TRIBUNALE DI S. MARIA CAPUA VETERE, SEZ. LAVORO – Ordinanza 14 dicembre 2000 – G.U. Fabrizio Amendola.

1. Giurisdizione e competenza – Pubblico impiego – Segretari comunali – Provvedimenti di nomina e revoca dei Segretari – Relative controversie - Rientrano nella giurisdizione dell’A.G.O.

2. Pubblico impiego – Segretari comunali – Revoca – Procedimento all’uopo previsto – Principi dei procedimenti disciplinari – Applicabilità - Preventiva contestazione degli addebiti – Necessità – Mancanza - Illegittimità.

3. Pubblico impiego – Ferie – Autorizzazione preventiva – Necessità – Sussiste anche per gli organi di vertice – Autorizzazione formale ed espressa – Nel caso in cui il comportamento dell’organo preposto abbia ingenerato un ragionevole affidamento nell’interessato – Non occorre.

4. Processo civile – Tutela cautelare ex art. 700 c.p.c. – Nel caso di provvedimenti di licenziamento – Valutazione caso per caso in relazione alla non risarcibilità del danno per il lavoratore od alla irreversibilità degli effetti pregiudizievoli causati – Necessità – Fattispecie relativa a provvedimento di revoca di Segretario comunale.

1. Rientrano nella giurisdizione dell’A.G.O. le controversie in materia di nomina e revoca dei segretari comunali, atteso che l’art. 68, comma 1, del D. L.vo n. 29/93, come modificato dall’art. 29 del D.L.vo n. 80/98, devolve "al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni" e tra queste include le controversie concernenti "il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali", nell’ambito delle quali sono omologabili le questioni riguardanti la nomina e la revoca dei segretari comunali (1).

2. L’art. 100/1 T.U. n. 267/2000, nel disporre che "il segretario può essere revocato con provvedimento motivato del sindaco o del presidente della provincia, previa deliberazione della giunta, per violazione dei doveri d’ufficio" e la disciplina prevista dall’art. 15, comma 5°, del d.p.r. n. 465/1997 (secondo cui "il provvedimento motivato di revoca è adottato dal sindaco o dal presidente della provincia su deliberazione della giunta, previo contraddittorio con l’interessato. A tal fine, sono preventivamente contestate per iscritto le gravi violazioni ai doveri di ufficio, sono valutate le giustificazioni rese per iscritto, ed è sentito personalmente il segretario, qualora lo richieda, in sede di seduta della giunta comunale o provinciale"), prevedono una sequenza procedimentale alla quale sono applicabili ben noti principi coessenziali allo svolgimento di qualsiasi procedimento latamente disciplinare, primo fra tutti il principio della necessaria preventiva contestazione degli addebiti onde consentire all’incolpato, in un rituale contraddittorio, di giustificarsi. E’ pertanto illegittimo un provvedimento di revoca di un segretario comunale allorché, per giustificare la revoca stessa venga menzionato un addebito che, con palese violazione del diritto di difesa, non risulti mai essere stato contestato espressamente e preventivamente all'interessato.

3. Anche se deve affermarsi che il periodo di congedo ordinario per ferie del segretario comunale debba essere autorizzato dal sindaco (atteso che la regolamentazione delle presenze in servizio del personale risulta una esigenza logicamente indefettibile di qualsiasi organizzazione di risorse umane, per cui neanche ai vertici di grado più elevato dell’organizzazione può essere consentito di stabilire in assoluta autonomia i giorni in cui lavorare), deve ritenersi nel contempo che la concessione del congedo, quale ordinario atto di gestione del rapporto di lavoro (cd. micro-organizzazione), non postula necessariamente una veste formale, specie allorché il sindaco abbia tenuto una complessiva condotta tale da ingenerare un ragionevole affidamento nel segretario in ordine all’esistenza di un accordo sul piano ferie predisposto.

4. Ogni licenziamento, ogni trasferimento, ogni assegnazione di mansioni inferiori, incide sulla libertà e sulla dignità dei lavoratori, nonché sulla vita delle loro famiglie, colpendo un aspetto fondamentale dei diritti degli individui; eppure non ogni licenziamento, non ogni trasferimento, non ogni assegnazione di mansioni inferiori, legittima il ricorso alla procedura d'urgenza ex art. 700 c.p.c.. Argomentando diversamente si dovrebbe ritenere che per queste tipologie di controversie il pregiudizio imminente ed irreparabile risulterebbe automaticamente in virtù della materia trattata, con la conseguente inevitabile ammissibilità della fase cautelare ed utilizzazione dell'art. 700 c.p.c. come forma alternativa di tutela giurisdizionale.

