e Mimmo Cappellaro inseriscono il saór veneziano nel novero delle ricette all'insegna di quel "dolzegardo" che contraddistingue la cucina lagunare. "Il gusto per la mescolanza e per la morbida ambivalenza degli aromi orientali - scrivono - si rivela nel 'dolzegarbo' che continua tuttora a dominare la cucina veneta, invariato al di là dei mutamenti nelle abitudini alimentari". Aggiungendo che "questo 'dolzegarbo' (o 'garbodolze') si ripete all'infinito, in mille piatti (dal 'saor' di pesce e di verdure in primo luogo, al baccalà, alle carni bianche)" (Bellina - Cappellaro 1996: 11). Insomma: l'agrodolce fa pensare alla tradizione gastronomica romana e medievale, mentre l'uvetta rimanda agli usi bizantini. Il tutto mediato attraverso la cultura gastronomica veneziana. È dunque un lungo itinerario in area mediterranea quello compiuto dal saór prima di "approdare" a Venezia e poi sul lago di Garda. La tesi sembra esser suffragata anche da alcune interessanti affermazioni contenute nell'importante "Guida all'Italia gastronomica" del Touring club italiano: "La cucina delle sette province venete, pur diversa per molti aspetti, è legata da due elementi di fondo: la presenza costante della farina di mais, o granoturco, e l'uso frequente nelle ricette di ingredienti di chiara origine orientale come le spezie, l'uvetta di Corinto e altro. Grandi trasportatori di spezie, i veneziani le hanno non solo commerciate ma adottate nella loro cucina con un fenomeno di osmosi che ha reso omogenei costumi alimentari altrimenti differenziati dalle diverse risorse del territorio" (Alberini - Mistretta 1984: 223). Questa "omogeneizzazione" delle abitudini alimentari nel territorio della Serenissima può essersi applicata anche sulla riviera gardesana, semplicemente, appunto, sostituendo le "sarde" d'acqua salsa con le sardéne gardesane.
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Il sisàm
Il piatto classico preparato in riva al Garda con le alborelle essiccate è il sisàm, spesso attribuito, secondo le categorizzazioni in voga, alla fattispecie della "cucina povera". A prima vista una simile attribuzione potrebbe sembrare corretta, considerata la semplicità della preparazione e degli ingredienti e l'essere stato il sisàm in uso fra le genti davvero derelitte dell'area gardesana, tramandandosi di generazione in generazione (e dunque di miseria in miseria). Ma forse questa è solo una delle facce della medaglia. Volendo fornire una ricetta "classica" del sisàm è d'obbligo rifarsi al "Benaco" di Floreste Malfer: "Soffritto l'olio con molta cipolla, si immettono le alborelle e si rosolano fino al rosso: poi si allunga il tutto con aceto e acqua e si serve dopo un'ora di lenta bollitura" (Malfer 1927: 216). E la tradizione dell'alto Garda veronese voleva pure che il sisàm perfetto riuscisse solo con certe particolari cipolle che si andavano d acquistare la mattina del 25 di luglio, festa di San Giacomo, in contrada Calino di Gargnano, sulla riviera bresciana del lago. È interessante peraltro osservare come una variante in uso a Brenzone preveda - e si tratta di un "indizio" preziosissimo - anche l'uso dello zucchero. In particolare ci rifacciamo alla versione che ci aveva fornito un pescatore di Castelletto, Francesco Gaioni, detto Belòtti, in occasione della raccolta delle elaborazioni gastronomiche gardesane confluite nel fascicolo "Pesci, pesca e cucina del lago di Garda", oppure quella riferitaci nella stessa circostanza da un altro pescatore professionista brenzonese, Franco Zamboni, detto Pechìno (Bianchini et al. 1986: 42). Secondo Belòtti lo zucchero era da utilizzare "per togliere l'acidità". Il che ha del vero. In cucina, infatti, lo zucchero viene spesso utilizzato allo scopo di attenuare i sapori acidi e quindi ben si presta a "smorzare" la forza dell'aceto utilizzato per la preparazione del sisàm. Ma l'"indizio" di cui si parlava non sta in questa caratteristica, bensì nel fatto che l'uso dello zucchero in abbinata con l'aceto introduce il concetto dell'agrodolce tipico della più antica tradizione gastronomica italiana. Il connubio agro?dolce è, nella storia della cucina, "più precoce in Italia che non in Francia e ovunque contraddistingue, più o meno presto, la ricerca gastronomica medievale, in particolare nel delicato equilibrio delle salse" (Redon - Sabban - Serventi 1994: 39). Per la verità il contrasto agro-dolce nella cucina italiana del Medioevo é stato mutuato dagli usi gastronomici d'età romana. Tanto che se al moderno zucchero sostituiamo il dolcificante del passato, ossia il miele, troviamo che questo formava con cipolla ed aceto una terna presente addirittura nel "De re coquinaria" di Apicio, testo fondamentale non solo perché offre un quadro della cucina "ricca" dei tempi di Roma, ma anche perché su di esso sembra essersi sviluppata la successiva gastronomia "di corte" dell'età medievale. Ebbene, quel trattato riporta, nel libro nono e nel decimo, alcune salse da pesce nelle quali è quasi costante, insieme alla sovrabbondanza di altri profumi, la triade cipolla? miele? aceto. In particolare è di notevole interesse una "salsa per sarde" per la quale si prescrive di usare "pepe, ligustico, menta secca, cipolla cotta, miele, aceto ed olio (Apicio 1990: 221). Togliete ligustico e menta ed avrete, incredibilmente, gli ingredienti del sisàm. Se sostituite le erbe della ricetta apiciana con alloro e salvia otterrete, grosso modo, la ricetta del Pechìno, che vuole i seguenti ingredienti: "g. 100 di agole secche, kg. 1 cipolle preferibilmente