CANI & SCRITTORI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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DISCLAIMER  

 

Dacia Maraini   

(Firenze 1936)

Scrittrice. Affermatasi con L’età del malessere (1963), ha sviluppato temi esistenziali in particolare legati alla condizione femminile. OP: Crudeltà dell’aria aperta  (poesie, 1966), A memoria (1967), Memorie di una ladra (1972), La lunga vita di Marianna Ucria (1990), Bagheria (1993), Cercando Emma (1993), Voci (1994), Dolce per sé (1997), Buio (1999). E’ anche autrice teatrale: La donna perfetta (1975), I sogni di Clitemnestra (1981), Lezione d’amore (1982)

 

 

 

Storie di cani per una bambina

 

Questa raccolta di racconti ha vinto il premio Andersen 1996.

Copertina della  edizione I Delfini rilegati

Fabbri Editori ottobre 1999

 

Da dove vengono i cani?

 

Da dove vengono i cani? Era una domanda sul filo del rasoio. Una domanda che si stampava sul cuscino, nelle notti di malattia, in una Palermo gettata via.

“Psicopompo”, mi ricordo questa parola. La zia Aurelia, che era una donna dalle molte bellezze, la pronunciava stringendo le labbra che si arricciavano sotto il naso. Le gambe lunghe e belle, gli orecchini da zingara, aveva tanti corteggiatori che neanche li contavo più.

“Psicopompo” spiegava lei con ironica pedanteria, da “psichè- anima e pompos, che viene dal verbo pompein- che conduce”. Si inumidiva le labbra con la punta della lingua.

“E’ la guida dell’uomo nella notte dell’aldilà.” E con due dita si carezzava un neo color cioccolata che le fioriva sul mento.

I cani, mi diceva, vengono dalla luna. Sono creature sabbiose. Vivono come ingordi spettri in quelle terre desolate e bianchissime. Le avevamo viste quelle radure, quelle montagnole a occhio di bue, la zia Aurelia e io, sedute sul divanetto a fiori, davanti allo schermo della televisione. Avevamo seguito con apprensione, i passi incerti del gigante di plastica che procedeva  lento spostando nuvole di sabbia leggera come cipria. La voce gracchiante, inframezzata da sbuffi e soffi, diceva che era lì, sulla luna, felice, e salutava il presidente del suo paese mentre la bandiera con le stelle cascava floscia sull’orizzonte.

Il signor Armstrong – di cui la zia Aurelia dice che è lo stesso nome del generale che arriva in Danimarca e trova tutti morti, compreso Amleto – aveva raccontato in una intervista  che non c’era vita sulla luna. Niente di niente: sconfinate petraie, sabbia fumosa, valli e monti abbandonati. Solo a un certo punto, in una conchetta bianca, abbacinata, in cui la sabbia galleggiava come fosse acqua, aveva trovato delle impronte di cane.

“I cinocefali” insisteva la zia Aurelia, che mi faceva da madre e da padre, “nel mondo dei morti dell’Egitto se ne stanno seduti sulle porte a difendere il regno dei ghiacci e delle tenebre dalle intrusioni estranee.”

E così quell’essere morbido, peloso, dal muso appuntito, era uno “psicopompo”, venuto dalla luna. Il signor Armstrong che aveva invaso la Danimarca e aveva trovato Amleto morto di veleno, aveva visto delle impronte di cane sul terreno lunare. Questo è un fatto.

E forse gli egiziani lo sapevano, loro che erano in rapporti così familiari con la luna.

Anche Mulino veniva da quelle terre senza acqua. L’ho saputo appena l’ho visto.

La prima volta che mi ha guardata, ho saputo che mi avrebbe fatto da madre. Era un cane solitario, abituato alle tragedie degli affetti. Scappato chissà da dove, abbandonato chissà da chi, aveva imparato a cavarsela in ogni occasione. Un trovatello.

E cercava una persona da adottare. Ero in campagna, come ogni sabato. Il cuore a pezzi per un amore appena finito. Ho visto il suo corpo magro e rossiccio che si nascondeva vicino al cancello. Mi ha lanciato uno sguardo sospettoso. Ci siamo osservati un attimo. Ha subito capito che non ero il tipo da cacciare via un cane randagio. Si è avvicinato.