Appare più conforme al dettato normativo una valutazione caso per caso del periculum che, secondo la migliore dottrina, va ravvisato sia nei casi in cui il diritto vantato non si presta ad un risarcimento idoneo a realizzare integralmente il contenuto del diritto stesso, sia nei casi in cui la lesione del diritto vantato comporta la contemporanea lesione di beni e/o interessi funzionalmente connessi al diritto stesso, sia - infine - in quei casi in cui la lesione implica un'irreversibilità degli effetti pregiudizievoli causati (alla stregua del principio nella specie il Tribunale ha ritenuto che sussisteva il periculum in mora ed ha conseguentemente disposto la reintegra del segretario illegittimamente revocato nel rapporto di dipendenza funzionale con Comune, tenuto conto dei gravi effetti che comportava la revoca e del fatto che il giudice civile, specie con riferimento al disposto dell’art. 68, comma 2°, del D. L.vo n. 29 del 1993, nella nuova formulazione data dall’art. 29 D.L.vo n. 80/98 - secondo cui "Il giudice adotta nei confronti delle pubbliche amministrazioni tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati" – può assumere nei confronti dell’amministrazione il provvedimento adeguato alla concreta tutela del diritto riconosciuto, cioè il provvedimento concretamente idoneo a soddisfare l’interesse sotteso all’esercizio dell’azione).

(1) In particolare, come si legge nella motivazione dell’ordinanza in rassegna, rientrano nella giurisdizione dell’A.G.O. le controversie concernenti la revoca del segretario comunale, sia che si voglia connotare l’atto nel suo contenuto autoritativo organizzatorio come provvedimento amministrativo presupposto suscettibile di disapplicazione (ciò naturalmente forzando la tradizionale concezione dell’istituto della disapplicazione secondo cui essa non opera allorquando l’illegittimità dell’atto è l’oggetto principale della controversia e gli effetti della disapplicazione coincidono integralmente con quelli di un annullamento), sia che lo si voglia considerare nella sua dimensione di atto di gestione del rapporto di lavoro reso con i poteri del datore privato, sia che ci si spinga, per preservare l’essenza provvedimentale dell’atto e la nozione tradizionale di disapplicazione, a ritenere che l’art. 68, 2° comma cit. abbia esteso al giudice ordinario poteri caducatori dell’atto amministrativo equivalenti a quelli costitutivi normativamente ammessi, con conseguente affermazione di una giurisdizione esclusiva del giudice ordinario estesa a posizioni soggettive di interesse legittimo.

Sulla nomina e la revoca dei segretari comunali e provinciali v. da ult. in questa rivista:

TAR MARCHE - Sentenza 27 ottobre 2000 n. 1457

TRIBUNALE DI UDINE Ordinanza 28 agosto 2000* con nota di L. OLIVERI

TAR LAZIO, SEZ. I TER - Sentenza 5 luglio 2000 n. 5511

TRIBUNALE CIVILE DI RAGUSA - Ordinanza 26 febbraio 2000*

L. C. MEALE, Segretari comunali e provinciali: profili di giurisdizione

L. DE MARINIS, Risoluzione delle controversie riguardanti la nomina e la revoca dei segretari comunali e provinciali: qual'è il giudice competente?

C. ANASTASI, Relazione al Convegno di Napoli del 3 luglio 1999 sui segretari comunali e provinciali

G. VIRGA, Il procedimento di nomina dei Segretari comunali e provinciali: competenza, avvio, pubblicizzazione

Per ulteriori riferimenti v. l'apposita pagina nella sezione degli approfondimenti*.

TRIBUNALE DI S. MARIA C.V.
SEZIONE LAVORO
IL GIUDICE
Dott. Fabrizio Amendola
quale giudice del lavoro
(artt. 409 e ss. cpc)

Visti gli atti del procedimento cautelare n. 13366/2000 R.G. proposto da M. S., rappresentata e difesa dagli avvocati L. R. e A. M., nei confronti del Comune di C., rappresentato e difeso dalll’avvocato A. S., nonché dell’Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei Segretari Comunali e Provinciali Sezione Regionale della C., contumace;

sciogliendo la riserva di cui al verbale di udienza del 21 novembre 2000;

uditi i procuratori delle parti;

letti gli atti ed esaminata la documentazione prodotta;

CONSIDERATO IN FATTO

Con ricorso ex art. 700 c.p.c., depositato il 12 ottobre 2000, M. S., dopo aver premesso di rivestire la funzione di segretario comunale presso il comune di C. a far data dal 3.8.98, esponeva che il 30.9.2000 aveva ricevuto comunicazione del decreto sindacale di revoca dall’incarico in cui le si addebitava: a) di essersi arbitrariamente assentata dal servizio, senza la preventiva autorizzazione del Sindaco e senza il necessario nulla osta dell’Agenzia Segretari Campania, nei giorni 5, 8, 9, 11, 12, 14, 16, 17, 18, 19 agosto 2000, b) di aver in precedenza autorizzato, per lo stesso periodo, le ferie estive di 4 capi settore senza prevederne la sostituzione; che tale provvedimento veniva reso all’esito di un procedimento, avviato il 10 agosto mentre era in vacanza, nel corso del quale erano state mosse un insieme di contestazioni, talune neanche riproposte nel decreto finale di revoca e talaltre contenute solo in esso e mai prima addebitate, tutte segnate dal comune carattere della pretestuosità e dell’infondatezza; che, in particolare, la S., con nota prot. n. 7137 del 26 luglio 2000, aveva regolarmente provveduto a comunicare il proprio periodo di congedo ordinario sia al sindaco che all'Agenzia Regionale dei Segretari, piano ferie peraltro precedentemente concordato con il sindaco; che, infine, l’addebito di aver autorizzato le ferie dei capi settore senza provvedere alla sostituzione non era mai stato oggetto di formale contestazione con violazione dei principi del contraddittorio.