bianche, ½ l. di olio extravergine di oliva, 1 foglia di alloro, 3 foglie di salvia, 1 chiodo di garofano, poco rosmarino, 1 cucchiaio di zucchero, ½ bicchiere di aceto, ½ bicchiere di vino bianco, sale". La preparazione è questa: "Imbiondire le cipolle tagliate grossolanamente a pezzi nell'olio extravergine di oliva con alloro, salvia, garofano e rosmarino. Salare quanto basta ed aggiungere l'aceto, il vino bianco, lo zucchero, le agole, private della testa, tagliate a pezzetti e ammorbidite con olio su graticola o piastra ben calda. Lasciar cuocere a fuoco lentissimo per almeno un paio d'ore" (Bianchini et al. 1986: 42). Si potrebbe dunque esser portati a pensare di inserire il sisàm in uso sul Garda nel numero, invero abbastanza limitato, dei piatti che possono vantare origine antica. Ma certo non basta un cucchiaio di zucchero insieme con l'aceto a suffragare la nostra tesi. Tuttavia, se ci rifacciamo all'analisi linguistica di Pino Crescini e al suo "Vocabolario dei pescatori di Garda", notiamo che il termine che identifica il nostro piatto sembrerebbe derivare dal latino volgare "incisamen", che sta a significare un insieme di cibo tagliuzzato (Crescini 1987: 142). Le argomentazioni di Crescini sembrano implicitamente avvalorare, insieme al riferimento all'agro-dolce, l'ipotesi di una origine abbastanza antica del piatto. Cercandone dunque traccia nei ricettari tardo-medievali, la ricerca trova esito positivo prestando attenzione ad un ricettario manoscritto d'area veneziana, probabilmente trecentesco, conservato presso la Biblioteca Casanatese di Roma, nel quale si legge la ricetta di un "cisame de pesse quale tu voy": "Toy lo pesse e frigello, toy zevolle e lessale un pocho e taiale menude, po' frizelle ben, poy toli aceto et aqua e mandole monde intriegi, et uva passa, e specie forte, e un pocho de miele, e fa bolire ogni cossa insema e meti sopra lo pesse" (Faccioli 1987: 77). Che sia un progenitore del nostro piatto? È possibile. Da "cisame" a sisàm, seguendo il percorso indicato dal Crescini, la strada è breve. Ci limitiamo ad annotare che cipolle, aceto e miele ci sono, mentre l'uso delle spezie rimanda ai chiodi di garofano usati a Brenzone dal Pechìno. Traccia del "cisame" la troviamo in altri trattati antichi. Per esempio nel "Libro novo" di Cristofaro di Messisbugo, scalco e amministratore ducale presso la corte degli Estensi nella prima metà del Cinquecento. Scrivendo di una "cena di carne e pesce" imbandita nel 1529, il Messisbugo menziona fra le varie portate della "seconda vivanda" un prodotto tipicamente gardesano: il carpione. Ma il particolare interessante è che questi salmonidi benacensi erano per l'occasione fritti e "coperti di cisame" (Messisbugo 1557: 17). E con questo dobbiamo molto probabilmente intendere coperti d'una "salsa in agrodolce", come dice Emilio Faccioli (Faccioli 1987: 77). Una salsa da pesce, cioè, rifacendoci alla ricetta trecentesca, realizzata con aceto, cipolla e miele, più, magari, altri ingredienti, secondo i precetti, già visti, del trattato veneziano o del testo di Apicio. E forse è solo un caso che i carpioni fritti provenienti dal Garda, magari dono dei due ambasciatori veneziani ospiti quel giorno in casa d'Este, fossero stati serviti con il "cisame" che ci ricorda un altro piatto benacense. Ma quanto meno la narrazione di quella cena cinquecentesca ci offre un ulteriore elemento a favore di una probabile origine antica e tutt'altro che "povera" del "cisame", da cui probabilmente, come variante certamente più popolare e semplificata, possibile sia arrivato il nostro sisàm. L'indizio da cui trae origine quest'ipotesi sta, come s'è detto, in una "variante dolce" in uso a Brenzone: quella dello zucchero. Ma non è casuale che proprio in terra brenzonese si sia potuta conservare la versione originaria del piatto, quella cioè più antica. Questo tratto di riviera settentrionale, infatti, è stata per lunghissimo tempo pressoché isolato dal resto del lago: la stessa strada Gardesana è stata costruita solo negli anni Venti. Proprio questo isolamento potrebbe aver favorito la mancata "contaminazione" degli usi più schietti delle popolazioni che hanno originariamente "colonizzato" un territorio a dir poco "selvaggio". Agli inizi del Quattrocento l'umanista Guarino Veronese si spingeva a dire che "se la vicinanza del Benaco non li mitigasse alquanto, quei luoghi sarebbero inabitabili e non direi che lì fosse territorio veronese ma che il territorio veronese lì finisse" (Devoti 1997: 77). A parziale conferma di quest'originalità di Brenzone quale campo di ricerca delle più antiche tradizioni gastronomiche benacensi, abbiamo già visto sulla seconda parte de "La cucina tradizionale del lago di Garda" come proprio qui persista l'uso di una polenta carbonéra che trae probabile origine dai traffici intercorrenti fra le opposte sponde lombarde e venete, quando l'alto lago poteva comunicare solo per via d'acqua. La polenta brenzonese è testimonianza viva di questi arcaici traffici, derivando direttamente dalla polenta taràgna lombarda. Ma è anche probabile indizio di come sia avvenuto anticamente il popolamento di alcuni tratti originariamente quasi inabitati di costa orientale: via lago, dalle valli lombarde all'alta e isolata riviera veronese. Ora ecco il sisàm, cucinato dai pescatori di Brenzone - e solo da loro sull'intero lago - con una variante agrodolce che prevede lo zucchero e che sembra rifarsi a quella dei ricettari veneziani del Trecento. D'una Venezia dove, peraltro, il sisàm è oggi sconosciuto.
