CANI & SCRITTORI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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DISCLAIMER  

 

Giuseppe Berto  

(1914-1978)

 

 

Scrittore tra neorealismo e indagine psicologica, sceneggiatore cinematografico, ottenne un clamoroso successo commerciale con “Anonimo Veneziano”  (1971).

Premio Viareggio e Premio Campiello nel 1964 per “ Il male oscuro”.

 

OP:il romanzo d’esordio "Il cielo è rosso" (1947), "Le opere di Dio"  racconto lungo edito nel ‘48, "Il brigante", il diaristico "Guerra in camicia nera" (1955), "Il male oscuro" (1964), il romanzo per ragazzi "La fantarca" (1965), l’amaro "La cosa buffa" (1966), "Anonimo veneziano" (1971), l’ironico "Oh, Serafina!" (1973) e la raccolta - uscita postuma - "Colloqui col cane" (1986). Da segnalare, pure, il pamphlet provocatoriamente conservatore "Modesta proposta per prevenire" (1971).

 

 

 

Giuseppe Berto con il suo cocker

 

   

 

COCAI

 

Questi "Colloqui col cane" uscirono tra l’ottobre 1968 e il luglio 1969 sulla terza pagina de “Il Resto del Carlino”: raccolti in volume, furono pubblicati postumi nel 1986.

Si tratta di dialoghi immaginari tra lo scrittore e il suo cocker, arroccati su una rupe che sovrasta il mare, in cerca di una risposta alle molte domande che l’attualità suggerisce.

 

[…] Cocai (questo è il nome del mio cane, il quale lo deriva assai tortuosamente da Merlin Cocai, pseudonimo di quel Teofilo Folengo che si trova in tutti i buoni testi di letteratura nonché nelle enciclopedie diligentemente compilate ) ……

[…] Insomma io avrei un cane del tipo oggi detto cinese […]. Ho paura che, siccome io dico che il mio cane è cinese, il lettore sia indirizzato a immaginare una di quelle bestie chiamate pechinesi: andatura rulleggiante, testa massiccia, occhi scuri e sporgenti, i quali peraltro sporgono invano giacchè sono sempre coperti da una cascata di peli alquanto ispidi.

Mai io terrei un pechinese. A dire il vero, non terrei nemmeno cani di qualsiasi altra specie dal momento che i cani, nonostante la buona letteratura di cui godono presso ogni popolo, sono grosse scocciature, per non dir peggio. In realtà può esser giusto fin che si vuole che il cane è amico dell’uomo, però è più giusto ancora che l’uomo ha da essere amico del cane, a scanso di guai.

Un cane assorbe una buona porzione della capacità lavorativa dell’uomo che lo possiede: bisogna infatti custodirlo, nutrirlo, divertirlo, vigilare sulla sua salute fisica e psichica, e inoltre effettuare incessanti, inutili e spesso costosi tentativi per tenerlo il più possibile privo di pulci, zecche e cattivi odori. Questi tentativi consistono in bagni medicati e profumati, pettinature con brusca e striglia , applicazioni fin sulla pelle di polveri insetticide, ricerca manuale di parassiti: quando avrete fatto questo con la più grande diligenza, egualmente sarete svegliati dal cane che durante la notte si gratta da matto. Da quanto s’è detto finora (e da altre  numerose cose che per brevità taccio) consegue che, se uno possiede un cane, qualsiasi attività si proponga di esplicare (muoversi o lavorare o mangiare o dormire o vedere gli amici) ha da fare prima i conti con la bestia.

Quindi io sarei per ragionamento, oltre che per temperamento, portato a non possedere cani, e infatti questo cane che abitualmente io chiamo mio e col quale vivo sulla rupe solitaria chiacchierando persino del più e del meno, non è per niente mio bensì della mia unica figlia la quale, dopo avere a lungo sostenuto che senza un cane non poteva vivere, una volta giunta in possesso della necessaria bestiola, l’ha consegnata a me, bastandole pensare da lontano che il cane lo possiede lei e che, appunto, sono io che glielo tengo .          

Comunque non si tratta di un cane pechinese, questo volevo dire fin da principio, bensì di un cocker spaniel piuttosto biondo. Ora trascrivo quanto dice una buona enciclopedia a proposito del cocker spaniel : Razza di cane da caccia da riporto, robusto, tarchiato, di statura piuttosto piccola, pelo folto, morbido, ondulato o liscio, di colore uniforme o macchiato, orecchie molto lunghe.

Qui, di vero, ci sono soltanto le orecchie le quali in verità sono molto lunghe e di conseguenza sempre sozze. Quanto al resto, posso ben testimoniare che questo mio cocker (che io  ho chiamato Cocai e che ho acquistato a caro prezzo per via d’un ineccepibile pedigree) non è mai andato a caccia (qui però pare che sia colpa mia, che non ce l’ho mai portato, dato che io stesso non ci vado) e non è robusto e nemmeno tarchiato.