Paventando pregiudizio imminente ed irreparabile, sia per la perdita di professionalità conseguente alla forzata inattività cui la S. veniva costretta nella "posizione di disponibilità", sia per la rilevante lesione dell’immagine esterna derivante dalla revoca inflitta, i procuratori dell’istante adivano con procedura d’urgenza il giudice del lavoro del Tribunale di S. Maria C. V. per sentir ordinare al Comune di C. ed all’Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei Segretari Comunali e Provinciali Sezione Regionale della C. l’immediata reintegra della ricorrente nelle funzioni di segretario comunale di C..

Ritualmente instauratosi il contraddittorio, all’udienza cautelare del 7 novembre 2000 si costituiva la sola amministrazione comunale, mentre l’Agenzia Regionale preferiva restare contumace.

L’Amministrazione convenuta eccepiva pregiudizialmente il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e, nel merito, chiedeva il rigetto del ricorso, contestando la ricorrenza dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora.

Sentita personalmente la ricorrente, acquisita la documentazione prodotta, differita l’udienza per consentire il deposito di note illustrative, all’esito della discussione orale questo giudice riservava la decisione.

RITENUTO IN DIRITTO

Della giurisdizione.

Al fine di delibare la preliminare eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal comune resistente appare indispensabile tracciare sinteticamente le linee essenziali del nuovo ordinamento dei segretari comunali e provinciali, così come modificato dalla Legge n. 127 del 15.5.97 (art. 17 commi 68-86) e dal D.P.R. n. 465 del 4.12.97.

Per comodità espositiva faremo riferimento all’articolato in compendio nel Testo Unico degli Enti Locali del 18.8.2000 n. 267, con l’avvertenza che in esso naturalmente non si rinvengono le norme del D.P.R. n. 465/97 in considerazione della loro natura regolamentare.

"Il comune e la provincia hanno un segretario titolare dipendente dell’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali" (art. 97/1), Agenzia che ha "personalità giuridica di diritto pubblico" (art. 102/1).

"Il sindaco e il presidente della provincia nominano il segretario, che dipende funzionalmente dal capo dell’amministrazione, scegliendolo tra gli iscritti all’albo …" (art. 99/1), albo cui "si accede per concorso" e che è "articolato in sezioni regionali" (art. 98/1).

" … La nomina ha durata corrispondente a quella del mandato del sindaco o del presidente della provincia che lo ha nominato" (art. 99/2); "il segretario può essere revocato con provvedimento motivato del sindaco o del presidente della provincia, previa deliberazione della giunta, per violazione dei doveri d’ufficio" (art. 100/1).

"Il segretario comunale e provinciale svolge compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti" (art. 97/2).

I primi commentatori della riforma hanno evidenziato che si è abbandonata la collocazione del segretario nell’ambito dell’amministrazione statale, difficilmente giustificabile nel sistema delle autonomie locali, ma non l’originaria impostazione che conclamava la dissociazione tra rapporto organico e rapporto di servizio, atteso che il segretario da un lato era considerato organo del Comune (o della Provincia) presso cui esercitava le proprie funzioni e dall'altro era un impiegato del Ministero degli Interni.

Anche oggi si ritiene che il segretario instauri con l’Agenzia un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e, previa nomina, un rapporto d’ufficio o organico con l’ente, da intendersi quest’ultimo come relazione di immedesimazione meramente interna, costituita, per dirla con la più autorevole dottrina della materia, da "tutto il complesso di regole che connettono la persona fisica all’esercizio delle funzioni pubbliche" e che non riguarda "il titolare dell’ufficio nella sua materialità di soggetto … ma attiene ad una qualità giuridica che la norma attribuisce al titolare dell’ufficio di agire producendo effetti giuridici che non gli si imputano, esercitando potestà che come soggetto materiale non avrebbe".

La coesistenza in capo al medesimo soggetto della titolarità sia del rapporto di servizio o di impiego con l’Agenzia, sia del rapporto d’ufficio o organico con l’ente comunale o provinciale, ha indotto una certa giurisprudenza a ritenere che gli atti incidenti sulla relazione organica o d’ufficio appartengano alla giurisdizione del giudice amministrativo, mentre le questioni afferenti il rapporto di lavoro competerebbero al giudice ordinario.

Tale opinione trova la sua radice in un duplice riferimento normativo.

Innanzi tutto la legge delega n. 421 del 23.10.92, all’art. 2 comma 1 lett.c), - benchè da coordinare con la norma di cui all’art. 11 comma 4 della legge 15.3.97 n. 59 che, secondo taluno, avrebbe abrogato per incompatibilità l’elenco delle sette materie sottratte dal trasferimento di giurisdizione – esclude dall’ambito delle materie da devolvere al giudice ordinario quella concernente "gli organi, gli uffici, i modi di conferimento della titolarità dei medesimi".