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Il carpione ai ferri
Il carpione è un pesce esclusivo del Garda: vive solo nelle acque benacensi, anche se c'è stato e c'è tuttora chi si ostina immotivatamente a sostenere che lo si può trovare anche in chissà quali altri laghi. Dobbiamo, presentando la ricetta, parlare di carpione, al singolare, purtroppo. Perché questo salmonide è raro al punto che già riuscire a trovarne uno presso qualche pescatore è un mezzo miracolo. Quindi si contentino i commensali di assaggiarne un pochettino appena. D'altro canto non resteranno delusi, perché, come scriveva il Malfer, "per la squisitezza delle carni, il carpione può rivaleggiare con la trota sua affine" (Malfer 1927: 108). E quando Malfer citava la trota, si riferiva alla mitica "lacustre" ormai scomparsa. In fatto di cucina di carpione in riva al Garda ci sono oggi due "scuole di pensiero", entrambe in linea con la tradizione. C'è innanzi tutto chi lo vuole "ai ferri", cotto sulla graticola, al calore della brace preferibilmente d'olivo, e pare che questa sia la linea maggioritaria. C'è chi invece lo predilige lessato, ed è in minoranza. Un ulteriore filone, di più recente adozione, lo propone anche al cartoccio, mentre é del tutto tramontata l'antica tecnica della "carpionatura", che attraverso la frittura e l'uso dell'aceto consentiva in passato di "esportare" il carpione nelle corti di tutt'Europa (Peretti A. 1992: 45-48). In ogni caso, vengono sconsigliate le salse, perchè le carni del carpione hanno il loro pregio maggiore nell'estrema delicatezza: tentare di "insaporirle" significa, per molti puristi, finire col guastarle. Il che sarebbe un peccato capitale. Giorgio Gioco, maestro della cucina veronese, prescrive: "Si prepara un braciere di legni d'olivo e sulla griglia rovente si depone il carpione, pulito, appena unto con un po' d'olio. Girarlo delicatamente senza pungerlo con la forchetta e spolverizzarlo con sale e pepe. Il carpione è cotto quando, facendo pressione con un dito, si sente che le carni cedono. Toglierlo allora dal fuoco, tagliarlo a metà per il lungo e a questo punto, per ottenere la perfezione, condirlo con buon olio gardesano, ancora un po' di sale e una spruzzatina di limone". Aggiunge Gioco che "se, oltre a gustare il carpione, avete la fortuna di godere la vista el lago, potrete capire come poeti di tutti i tempi abbiano dedicato liriche a questo Benaco incomparabile" (Gioco 1982: 53-54). C'è da esser d'accordo.
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Il luccio in salsa
Il luccio in salsa costituisce oggi uno degli antipasti più diffusi nella ristorazione gardesana. E la salsa che accompagna il luccio è fatta, secondo tradizione, con le acciughe: sapori di lago e di mare a confronto.
Non è peraltro che una simile preparazione sia esclusiva delle riviere benacensi. Ad esempio "il luccio in salsa è il 'secondo' che maggiormente caratterizza la tradizione gastronomica mantovana: per questo nella gran parte dei ristoranti è disponibile tutto l'anno, servito caldo o freddo, a seconda delle stagioni" (Polettini et al. 1996: 100).
Non pare neppure essere stato fra i piatti più diffusi fra gli stessi pescatori del Garda, tanto che il Malfer cita questa preparazione solo per ultima fra quelle relative al luccio: "Si mangia anche preparato alla peschereccia, a salsa, cioè lessato, in rocchi, e poi spruzzato con salsa bollente d'acciughe, quasi fritte in olio. La parte più saporita è formata dai fianchi" (Malfer 1927: 195).
E' interessante osservare che Bepo Maffioli, parlando di cucina veneta, si dice convinto che Venezia abbia raccolto, "tramite Bisanzio, e forse per via più diretta, peninsulare" quella che lui chiama "l'eredità della cucina 'latino-romana', in cui il grande uso di 'garum' e di 'allec' è sostituito dalla presenza frequentissima, quale insaporitore base, di filetti di acciuga o di sardina, salati, protagonisti tuttora di alcune salse popolarissime" (Contini 1989: 7)
Sta di fatto che oggi, come si diceva, il luccio in salsa trionfa nella ristorazione benacense, ed anzi, é quasi esclusivamente questa la formula con cui il luccio viene presentato. E così pure è stato ed in parte ancora è piatto da grande occasione, da banchetto: secondo Zane, che fa riferimento in particolare alla riviera lombarda del Garda, "un tempo era comune incontrare, nei piatti di una certa importanza, il piatto del 'luccio lesso alla salsa', che, grazie alla mole imponente del pesce, poteva garantire, accanto alla bontà della ricetta, anche un certo 'effetto stupore' fra i commensali riuniti" (Zuanelli - Pellegrini 1994: 40).
Il portare in tavola un superbo luccio in salsa diveniva insomma atto d'ostentazione, con una "ritualità" in qualche maniera mutuata dalle consuetudini dei banchetti di corte fra tardo Medioevo e Rinascimento, quando, per dirla con Montanari, "un carattere sempre più marcatamente ostentatorio diviene il segno distintivo della mensa dei potenti" (Montanari 1994: 116).