La coda gli girava in tondo come la ruota di un mulino. Una cosa mai vista. Una coda che non ondeggia, non sbatte contro i fianchi come succede a tutti i cani, non frusta l’aria, ma fa un giro completo, come una manovella impazzita. L’effetto era comico.

L’ho chiamato Mulino.

Ma non avevo intenzione di portarlo con me a Roma. Se ne vedono tanti di cani persi. In campagna troverà sempre qualcosa da mangiare, mi sono ipocritamente rassicurata, non incontrerà accalappiacani malintenzionati. La notte troverà un fienile in cui dormire.

Ma non facevo i conti con la sua tenacia di cane disperato, deciso a trovarsi una affetto per la vita.

Mi ha accompagnato a fare una passeggiata nel bosco. Ho preso la casa proprio perché era vicina a quel folto di alberi. […] Mulino correva davanti a me sotto i castagni dalle foglie di un verde irreale. Poi si fermava di botto. Girava la testa e mi aspettava, la lingua penzoloni, gli occhi pieni di pazienza. Il fatto è che era lui che stava adottando me e non io lui. Mi guarda da sotto in su, sornione, come a dire: tu dammi solo da mangiare e un tetto e io ti darò le gioie di una madre indulgente e vigile.

La sera, tornando a Roma, non l’ho portato con me. Dove lo metto poi quando parto? pensavo. Sarò costretta a portarlo fuori due volte al giorno. Non ho già abbastanza da fare per conto mio? E quando vado in teatro dove lo sistemo? Senza sapere che sarebbe diventato un perfetto cane da teatro, accucciato per ore in prima fila sotto il palcoscenico ad assistere alle prove senza mai abbaiare né fare una mossa fastidiosa.

Il sabato dopo sono tornata in campagna. Faceva ancora più caldo. […]

La prima cosa che ho visto posteggiando la macchina sotto il pino davanti casa è stato il muso rossiccio di Mulino. Mi ha guardato un attimo perplesso, come se chiedesse se poteva farmi le feste. Quando l’ho chiamato si è slanciato verso di me buttandomi addosso le zampe in un balletto da equilibrista sapiente.

Da quel giorno Mulino è rimasto con me per 15 anni. L’ho portato in città, gli ho comprato una cuccia e una ciotola per le sue pappe. Mi sono abituata ai suoi salti, ai suoi lunghi silenzi rapiti, ai suoi malumori quando ha fame, ai suoi furori sessuali nelle stagioni di passaggio, alla sua petulanza materna quando mi sente in pericolo, alla sua aria offesa quando parto e lo lascio in mani altrui, alla sua eterna cocciuta pazienza.

Una volta si è anche perso. Inseguiva una cagna fra le macchine e dopo un po’ è sparito. Ho dovuto mettere una inserzione sul giornale. Il giorno dopo mi telefona una signora dalla voce grassa: “Come si chiama il suo cane?” “Mulino” dico. “Provi a chiamarlo, gli metto la cornetta vicino all’orecchio.” Ho sentito un abbaiare stizzoso. La signora rideva.

Ho urlato “ Mulino!”  La signora ha detto: “Sì, è lui, scodinzola. Anzi fa un giro completo con la coda, non ho mai visto una coda simile.”

Un’altra volta che l’ho perso mi sono dannata. La zia Aurelia mi ha prestato la sua macchina perché andassi a cercarlo nei canili. Mi affacciavo fra le sbarre accolta da sniffate tenere e richieste disperate d’aiuto. Sapevano che li aspettava la camera a gas e piangevano, si raccomandavano perché li prendessi. Che strazio, povera luna, cosa fare? Per i due più piccoli ho pagato e poi li ho lasciati liberi in campagna.

Infine l’ho scovato il mio trovatello, per la seconda volta. Era rimasto chiuso nella casa di campagna di un’amica dove eravamo stati a cena dieci giorni prima.