Secondariamente l’art. 3 del D.L.vo n. 29 del 1993 pone "le nomine, le designazioni ed atti analoghi" tra le funzioni di indirizzo politico amministrativo riservate agli organi di governo – ed il sindaco che conferisce o revoca l’incarico segretariale è organo di governo del comune – per cui l’atto avrebbe natura provvedimentale, come tale non sussumibile tra "le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro" che l’art. 4, 2° comma, del D. L.vo n. 29 del 1993, attribuisce agli "organi preposti alla gestione con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro".

La prevalente giurisprudenza ordinaria di merito afferma invece la propria potestà giurisdizionale in questo ambito sulla base del disposto dell’art. 68, comma 1, del D. L.vo n. 29/93, come modificato dall’art. 29 del D.L.vo n. 80/98, che devolve "al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni" e che tra queste include le controversie concernenti "il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali", cui sarebbero omologabili nomina e revoca del segretario comunale.

Questo giudice ritiene di poter aderire a codesta tesi per le argomentazioni che seguono.

Pare al decidente che l’affermato discrimine netto nello status del segretario comunale e provinciale tra rapporto di impiego e rapporto organico si fonda non tanto su di una indicazione normativa - atteso che la disciplina positiva si limita ad affermare che il segretario "dipende" sia dall’Agenzia (art. 97/1) sia dall’amministrazione che lo nomina (art. 99/1), qualificando tale ultima forma di soggezione come "funzionale" – quanto piuttosto sull’ossequio ad una tradizione che perpetua una relazione giuridica bifronte e che non sembra tenere nel debito conto l’effettività del contenuto della prestazione richiesta al segretario.

Dire infatti che una cosa è il rapporto di lavoro con l’Agenzia, disciplinato dalle regole del diritto privato, ed altra è il rapporto d’ufficio con il comune, dominato dalle norme pubblicistiche, significa dimenticare che il segretario presta le sue energie lavorative in favore del comune e che questo ente direttamente se ne avvale, che il segretario è stabilmente inserito nell’organizzazione della struttura amministrativa, che il segretario espleta i suoi compiti ed osserva i suoi doveri di collaborazione in dipendenza funzionale dal sindaco.

Che, in definitiva, in ragione della genetica fratellanza siamese tra il momento organizzativo pubblicistico e quello gestionale privatistico, risulta impossibile stabilire una rigida linea di demarcazione tra i due ambiti, per cui ogni accadimento giuridicamente rilevante per un’area, contestualmente ed indissolubilmente spiega effetti e conseguenze nell’altra area.

Del resto il processo di frantumazione dello schema tradizionale del rapporto di lavoro subordinato anche nel settore privato ha superato il dogma della necessaria coincidenza tra chi è giuridicamente titolare di un contratto di lavoro e chi effettivamente utilizza e coordina la prestazione lavorativa; così la dissociazione tra titolarità formale e gestione concreta del rapporto, un tempo limitata a fenomeni patologici – interposizione fittizia di mano d’opera – conosce la sua tipizzazione con la fornitura di lavoro interinale.

In particolare non può negarsi che l’atto di nomina di un segretario – e l’atto che ne è il suo contrario quale la revoca – non è solo una investitura, espressione di una potestà organizzativa di stampo pubblicistico, ma è anche un atto che riverbera immediatamente i suoi effetti sul rapporto di lavoro, stabilendone le coordinate essenziali e cioè il "dove", il "come" ed il " per chi" si lavora.

L’affermazione della giurisdizione amministrativa in fattispecie siffatte significherebbe dunque sottrarre inevitabilmente alla potestas decidendi del giudice del lavoro situazioni giuridiche soggettive di cui il segretario è titolare in quanto lavoratore e non come preposto ad un ufficio pubblico.

Inspiegabilmente il segretario, per il solo fatto di essere titolare di un rapporto organico, dovrebbe rivolgersi al giudice amministrativo per trovare tutela nei confronti di atti che incidono direttamente sul contenuto della sua attività lavorativa.

Ma quello in controversia non è certo l’unico caso in cui l’atto di nomina partecipa di una duplice natura, definendo, d’un canto, l’organizzazione dell’ente in relazione alla scelta del titolare dell’ufficio e, dall’altro, assegnando a costui i compiti che è chiamato a svolgere.

Gli è che la dualità tra rapporto di servizio e rapporto organico, resa plasticamente nell’ordinamento dei segretari di comuni e province dalla circostanza che la controparte della relazione giuridica è nel primo rapporto l’Agenzia e nel secondo l’ente, non è che una delle manifestazioni della difficoltà di segnare il confine tra cornice pubblicistica e gestione privatistica che pervade il travagliato cammino della disciplina che ha devoluto la materia del pubblico impiego alla cognizione del giudice comune.