Non a caso, del resto, quella dell'abbinata luccio-acciuga è una formula che trova testimonianza anche in ricettari antichi. Se andiamo ad esempio a scorrere le pagine de "L'arte di ben cucinare", il celebre trattato dato alle stampe nel 1662 da Bartolomeo Stefani, cuoco dei Gonzaga a Mantova, troviamo che una delle maniere consigliate per cucinare i lucci è quella di prepararli "nello spiedo lardati con angiove, serviti con salsa di capparini, code di gambari, zuccaro, & aceto rosato": luccio e acciughe (le "angiove") sono dunque assieme (Stefani 1662: 115). Ed è da ritenere che ad attestare una certa "vetustà" della ricetta gardesana del lucco in salsa sia anche l'uso della cannella: si tratta di uno dei pochi casi in cui in un piatto benacense di pesce appaiono le spezie. Un'"anomalia" che rimanda alle consuetudini dell'antica cucina italiana "di corte".
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Piatti di terra

La polenta carbonéra
La polenta carbonàra - o carbonéra, come si dice in ampia parte del territorio di Brenzone - simboleggia quasi l'incontro gastronomico fra la riviera gardesana, contraddistinta dalla produzione olearia, e i pascoli baldesi, che forniscono il latte per rustici formaggi. Si tratta di un forte, robusto, gustosissimo "piatto unico" che ammette una variante: l'aggiunta o meno della salamella durante la cottura. Certo non è il massimo della leggerezza e della digeribilità, ma merita senz'altro l'attenzione degli appassionati della cucina del territorio. Probabilmente l'introduzione in area baldense della carbonéra è legata ai traffici intercorrenti fra le opposte sponde lombarde e venete, quando l'alto lago poteva comunicare solo per via d'acqua (la strada Gardesana orientale è degli anni Venti). A testimonianza di quei traffici veneto-lombardi c'è il dialetto che si parla a Brenzone e Malcesine, ricco di inflessioni bresciane o addirittura bergamasche, ma anche questa polenta coi formaggi, parente prossima della polenta taràgna lombarda. Le somiglianze fra i due piatti sono infatti davvero molte, anche se sul Baldo non si discute la farina gialla, mentre nelle valli lombarde si predilige quella scura, di grano saraceno, da sola o mescolata con l'altra. La cottura è lenta, coi pezzi di diversi formaggi che si fondono con la polenta. E poi eccola in tavola. Quel che rimane lo si può lasciar raffreddare per il giorno dopo, quando verrà abbrustolita sulla graticola, assumendo nuove sfumature di sapore (Peretti 1994: 75-81). Polenta e formaggio, dunque. In un connubio tipico della storia gastronomica italiana. Già all'epoca romana, infatti, quando il mais non lo si conosceva e si facevano delle "polentine" (il termine latino è "pultes") con farine di farro, di miglio o d'altro ancora, s'usava unirvi in cottura qualche altro ingrediente. "Le farinate romane - scrive Giulia Carazzali annotando un'edizione dell'"Arte culinaria" di Apicio - sono delle polentine fatte con semola, latte o acqua bollente e sale, ben mescolati, così da ottenere una pasta densa che si mangia col cucchiaio. Questa però è la preparazione di base perchè, in genere, si versa in questa polentina un po' di tutto: piselli, ceci, carne, pollo, pesci freschi e conservati, erbe fini, ed altro ancora" (Apicio 1990: 299). E fra gli ingredienti aggiunti c'era anche il formaggio, per creare le polente "caseate" forse progenitrici di quelle baldensi e gardesane (Valerio 1989: 219).
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L'ànara col pién
L'anatra, la gallina o il tacchino cotti col pién, e cioè con una farcia fatta essenzialmente di pane, prezzemolo, aglio ed eventualmente d'altri ingredienti erano (e in parte ancora sono) un piatto da grandi occasioni: matrimoni, battesimi e feste comandate. Forse sul Garda la carica simbolica, oggi a dire il vero quasi del tutto svanita, che accompagnava questa lavorazione gastronomica appartiene all'eredità veneziana. E non sappiamo se l'averne fatto il piatto principe della sagra della "Quarta d'agosto" che si tiene annualmente a Costermano, nell'immediato entroterra del Garda veronese, la quarta domenica agostana sia da attribuire o no a questa ritualità perduta. "Consuetudine" era peraltro servire il 24 agosto, festa di San Bartolomeo, l'anatra arrosto, o "anatra grassa", a Carpenedolo, nel Bresciano (Mazza 1997: 181). E ad Orzinuovi, pure in provincia di Brescia, la fiera dell'agricoltura, che s'apre generalmente verso fine agosto, "offre la possibilità, a quanti visitano la fiera, di gustare nelle trattorie alcuni piatti particolari della Bassa come la Polastra co l'èmpiöm, pollastra ripiena" (Mazza 1997: 183). L'uso di cucinare l'anatra ripiena pare in particolare legare un certo senso le abitudini culinarie gardesane a quelle veneziane, dato che questo a Venezia è il piatto tipico della notte del Redentore, quando le trattorie, quelle ancora fedeli alla tradizione, finiti i fuochi d'artificio, lo portano in tavola insieme ad altre pietanze che potremmo definire in qualche modo "rituali" (Coltro 1983: 185). Era una sorta di rito in talune famiglie anche la spartizione delle varie porzioni dell'animale cucinato. Vigeva infatti l'usanza - che valeva per tutti gli animali d'aia che si cucinavano - d'assegnare a ciascuno una parte predeterminata: per esempio la coscia andava al capo famiglia, il collo e le zampe toccavano ai bambini e così via. Ed era forse questo un retaggio delle consuetudini apprese attraverso chissà quali percorsi dall'arte degli scalchi delle corti signorili, ma anche la riaffermazione di una rigida suddivisione dei ruoli, che a tavola forse più che altrove trovava immancabile applicazione. Che valesse o no quest'abitudine nella spartizione delle porzioni, comunque non c'era famiglia dove non s'usasse servir separatamente i pezzi di volatile e il pién, offrendo di questo una porzione commisurata ai gusti dei commensali. E le parti che avanzavano potevano essere riscaldate il giorno dopo sulla graticola.