Era rimasto lì seduto sul tappeto, ad aspettarmi, con le zampe incrociate come un cane messicano, uno psicopompo appunto, a guardia delle porte delle tenebre.

Non aveva né bevuto né mangiato per dieci giorni. Gli occhi gli erano usciti dalle orbite e lacrimavano. Ma era lì quieto come un signore dei venti e certamente ripensava alle distese lunari in cui ad ogni colpetto di zampa si sollevavano nuvolosi di cipria che coprono il cielo. […]

Per anni l’ho avuto come compagno, Mulino. Me lo portavo in teatro, dove provavo per ore e ore, e lui mi aspettava accucciato sotto il palcoscenico o allungato vicino alla mia sedia. Non dormiva mai. Vegliava quieto, le zampe davanti allungate e incrociate, quelle didietro raccolte sotto il corpo, gli occhi seri, attenti, sognanti. Le orecchie pronte a muoversi nella direzioni dei suoni, delle voci. A volte nel seguire i dialoghi voltava la testa prima verso una voce e poi verso l’altra, con ritmo regolare, come un diligente spettatore di una partita a tennis.

Verso la zia Aurelia aveva  un atteggiamento cavalleresco, un poco rigido, festoso.

Quando io uscivo senza di lui, andava a chiamarla all’ora dei pasti, tirandola dolcemente per la gonna verso la cucina. Come mangiatore era davvero lunatico. Preferiva a tutto le albicocche. Roba che agli altri cani, diceva la zia Aurelia, gli dava il vomito. Amava il vino, i gelati e le fragole col latte. […]

Non potendolo lasciare solo, il mio psicopompo, me lo portavo al teatro, al ristorante e perfino in tournée. Aveva un collarino rosso,una placca di metallo col suo nome inciso sopra, la sua ciotola per l’acqua e quella per la pappa.

In teatro tutti lo amavano perché non abbaiava mai. L’abbaiare di un cane, si sa, fa pensare a qualcosa di disdicevole. Non a caso si dice di un cattivo attore che è “un cane”.

Mulino incrociava le zampe nel camerino e mi aspettava, il muso sempre più screpolato e secco, gli occhi sempre più fuori dalle orbite, velati da un leggero straccio lunare.

Stava diventando cieco, ma non per questo mi perdeva di vista. Sapeva schivare le macchine quando camminavamo come due fratelli per le strade di Firenze, di Genova, di Pisa, di Foggia.

Se in un albergo non lo volevano, ce ne andavamo in un altro. E quando proprio non trovavo niente, lo lasciavo la notte in macchina, avvolto dentro una coperta. E lui restava lì come una mummia, senza muoversi di un millimetro, gli occhi malinconici e spalancati, pronti a passare una notte in bianco nell’attesa del prossimo viaggio.

Infine, una volta che ero ad Avellino a recitare Checov, è morto. Di notte, sul tappetino in fondo al letto, in una camera d’albergo. Da ultimo era diventato cieco ed ero io a condurlo, in braccio, dalla macchina al teatro, dal teatro all’albergo, dall’albergo al ristorante.

Lui si faceva accudire, con una sapienza un poco scorbutica. Come tutti i malati era diventato bizzoso e imprevedibile. Un giorno aveva perfino abbaiato in camerino disturbando la recita. Ma se n’è andato senza disturbare il mio sonno. Eppure avrei voluto dargli l’ultimo saluto. Ma lui ha preferito filarsela, al buio, lasciandomi un corpicino freddo, ma ancora composto, al suo solito, le zampine incrociate davanti, il muso piegato sopra i piedi.

Così mi sono trovata a fare io da psicopompo a lui. La tradizione vorrebbe che fosse il cane a guidare il suo padrone nel regno dei ghiacci. Invece ero stata io a portarlo davanti a quella porta proibita, sulla cui soglia mi sono fermata attonita, trovandomi davanti un cielo buio, appena illuminato da un minuscolo mezzo anello di luna.

 

 

da "Storie di cani per una bambina" di Dacia Maraini 

Illustrazioni di AntonGionata Ferrari, Fabbri Editori, Milano, 1999

 

 

        

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