Allorquando fu emanato il D.L.vo n. 29/93 la dottrina maggioritaria, sul presupposto della configurabilità dei poteri di gestione del datore di lavoro pubblico pur sempre nei termini pubblicistici del provvedimento amministrativo, salutò la riforma come "una colossale espropriazione dei mezzi giurisdizionali di tutela … ai danni del pubblico impiegato", atteso che non si erano affidati al giudice ordinario poteri di annullamento e costitutivi capaci di incidere direttamente sul provvedimento amministrativo eventualmente lesivo del diritto soggettivo del dipendente.

Solo con la delega conferita al governo con la legge 15.3.97 n. 59 si è cercato di chiarire ogni equivoco ponendo due principi generali: da un lato si è previsto il completamento dell’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato, con la conseguente estensione al primo delle disposizioni del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro privato nell’impresa (art. 11, comma 4, lett. A), l. n. 59/97); dall’altro si è disposta la devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro pubblico "ancorchè concernenti in via incidentale atti amministrativi presupposti, ai fini della disapplicazione" (art. 11, comma 4, lett. G), l. n. 59 cit.).

Con vigore il legislatore delegante ribadisce che la dimensione contrattuale del rapporto di lavoro postula che gli atti di gestione che su di esso incidono abbiano natura privatistica, come tali inidonei a degradare i diritti soggettivi del lavoratore.

Ed anche ove l’atto di esercizio del potere datoriale venga ad innestarsi su di un atto amministrativo presupposto la giurisdizione del giudice ordinario non si arresta, potendosi questi limitare a disapplicare il provvedimento eventualmente ritenuto illegittimo.

Così strutturato, l’art. 68 nella nuova formulazione ha una naturale forza espansiva che attrae alla giurisdizione del giudice ordinario ogni aspetto afferente i rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni che non ne sia tassativamente eccettuato per deroga oggettiva (le procedure concorsuali per l’assunzione) o soggettiva (rapporti di lavoro di magistrati, militari, diplomatici, professori universitari, etc).

La stessa inclusione espressa, tra le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, di quelle concernenti "il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali" lascia comprendere che la giurisdizione del giudice ordinario non si ferma neanche innanzi ad atti promananti da un organo di governo, espressione di potestà di indirizzo politico-amministrativo (ad ex. il Consiglio dei Ministri che, su proposta del Ministro competente, nomina il segretario generale dei ministeri; il Presidente del Coniglio che, su proposta del Ministro competente, attribuisce gli incarichi degli uffici di livello dirigenziale generale; così come il Sindaco che conferisce l’incarico di segretario del comune).

La diretta incidenza di atti pubblicistici sul rapporto di lavoro dirigenziale sembra dunque porre il problema dell’estensione dei poteri del giudice ordinario a tutela della situazione giuridica legittimante e dell’eseguibilità delle sue pronunce ma non mette in discussione l’attribuzione della potestà giurisdizionale.

La forza di attrazione espressa dall’art. 68 citato colora un disegno di devoluzione della giurisdizione in cui la natura dell’atto potenzialmente lesivo costituisce un elemento neutro ai fini del riparto, in quanto per il nuovo assetto tra i due ordini giurisdizionali non soccorre più il criterio tradizionale della natura paritetica o autoritativa dell’atto bensì solo il contenuto sostanziale della fattispecie controversa e la sua inerenza ad una materia trasferita.

Parallelamente le Sezioni Unite della Cassazione – con la rivoluzionaria sentenza n. 500 del 22 luglio 1999 in tema di risarcibilità degli interessi legittimi – commentando proprio la "indubbia forza innovativa" della disciplina introdotta dal D. L.vo n. 80/98 scrivono a chiare lettere nel diritto vivente che "risulta in tal modo compiuta dal legislatore una decisa scelta nel senso del superamento del tradizionale sistema del riparto della giurisdizione in riferimento alla dicotomia diritto soggettivo – interesse legittimo, a favore della previsione di un riparto affidato al criterio della materia".

In ragione delle argomentazioni esposte, per quanto riguarda la revoca del segretario comunale, non può negarsi la giurisdizione del giudice adito, sia che si voglia connotare l’atto nel suo contenuto autoritativo organizzatorio come provvedimento amministrativo presupposto suscettibile di disapplicazione (ciò naturalmente forzando la tradizionale concezione dell’istituto della disapplicazione secondo cui essa non opera allorquando l’illegittimità dell’atto è l’oggetto principale della controversia e gli effetti della disapplicazione coincidono integralmente con quelli di un annullamento), sia che lo si voglia considerare nella sua dimensione di atto di gestione del rapporto di lavoro reso con i poteri del datore privato, sia che ci si spinga, per preservare l’essenza provvedimentale dell’atto e la nozione tradizionale di disapplicazione, a ritenere che l’art. 68, 2° comma cit. abbia esteso al giudice ordinario poteri caducatori dell’atto amministrativo equivalenti a quelli costitutivi normativamente ammessi, con conseguente affermazione di una giurisdizione esclusiva del giudice ordinario estesa a posizioni soggettive di interesse legittimo.