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La carne salàda
La carne salàda, che le trattorie ed i ristoranti dell'area trentina del Garda propongono quasi immancabilmente nei loro menu, gode di meritata fama. Questa carne saporita la si gusta cruda a fettine sottili o scaldata alla piastra. Ed è forse una "memoria storica". Per secoli uno dei grandi problemi dell'umanità è stato infatti quello di conservare il cibo. E la salatura era fra le tecniche più utilizzate. Il sale, infatti, ha la proprietà di rendere conservabili i cibi e di distruggere i batteri contenuti nelle derrate alimentari. La capacità "conservativa" del sale ha dunque rappresentato a lungo "la principale valvola di sicurezza del sistema di sopravvivenza, consentendo forme di immagazzinamento e stoccaggio delle scorte alimentari che solo da pochi decenni sono state affidate prevalentemente ad altri sistemi" (Montanari 1988: 184-185). Qui e là sono rimaste ancora oggi memorie di quelle antiche pratiche. Ad esempio in area veneta un buon lesso misto non è mai privo di qualche fetta di lingua salmistrata. Da Mosto annota che "non è un caso che le carni conservate sotto sale siano, nel Veneto, particolarmente buone e gustose", dato che la tradizione risalirebbe al "monopolio del sale" instaurato dalla Serenissima (Da Mosto 1985: 278-279). Per quanto attiene più specificatamente la carne salàda del Garda trentino, se ne trova forse traccia in un documento che elenca i beni di Castel Tenno. E' un inventario stilato il primo marzo del 1515 dal vicario di Tenno, Antonio Beriano, a beneficio del vescovo Bernardo Cles. Vi vengono elencati esclusivamente i beni mobili del castello e in particolare dei locali adibiti a stanza da letto, cucina e cantina. "L'inventario - scrive Graziano Riccadonna - può fornire una serie di appunti per una storia della gastronomia locale, non tanto per gli alimenti citati quanto per la carne salada de bove et de porco, laddove l'autentica originalità deriva dal riferimento alla carne salata di maiale, al posto del più consueto e tradizionale manzo" (Riccadonna 1994: 54). Risale forse allo stesso periodo una ricetta che troviamo in un manoscritto trentino settecentesco (copia con aggiunte di un ricettario più antico) "riscoperto" da Bertoluzza. Vi si legge la ricetta di uno "stuffato" nella quale si prescrive di prendere della carne di manzo, di porla "due giorni in salle" e di aggiungere bacche di ginepro, aglio, rosmarino ed aceto "tanta che stia coperto caricandolla con sassi" (Bertoluzza 1988: 199). Insomma: carne in salamoia tenuta premuta da delle pietre. "La salatura della carne - spiega Bertoluzza - avveniva in quell'epoca con un pizzico di salnitro, con il quale veniva strofinata da una parte all'altra, riponendola poi in un vaso di terra con sei once di sale comune e sei once d'acqua, bacche di ginepro e aglio pestati insieme". Il vaso veniva poi coperto e la carne, tenuta pressata, doveva essere rivoltata due volte al giorno. Il tutto per un paio di settimane. Poi veniva affumicata, consentendo così una buona conservazione (Bertoluzza 1988: 199).
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Testi tratti dalla serie
"La cucina tradizionale del lago di Garda"


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BARBARANI B., "Tutte le poesie", Milano 1984
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El chisöl per i pòri morti
Indagando su un'antica usanza rituale fra la pianura mantovana, la provincia bresciana e l'Alto Garda veronese
di Angelo Peretti

Domandate ai vecchi di Brenzone che cosa sia il chisöl. Vi risponderanno che era una questua. La facevano da ragazzini, in novembre, andando a elemosinar castagne di casa in casa.
Provate a far la stessa domanda a qualche anziano di Cassone, in terra malcesinese, poco più a nord. Vi dirà che il chisöl era un pane piccolo d'una volta e che ora non s'usa più.
Andate a chieder notizie nel Mantovano. Là il chisöl - o la chisöla, al femminile - è una schiacciata, resa ricca coi ciccioli di maiale, oppure con la cipolla o con l'uva passa.
Spostatevi nel Bresciano. Vi faranno assaggiare il loro chisöl, che è una focaccia dolce, zuccherata. Qualcuno vi racconterà anche un proverbio: "Per sant'Antóne chisöler, chi no fa la turta ghè burla zó 'l solér". Si riferisce a una ritualità legata alla festa di sant'Antonio abate, il 17 di gennaio. Dice Attilio Mazza: "Era tradizione nella Bassa bresciana che, per il giorno di sant'Antonio, le massaie preparassero èl chisöl, una focaccia. L'antica consuetudine assunse significato propiziatorio affinché non crollasse il solaio carico di neve". Ma forse non è proprio così. Almeno non del tutto. E tra il chisöl brensonàl, quello casonér, quello mantovano e quello bresciano potrebbe esserci un legame molto stretto, anche se a prima vista non parrebbe.
Forse la vera spiegazione del rito del chisöl la si può trovare, quasi incredibilmente, proprio a Brenzone. Qui - s'è visto - il chisöl non era qualcosa da mangiare, bensì una curiosa usanza novembrina. Ne ha parlato "El Gremal" nel '95. Lo spunto veniva da una breve composizione di una (allora) allieva di seconda elementare, Marta Sartori, che, dovendo indagare sulle tradizioni dei nonni, ha scritto così: "Nei giorni dei morti, quando i nonni erano bambini, nei nostri paesi c'era questa usanza: i bambini più poveri andavano, con un sacchetto, dalle famiglie che possedevano tanti castagni a chiedere 'el chissöl per i pori morti', cioè un po' di castagne". La notizia raccolta dall'alunna venne sottoposta al vaglio dei compagni, che a loro volta intervistarono i familiari. Se ne ricavò che "quasi tutti i nonni conoscono questa usanza". Pochi invece i genitori che avessero fatto la questua: la tradizione si stava perdendo.
