Marco Giovenale
La sintassi fotografica di Fabrizio Matteo Rossi

Quasi una oltranza del nero, nelle fotografie b/n di Fabrizio Matteo Rossi, prende campo nella mostra Gaia, l'angelo e la città, esposta a Roma dal 12 ottobre al 4 novembre 2003 nella libreria-galleria Al ferro di cavallo (via di Ripetta 67).

Se l'accostamento non fosse in parte improprio - e da considerare in ogni caso applicabile solo alle foto di luoghi, di "esterni" - un nome a cui riferirsi potrebbe essere quello di Bill Brandt. Qui nella mostra di Fabrizio M. Rossi, in verità, a venir centrate dall'obiettivo sono occorrenze di un possibile avvicinamento "dall'alto" alla realtà, alla Welt: come planando da uno sguardo estraneo, la scrittura dell'ombra diventa il disegno meticoloso delle architetture, di rocce, di frammenti incompleti di abitazioni, risolti nel loro codice di geometrie.
Il comunicato preparato per l'esposizione spiega che l'"itinerario foto-grafico (…) si articola tra il mito di Gaia (la Terra), gli 'Strange Angels' sospesi tra cielo e terra, e frammenti di volo nella Città come (probabilmente) degli angeli stranieri potrebbero vedere. Guida della mostra sono due testi di Mallarmé, consegnati alla libera ricomposizione da parte del visitatore".
A risultare semantizzati addirittura all'eccesso non sono solo i confini esatti dell'inquadratura, e i tratti di case o pietre o corpi, ma anche il monologo dilagante del buio e - in parallelo - l'incisione dei dettagli, e la nebulizzazione di significati dovuta ai frammenti da Mallarmé. Incisione, buio e sospensione (volo, e polverizzazione dei versi) sono gli snodi della sintassi della mostra.
Una sala è di fatto interamente dedicata al ...sospendersi del volo stesso: con acrobati (macchie di bagliore) vincolati ai loro movimenti su fondo nero, non solo tracciati dal "mosso" della registrazione fotografica, ma stampati - su pannelli di più grandi dimensioni - in negativo, a esaltare il rovescio di quel nero. (Così replicandone in luce la presenza intensissima: quasi una visione a infrarossi).

Allo stesso tempo, come le frasi del libro immaginario di Mallarmé, che in gioco (o nel celebre lancio di dadi) fluttuano e si aprono alla libera ricomposizione da parte del lettore, le fotografie di Rossi esplicitano ma non impongono sequenzialmente idee di "prospettive di volo". Né risultano invadenti e definitorie/definitive le pur nette linee di sintassi di cui si diceva.
Ad altre sensibilità, certamente, altri rilievi: su questa che è sicuramente una mostra da visitare e su cui indugiare, vagliandone i valori e le complessità magari accompagnando la flânerie con l'ironia degli "Strange angels" di Laurie Anderson.

Marco Giovenale