A tale conclusione ermeneutica, anche se per itinerari argomentativi diversi, appare conforme una decisione delle Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 100 del 24.2.99) che, seppure con stringatezza inusuale per la delicatezza dell’argomento, ha dichiarato la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria nella controversia avente ad oggetto la decadenza per gravi motivi di un direttore generale di una azienda sanitaria locale.

La Corte regolatrice ha osservato che il procedimento di decadenza dall’incarico attiene a specifiche inadempienze del direttore generale, si svolge su di un piano paritetico, non si risolve in un apprezzamento discrezionale – a differenza del caso della nomina o della mancata conferma del direttore generale -, comporta lesione di diritti soggettivi e non di interessi legittimi.

Del fumus boni iuris.

La ricorrente invoca tutela cautelare per il suo diritto alla prosecuzione del rapporto di dipendenza funzionale quale segretario del comune di C. che assume illegittimamente risolto dalla revoca del sindaco.

Nei limiti della cognizione sommaria caratteristica del procedimento d’urgenza occorrerà esprimere sul procedimento e sull’atto riferibile alla pubblica amministrazione quello che accreditata dottrina gius-processualistica definisce "giudizio di conformità all’ordinamento" parametrato alle disposizioni primarie e sub-primarie che condizionano l’esercizio del potere di revoca.

Come detto "il segretario può essere revocato con provvedimento motivato del sindaco o del presidente della provincia, previa deliberazione della giunta, per violazione dei doveri d’ufficio" (art. 100/1 T.U. n. 267/2000).

Il successivo regolamento di attuazione della legge, approvato dal governo con il d.p.r. n. 465/1997, che ha completato in via transitoria la definizione dell'assetto ordinamentale sino alla prossima disciplina che sarà contenuta nel contratto collettivo di lavoro, aggiunge all’art. 15, comma 5°, che "il provvedimento motivato di revoca è adottato dal sindaco o dal presidente della provincia su deliberazione della giunta, previo contraddittorio con l’interessato. A tal fine, sono preventivamente contestate per iscritto le gravi violazioni ai doveri di ufficio, sono valutate le giustificazioni rese per iscritto, ed è sentito personalmente il segretario, qualora lo richieda, in sede di seduta della giunta comunale o provinciale."

La delineata sequenza richiama ben noti principi coessenziali allo svolgimento di qualsiasi procedimento latamente disciplinare, primo tra tutti il principio della necessaria preventiva contestazione degli addebiti onde consentire all’incolpato, in un rituale contraddittorio, di giustificarsi.

Tanto consente, nella fattispecie che ci occupa, di sgombrare immediatamente il campo da uno dei due addebiti che motivano la revoca – aver autorizzato le ferie estive di 4 capi settore senza prevederne la sostituzione – atteso che tale fatto non risulta mai espressamente e specificamente contestato al segretario.

Dunque la palese violazione del diritto di difesa vizia di certo in questa parte il decreto sindacale.

A sostegno della revoca grava quindi sul segretario esclusivamente il seguente addebito: essersi arbitrariamente assentata dal servizio, senza la preventiva autorizzazione del Sindaco e senza il necessario nulla osta dell’Agenzia Segretari Campania, nei giorni 5, 8, 9, 11, 12, 14, 16, 17, 18, 19 agosto 2000.

Occorre dunque verificare se sussista l’addebito negli estremi oggettivi e soggettivi in cui è stato contestato e se esso rappresenti una "violazione dei doveri d’ufficio" idonea a giustificare la revoca dall’incarico di segretario.

Parte ricorrente ha preliminarmente sostenuto che non vi è norma, decreto o regolamento che preveda che il periodo di congedo ordinario per ferie del segretario comunale debba essere autorizzato dal sindaco.

L’assunto appare singolare prima che giuridicamente infondato.

La regolamentazione delle presenze in servizio del personale risulta una esigenza logicamente indefettibile di qualsiasi organizzazione di risorse umane, per cui neanche ai vertici di grado più elevato dell’organizzazione può essere consentito di stabilire in assoluta autonomia i giorni in cui lavorare.

Inoltre l’art. 2, 2° comma del D. L.vo n. 29/93, sancisce che "i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto".

In ragione dell’espresso rinvio risulta sicuramente applicabile alla fattispecie l’art. 2109 c.c. secondo cui il periodo di ferie annuali è goduto dal lavoratore "nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro".

La ricorrente ha poi affermato che il piano delle ferie era stato comunque preventivamente concordato con il sindaco e che il 26 luglio aveva regolarmente provveduto a formalizzare la richiesta con atto comunicato al sindaco e all’Agenzia regionale.

L’amministrazione convenuta oppone che su tale richiesta non è mai intervenuta l’autorizzazione scritta del sindaco.

Sin troppo agevole osservare che dal fatto che non vi sia un provvedimento scritto non si può inevitabilmente inferire che su tale programma di ferie non vi fosse l’accordo del capo dell’amministrazione, atteso che la concessione del congedo quale ordinario atto di gestione del rapporto di lavoro (cd. micro-organizzazione) non postula necessariamente una veste formale.