Cosa c'entra la questua brenzonese con le focacce di Cassone e dei lombardi? C'entra. Ma ci arriviamo un po' per volta, aggiungendo un nuovo indizio.
L'ulteriore tassello m'è stato fornito dall'ex sindaco di Brenzone, Dennis Palminio, che ha sentito a proposito del chisöl qualche anziano del luogo. Ricevendo notizia che la questua non era riferita sempre e solo alle castagne, ma anche ad altri frutti e altre vivande. Sempre e comunque la si domandava "per i poveri morti". C'era dunque un qualche nesso fra il chisöl di Brenzone e il ricordo dei defunti.
Durante la questua si chiedevano in dono in particolare le castagne. E anche questo non è un caso. Le castagne erano cibo rituale e simbolico: il loro frutto esce dalla scorza così come il corpo resuscita dal sepolcro. A Bardolino il giorno dei morti nelle famiglie di campagna ci si dividevano i compiti: i più andavano alle funzioni sul cimitero, ma qualcuno restava a casa a cuocere le castagne, che fossero pronte al ritorno. Guai a farle mancare. Erano il pane dei morti. A San Zeno di Montagna il prezzo dei marroni restava alto sino a fine ottobre, per poi calare di colpo. Come può una data fare da limite alla fissazione del prezzo d'un prodotto alimentare, se quella scadenza non carica di significato l'alimento? Pensate al pandoro: dopo Natale è ottimo comunque, ma in bottega non se ne vende più neanche una scatola, se non riducendo brutalmente il prezzo. Così era per i marroni il giorno dei morti: passata la ricorrenza, crollava il prezzo.
Il chisöl era dunque il rito con cui i ragazzini di Brenzone andavano di casa in casa a domandare il pane dei morti. Così come altrove il chisöl era pane davvero. Pane rituale, da portare in tavola per le ricorrenze dei defunti. Era pane vero e proprio quello di Cassone. È pane arricchito di carne o verdure quello mantovano. È pane addolcito quello bresciano.
Si dirà: ma il proverbio di Brescia smentisce questa tesi. Il chisöl lo si preparava per la festa di sant'Antonio Abate. Che c'entra lui coi riti dei defunti? C'entra.
Molte festività cristiane hanno sostituito, sovrapponendovisi, antichi riti pagani. Il Natale in primis. Pensateci: nei Vangeli non si trova traccia della data di nascita di Cristo. Ed è comunque improbabile - dicono gli storici - che si trattasse della fine di dicembre. Ma a Roma l'imperatore Aureliano aveva fissato al 25 dicembre la festa del Sole invitto, celebrato con le corse dei carri, raffigurazione del carro solare. I primi cristiani hanno dunque sovrapposto al sole dei pagani quello della luce di Cristo: "Tu sole vivo per me sei Signore, vita e calore diffondi nel cuor" si canta ancora oggi nelle chiese.
Anche la festività di sant'Antonio abate è una sovrapposizione d'un culto pagano: quello di Lug, dio celtico della morte e della resurrezione. Il simbolo di Lug era il cinghiale, e sant'Antonio è sempre raffigurato con un maialino al fianco. La stessa campanella di sant'Antonio è simbolo della morte e della resurrezione. "Come è avvenuto spesso nel cristianesimo primitivo, i Celti convertiti hanno trasferito probabilmente gli attribuiti di Lug su sant'Antonio" osserva Alfredo Cattabiani. Le stesse reliquie di sant'Antonio sono giunte dalla terra dei Celti, la Francia.
Ancora il chisöl come pane dei morti, dunque. Anche nella tradizione bresciana. In forma diversa rispetto a Brenzone. Ma con lo stesso nome. Il che spinge a pensare che il chisöl sia il rito in sé, e non tanto ciò in cui si materializza. Rito comunque alimentare. Rito del pane dei morti: castagne o pani schiacciati che fossero. Ed a Brenzone se ne trovano gli indizi più autentici.
Perché proprio a Brenzone? Perché il suo lungo isolamento ha permesso di conservare traccia di usanze arcaiche, altrove dissoltesi. Giudicato "domicilio aspro e orribile", Brenzone è rimasto praticamente privo di strade sino alla fine degli anni Venti. Simili condizioni potrebbero aver consentito che lì e solo lì sopravvivessero tradizioni alimentari vetuste, non contaminate da altri usi alimentari o dalla cucina borghese ottocentesca. Non a caso proprio a Brenzone si trova la ricetta originaria del sisàm. E solo qui resiste un piatto come la polenta carbonéra, probabile indicatrice delle migrazioni che portarono alla colonizzazione di quest'impervia porzione del Baldo attraverso le valli lombarde ed il lago. Brenzone si mostra un prezioso laboratorio di ricerca sulle tradizioni gastronomiche del territorio veneto e lombardo.
Resta da soddisfare, credo, una curiosità: come si fa il chisöl in uso fra i Bresciani e i Mantovani. Gino Brunetti dice che il chisöl mantovano "era fatto con farina bianca, acqua, sale ed un poco di bicarbonato": il tutto veniva impastato e poi cotto col testo, ossia una teglia particolare per le torte o anche, più anticamente, un semplice disco di pietra o di terracotta per cuocerci, schiacciato, il pane "sulla madre del fuoco". "È fatto di farina bianca, acqua, sale e un poco di bicarbonato" concorda Franco Marenghi: l'impasto viene messo a cuocere sotto la cenere del camino in una teglia con coperchio. Lo si mangiava in sostituzione del pane. Doveva essere grosso modo così anche il chisöl che si usava a Cassone. Quello che, secondo Giuseppe Trimeloni, era "una particolare forma di pane piccoletta, tondeggiante e schiacciata". Lo stesso etimo riporta alla forma schiacciata, schisà.