L’enciclopedia poi trascura di sana pianta d’illustrare la più evidente peculiarità di questi cani, ch’è quella d’avere, magari  per caso  non dico di no, uno sguardo che incolpa.

Essi vi guardano e  subito mettono in moto il vostro complesso di colpevolezza, ossia quegli impulsi di origine inconscia che accentrano e bloccano la vostra energia psichica dato che da bambino voi avete ammazzato vostro padre o vostra madre (o è come se l’aveste fatto).

Se, ad esempio, vi venisse in mente di farvi psicoanalizzare (cosa che tra l’altro costa un sacco di soldi) provate prima lo sguardo del cocker, ossia fatevi guardare con un po’ d’attenzione da uno di questi animali: se, combinazione, non vi sentite in colpa per qualche cosa, allora dal psicoanalista non ci dovete andare, dato che mancate del minimo di sensibilità indispensabile per essere nevrotici.

Io, per mia sventura, nevrotico lo sono, quindi il cocker è l’agente più adatto a far riaffiorare dal mio inconscio un generico malessere per le malefatte che l’autodifesa e l’educazione vi hanno sepolto, sicchè mi trovo costantemente in uno stato per così dire di disponibilità sofferente sia verso me stesso che verso il mondo di fuori, cosa abbastanza ingiusta dal momento che se uno soffre smodatamente per te stesso avrebbe anche il diritto di fregarsene del dolore del mondo di fuori.

Naturalmente non è da dire che l’azione incolpante del cocker si spinga sempre tanto nel profondo, spesso essa agisce in superficie, incidendo solo sul mio comportamento contingente. Se, mettiamo, ho due bistecche e gliene do una, lui la sua se la mangia in un boccone e poi si mette a guardare me che mi mangio la mia e non dice nulla ma mi guarda con l’aria d’un cane randagio che da settimane non trova nulla da mettere sotto i denti, sicchè io comincio a sentirmi nei panni di un borghese che, succubo dei caroselli da una parte e stretto  nel suo meschino egoismo dall’altra, si superalimenta, finchè anche la mia bistecca se la mangia lui, e io non corro il rischio di andare troppo su con la pressione.

Altro problema angoscioso è lasciarlo solo a casa, ciò che a dire il vero accade assai di rado, dato che a nessuno dei due piace allontanarsi dalla rupe sulla quale si vive [a Capo Vaticano], e se dobbiamo andare a comprare spaghetti per me e bistecche per lui, ci andiamo insieme.

Capita però talvolta che uno debba muoversi anche per altre ragioni, e ci sono delle circostanze in cui è disdicevole portarsi dietro un cane, sia pure un cane di pregio come il mio.

Un funerale, ad esempio, o un premio letterario (premi letterari ce ne sono in abbondanza anche nel profondo Sud, dove noi si vive, non parliamo poi dei funerali) .

In queste occasioni lui mi sta a guardare che mi vesto talvolta perfino con la cravatta e naturalmente scodinzola con quel mozzicone di coda che si ritrova per dirmi la sua gioia di venire con me (quando può esprimersi da cane egli evita, giustamente direi, l’uso della parola) e invece al momento buono io mi metto sulla porta e a lui che sta dentro faccio un discorsetto, nulla dicendogli si capisce dell’inopportunità di portare cani a funerali o cose del genere, ma spiegandogli magari anche con un tantino di retorica quale nobile cosa sia per un cane far la guardia alla casa del padrone durante l’assenza di costui, e lui capisce tutto naturalmente e non protesta (per lui la protesta è un’arma sociale, mai personale) però rimane lì fino all’ultimo a fissarmi coi sui occhi suscitatori di senso di colpa: io parto, e dopo due o tre chilometri, o al massimo dopo trenta, torno indietro e me lo prendo, commettendo la stravaganza di andare a un premio letterario con un cane che oltre tutto è cinese, ossia uno che una volta tornati a casa mi dice cose assai brutte sui premi letterari. Ecco che sono infine arrivato a dire in quale senso il mio cane, un cocker spaniel di sicura provenienza inglese, possa a buon diritto essere chiamato cinese: è uno dei tanti contestatari globali, uno dei tanti che, rifacendosi a torto o a ragione alle dottrine di Mao Tse Tung (Herbert Marcuse, molto più difficile li ha mossi per un poco, ora sembra sia stato abbandonato) vorrebbero a ogni piè sospinto sbaraccare il sistema…..

 

da "Colloqui col cane"di Giuseppe Berto

Marsilio Editori, Venezia, 1986

 

 

 

        

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