In ogni caso, anche a voler rimettere alla fase a cognizione piena ogni più approfondita indagine in ordine all’esistenza di un consenso del sindaco, già gli esiti dell’istruttoria sommaria permettono di affermare che certo non vi è stato un espresso diniego dell’autorizzazione e che, anzi, il sindaco ha tenuto una complessiva condotta tale da ingenerare un ragionevole affidamento nel segretario in ordine all’esistenza di un accordo sul piano ferie predisposto.

Inequivocamente in tal senso depongono le seguenti circostanze:

- nel fascicolo personale della S., con riferimento al periodo precedente quello oggetto di contestazione, sono state rinvenute solo due richieste scritte di autorizzazione al godimento delle ferie con in calce l’approvazione sindacale (11 giorni nell’agosto 1998 e 2 giorni nell’aprile 2000) e nulla per tutte le altre ferie, segno evidente che, probabilmente in considerazione dei rapporti fiduciari che legavano le persone, la fruizione del congedo non era necessariamente subordinata ad una richiesta e ad una autorizzazione formalizzati per iscritto;

- la domanda di ferie per i giorni del 21 e 22 aprile 2000 reca il protocollo del 21 aprile ed il sindaco la autorizza egualmente, per cui si conferma l’allegazione attorea secondo cui non erano previsti termini antecedenti per presentare la richiesta ed il sindaco soleva autorizzare anche quando la fruizione del congedo era già iniziata se non addirittura esaurita;

- la S. resta in ferie dal 5 all’8 luglio, dal 15 al 21 luglio e dal 27 al 31 luglio, così come da piano ferie contenuto nella domanda del 26 luglio, senza alcuna autorizzazione scritta e, sopra tutto, senza che nessuno nell’amministrazione, tanto meno il sindaco, le chieda conto di ciò, neanche successivamente;

- in risposta alla domanda di ferie protocollata il 26 luglio il sindaco non adotta alcun provvedimento; in particolare non comunica in alcun modo alla S. il suo eventuale dissenso, come sarebbe stato ovvio e naturale se avesse ravvisato in quella richiesta una qualche incompatibilità con le esigenze di servizio previste per i giorni successivi al 7 agosto; lascia invece colpevolmente inevasa la richiesta, fra l’altro violando il precetto di cui al 3° comma dell’art. 2109 c.c. che gli impone di comunicare preventivamente al lavoratore il periodo stabilito per il godimento delle ferie.

Alla luce delle circostanze che precedono può ben dirsi che la S. quando è partita per le vacanze legittimamente poteva non avere alcuna consapevolezza che la sua assenza potesse essere considerata "arbitraria".

Piuttosto il sindaco, con il suo comportamento complessivo, ha dato motivo di ingenerare in qualsiasi persona di media diligenza che valuti oggettivamente quella condotta un ragionevole affidamento circa l’esistenza di un suo consenso al godimento delle ferie del segretario comunale secondo il programma previsto nella nota del 26 luglio.

Pertanto, il fatto commesso dalla dipendente, ridefinito non solo nel suo reale contenuto obbiettivo, ma sopra tutto nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti ed all'intensità dell'elemento psicologico dell'agente, in alcun modo può essere considerato "violazione dei doveri d’ufficio", tanto meno di gravità tale da esigere una sanzione non minore di quella massima, definitivamente espulsiva.

Quanto esposto, con salvezza di ogni potere del convenuto di fornire nel giudizio a cognizione integrale ogni altro elemento di prova e di valutazione in ordine all’addebito, induce allo stato ad una delibazione positiva in merito al fumus di sussistenza del diritto dell'istante alla prosecuzione del rapporto di segretario con il comune di C..

Sul periculum in mora

La lettura della vastissima giurisprudenza edita in materia rende conto dell'ampia utilizzazione dell'art. 700 cpc nelle controversie di lavoro. Non può dirsi però che si siano consolidati orientamenti univoci in punto di valutazione della sussistenza del periculum in mora, che subisce sovente trattamenti differenziati a seconda degli uffici giudiziari e dei singoli giudici.

Taluno opina che la potenzialità preclusiva del sindacato sul pregiudizio imminente ed irreparabile venga a dequotarsi allorquando il giudicante si sia convinto dell'esistenza del diritto e, viceversa, venga esaltata ove mai vi sia incertezza sul fumus o questo richieda complessi e faticosi accertamenti.

Secondo numerose pronunce, anche risalenti, nelle controversie di lavoro in cui vengano colpiti diritti del lavoratore costituzionalmente protetti il pregiudizio, sopra tutto in caso di licenziamento, sarebbe in re ipsa.

L'orientamento esprime una peculiare sensibilità e tangibile rispetto per le primarie esigenze dell'individuo che risultano coinvolte, sovente dolorosamente, nelle vicende all'attenzione dei giudici del lavoro. Sentimento vieppiù animato dall'apprezzabile intento di garantire quell'effettività di tutela troppo spesso frustrata dalla durata dei procedimenti, ormai insostenibile anche per il rito del lavoro.