"Che la chisöla incorpori l'uva fresca o secca, la cipolla o i ciccioli di maiale, poco importa: il carattere dell'impasto è sempre lo stesso", attesta Stefano Scansani parlando della tradizione mantovana. Lievito, farina bianca, acqua, sale e sugna, ossia greppole di maiale, sono anche gl'ingredienti del chisöl bresciano citato da Camillo Pellizzari. Secondo Marino Marini fra i componenti figurano anche zucchero, uova, uvetta e scorzetta di limone. E Marcello Zane dice che sul Garda lombardo il tegame di cottura veniva unto con l'olio e "spolverato di pan trito, veniva riempito da un composto formato da uova sbattute con zucchero, cui era stata aggiunta farina bianca, ancora dell'olio di oliva, sale e poco latte".
Questo è il chisöl. Sperando non se ne perdano la tradizione e la memoria.
Angelo Peretti

Bibliografia
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Cattabiani A., "Calendario", Milano 1994
Consolini I. - Peretti A. - Tagliaferro F., "La cucina tradizionale del lago di Garda. Parte II", Torri del Benaco 1997
Consolini I. - Peretti A. - Tagliaferro F., "La cucina tradizionale del lago di Garda. Parte III", Torri del Benaco 1998
Devoti S., "Brenzone definita nel 1419 'domicilio aspro e orribile'", in "El Gremal", Brenzone 1997
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Marenghi F., "La cucina mantovana ieri e oggi", Roma 1996
Marini F., "La cucina bresciana", Padova 1993
Mazza A., "Calendario bresciano", Gussago 1997
Pellizzari C. (a cura), "La cucina bresciana", Bornato 1976
Peretti A., "Il sisàm: le probabili origini di un piatto della tradizione gardesana", in "Il Baldo" n. 7, Caprino Veronese 1996
Peretti A., "Una minestra e tre polente", in "Il Baldo" n. 5, Caprino Veronese 1994
Sartori M., "Intervista alla... tradizione", in "El Gremal", Brenzone 1995
Scansani S., "Il mangiare cattivo", Mantova 1997
Trimeloni G., "Dizionario etimologico del dialetto di Malcesine", Malcesine 1995
Zane M., "L'olio" in Zuanelli M. - Pellegrini E., "La cucina del Lago di Garda", Salò 1994

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di dicembre 2000 della rivista El Gremal, edita a Brenzone dal Centro turistico giovanile
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Il gambero nell'Ultima Cena di Santa Cristina a Ceredello
di Angelo Peretti


Percorrendo la strada che da Caprino conduce ad Affi, ecco che si incontra ad un tratto la contrada di Ceredello. L'attenzione di chi scelga di farvi breve sosta viene attratta dalla chiesetta che s'affaccia sulla piana di Pesina. È dedicata a Santa Cristina, forse per chiederne la protezione dal morso delle serpi. Oppure per esorcizzare, col nome della martire distruttrice degli idoli, preesistenti segni di culti pagani, come ipotizza, pur con prudenza, Giuliano Sala in un suo libro dedicato alla piccola chiesa (1).
Scrivendo di questo tempietto campestre, Sala s'è soffermato a trattare anche di un'Ultima cena che vi si trova dipinta sulla parete che guarda a meridione. E di quell'affresco, attribuito al XIV secolo, vien definita "singolare" una particolarità: sulla tavola imbandita figura il gambero. "Al momento ci sovviene solo in un'Ultima cena presso la chiesa di S. Zeno Maggiore a Verona" aggiunge Sala, cercando analogie con una tal raffigurazione. E tentando di interpretare quella presenza, ne propone una lettura simbolica, dicendo che i gamberi potrebbero alludere alla resurrezione "così come il pesce è simbolo del banchetto eucaristico". Ed è proprio sulla raffigurazione del gambero sulla mensa dipinta in Santa Cristina e sulla simbologia prospettata che vorremmo soffermarci.
Vorremmo tentare infatti di proporre per quest'affresco un'altra possibile chiave di lettura, magari complementare a quella offerta da Giuliano Sala. E questo perché condividiamo il parere di Massimo Montanari quando scrive che "le numerosissime raffigurazioni medievali dell'episodio evangelico dell'Ultima Cena, legate alla cultura e all'esperienza dei singoli autori pur nel rispetto di certi canoni formali simbolicamente connotati, sono una preziosa miniera d'informazioni sugli usi conviviali e sulle loro modificazioni nel tempo" (2). E dunque anche una lettura per così dire materiale, e quindi non solo simbolica, parrebbe possibile suggerire per l'affresco di Ceredello.
Se infatti l'interpretazione simbolica di taluni elementi alimentari é perfettamente sostenibile, vi è peraltro anche da sottolineare come la presenza del gambero su di un affresco tardo medievale, raffigurante una tavola imbandita, non sembri affatto anomala. Il gambero d'acqua dolce doveva essere infatti un genere di consumo abbastanza familiare per la cultura gastronomica dell'epoca. Non a caso una delle immagini del celebre "Theatrum Sanitatis" trecentesco (3) mostra un signore e la sua dama intenti a pranzare all'aperto, poco fuori della porta d'un palazzo, seduti ad una mensa su cui troneggia un gran piatto di questi crostacei. E nelle cronache lasciateci da Bonvesin da la Riva, sono indicati come il cibo allora prediletto in Quaresima dai milanesi (4). Così pure sono abbondanti le citazioni negli a dire il vero non moltissimi ricettari tre-quattrocenteschi conosciuti (5), in cui si scrive di gamberi lessati e conditi con aceto o agresto, oppure utilizzati come base per altre elaborazioni.
C'è da aggiungere che la presenza del gambero nelle Ultime Cene medievali parrebbe essere, se non frequentissima, almeno non insolita. Potremmo citare al proposito l'affresco attribuito a Dario di Pordenone presso la chiesa di San Giorgio a Treviso. E Giuseppe Maffioli, eclettico personaggio che s'é occupato di teatro e di gastronomia, ha avuto modo di sottolineare che gli ottimi gamberi di San Polo, dalle parti di Conegliano, "sono solidamente ancorati alla storia dell'arte locale, grazie ad una loro evidentissima apparizione in un umile affresco del secolo XV" in una cappelletta non lontano da Lia (6).
Entrambi gli affreschi appena citati, si noti, sono in zona di cattura di gamberi (anche se oggi assai meno diffusi che in passato). Così può sorgere il dubbio se anche dalle parti di Ceredello, visto che dall'affresco di Santa Cristina han preso spunto queste considerazioni, vi fosse l'uso di mangiar gamberi. E qui la faccenda si complica, non essendoci conosciute fonti locali in merito. Ma é peraltro nota ancora oggi la diffusione del gambero d'acqua dolce in area gardesana e nell'entroterra (7).
È dunque una lettura una lettura semplicemente materiale quella che è da dare all'affresco di Ceredello? Pur con le considerazioni esposte, non pare possibile sostenere con certezza che il pittore che qualche secolo fa dipinse l'Ultima cena su di una parete della chiesetta di Santa Cristina abbia voluto ritrarre i gamberi familiari alla sua cultura gastronomica, o per lo meno a quella allora corrente. Né d'altro canto si può affermare unicamente che abbia loro attribuito valore simbolico. Potremmo azzardare che valgano entrambe le ipotesi. Ossia che l'uso simbolico del cibo potesse sì essere consuetudine dei pittori medievali, ma che questi utilizzassero come supporto alla simbologia elementi della cultura alimentare del loro tempo. E dunque gli affreschi che, più o meno in buone condizioni, adornano i luoghi di culto, potrebbero esser considerati, anche per l'area baldense e benacense, preziose fonti per la ricerca nel campo della cultura materiale. Colmando così in parte, per quanto attiene gli usi alimentari, i vuoti lasciati dai documenti scritti.

Note
1. Giuliano Sala, "La chiesa di S. Cristina a Ceredello di Caprino", Centro studi per il territorio benacense, Torri del Benaco 1993. Per ulteriori notizie sulla chiesa si veda anche "Antichi oratori nel Caprinese" in "Il Baldo" n. 1, Centro turistico giovanile, Caprino 1989.
2. Massimo Montanari, "Convivio", Laterza, Bari 1989.
3. Il manoscritto del "Theatrum sanitatis" è conservato presso la Biblioteca Casanatese di Roma.
4. A citare, riguardo al gambero, Bonvesin da la Riva (vissuto fra XIII e XIV secolo) è Massimo Alberini in "Storia della cucina italiana", Piemme, Casale Monferrato 1992. Aggiungiamo che c'è anche una curiosità letteraria, forse anch'essa a metà strada fra simbologia e gastronomia, a proposito del gambero in tavola in età medievale. Ci riferiamo alla "Leggenda antica di San Francesco". Vi si narra di come il poverello d'Assisi, gravemente malato, venisse insistentemente pregato di nutrirsi. E quando il Santo si disse tutt'al più disposto a mangiare del "pesce squalo", ecco avvicinarsi un tale con un canestro contenente proprio tre di quei pesci oltre a dei bei gamberi, "che il Santo mangiava volentieri". Il testo della leggenda è riportato nel già citato "Convivio" di Montanari.
5. Si veda al proposito Emilio Faccioli, "L'arte della cucina in Italia", Einaudi, Torino 1987. A fornire la formula per la cottura del gambero (in verità riferita, parrebbe, a quello di mare) è per esempio il trattato d'un anonimo autore trecentesco della corte angioina: "Metti i gamberi in acqua bollente con sale, e mangia con agresto o aceto". Peraltro nel celebre quattrocentesco "Libro de arte coquinaria " di Maestro Martino da Como si fa riferimento proprio al gambero d'acqua dolce, dicendo che va fatto lessare, "et il suo sapore vole essere l'aceto". E comunque lesso lo si utilizzava per piatti più complessi, come il "savore de gambari" (ottenuto pestando nel mortaio code di gambero lessate, "un poco de herbe bone", rossi d'uovo e mandorle e stemperando il tutto con agresto, aggiungendo poi acqua, "sì che non sia acetoso", più spezie ed olio) di un anonimo trattatista veneziano del Trecento, oppure il "pastello de gamari" (i gamberi sono lessati, puliti e poi fritti insieme con della cipolla; si aggiungono pepe, zafferano ed un trito di noci, mandorle e zucchero e si pone il tutto in una sfoglia, creando una sorta di "torta salata" dei nostri giorni) d'un altrettanto sconosciuto compilatore meridionale del primo Quattrocento.
6. Giuseppe Maffioli, "Il ghiottone veneto", Morganti, Treviso 1992. Maffioli aggiunge che quella chiesetta "presenta un'Ultima cena, sulla cui mensa, oltre all'agnello pasquale, al vino, ai pani ed alle erbe amare della tradizione, spiccano dei bei gamberoni scarlatti".
7. Si vedano al proposito le recenti indagini condotte da Daniele Zanini, confluite nel suo articolo "Il gambero di fiume (Austropotamobius pallipes fulcisianus) nella regione benacense" in "Il Garda. L'ambiente, l'uomo" n. 8, Centro studi per il territorio benacense, Torri del Benaco 1992.

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Il Baldo, edita a Caprino Veronese dal Centro turistico giovanile

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