La più recente giurisprudenza, anche di legittimità, inoltre ammette il ricorso all’art. 700 cpc anche a tutela dei crediti pecuniari di lavoro, anche se nella misura in cui i relativi proventi siano necessari ad assicurare il bene della "esistenza libera e dignitosa" presidiato dall’art. 36 della Costituzione.

Ciò premesso, questo giudicante non può che ribadire il proprio indirizzo, condiviso anche dall’Ufficio, confermando, anche nella specie, la posizione espressa in precedenti decisioni.

Ogni licenziamento, ogni trasferimento, ogni assegnazione di mansioni inferiori, incide sulla libertà e sulla dignità dei lavoratori, nonchè sulla vita delle loro famiglie, colpendo un aspetto fondamentale dei diritti degli individui. Eppure non ogni licenziamento, non ogni trasferimento, non ogni assegnazione di mansioni inferiori, legittima il ricorso alla procedura d'urgenza, altrimenti si dovrebbe ritenere che per queste tipologie di controversie il pregiudizio imminente ed irreparabile risulterebbe automaticamente in virtù della materia trattata, con la conseguente inevitabile ammissibilità della fase cautelare ed utilizzazione dell'art. 700 come forma alternativa di tutela giurisdizionale.

Appare più conforme al dettato normativo una valutazione caso per caso del periculum che, secondo la migliore dottrina, va ravvisato sia nei casi in cui il diritto vantato non si presta ad un risarcimento idoneo a realizzare integralmente il contenuto del diritto stesso, sia nei casi in cui la lesione del diritto vantato comporta la contemporanea lesione di beni e/o interessi funzionalmente connessi al diritto stesso, sia - infine - in quei casi in cui la lesione implica un'irreversibilità degli effetti pregiudizievoli causati.

Nella vicenda processuale sottoposta all'attenzione del giudicante i procuratori della ricorrente denunciano il pregiudizio al patrimonio professionale della ricorrente che risulterebbe dequalificata dal fatto di occupare, in seguito alla revoca, la "posizione di disponibilità" prevista dall’art. 101, comma 1, del Testo Unico.

Richiamano, con certa giurisprudenza, l’art. 2103 c.c. ed il diritto protetto all’equivalenza delle mansioni e denunciano che la messa in disponibilità realizzerebbe una illegittima modifica in peius.

La tesi non può essere condivisa.

Stricto iure non può parlarsi di assegnazione a mansioni inferiori – ed a maggior ragione di demansionamento, che propriamente è lo svuotamento di compiti operativi – quando si espletano attività quali le consulenze, le supplenze e le reggenze, gli incarichi presso altre amministrazioni pubbliche (art. 101/2), che legislativamente sono previsti non solo per i segretari revocati ma anche, e fisiologicamente, per quelli non confermati o comunque privi di incarico.

In questi casi appare fuor di luogo parlare di dequalificazione a meno di ritenere che ogni collocamento in posizione di disponibilità determini automaticamente la violazione dell’art. 2103 c.c.

Diversamente ciò che, nella fattispecie concreta, appare insuscettibile di integrale riparazione per equivalente pecuniario è la lesione della sfera relativa alla reputazione professionale dell'istante.

Il provvedimento di revoca si traduce nell'accusa di aver commesso gravi violazioni dei doveri d’ufficio.

Per un canto ciò impedisce al segretario revocato di coltivare realisticamente la speranza di essere nominato presso altro comune e, d’altro canto, colpisce gravemente l’apprezzamento delle qualità professionali che la comunità può serbare nei confronti del destinatario della sanzione.

Il pregiudizio che subirebbe, per il tempo occorrente a stabilire in sede ordinaria la verità giudiziale, la dignità e il decoro della S., così gravati da un addebito di negligenza, dal punto di vista della stima e della considerazione che ella ha il diritto di godere al cospetto della sua persona, della sua famiglia e del mondo professionale, ammette tutela urgente.

Sul provvedimento cautelare

Alla stregua delle complessive osservazioni di cui innanzi, nella ricorrenza dei presupposti di legge, l'istanza cautelare deve essere accolta per quanto di ragione.

È evidente che i provvedimenti urgenti in potestà di questo giudice, attesa la strumentalità degli stessi tendenti ad impedire il pregiudizio lamentato, sono quelli, e soltanto quelli, che, parametrati sul "più" rappresentato dal decisum ipotizzabile nel caso di accoglimento della prefigurata domanda di merito, senza esaurire gli effetti della futura pronuncia a cognizione piena, si limitino ad anticiparne quelli che consentano di ovviare nell'immediato alla situazione di periculum.

Non possiamo ignorare i complessi problemi esegetici posti dall’estensione dei poteri del giudice ordinario al cospetto di un atto di conferimento o di revoca di un incarico latu sensu dirigenziale, le difficoltà di utilizzare le nozioni tradizionali di atto amministrativo presupposto e di disapplicazione, i dubbi circa l’ammissibilità di pronunce che si sostanzino in un vero e proprio annullamento, le naturali ritrosie a concepire sentenze di condanna dell’amministrazione ad un facere infungibile.

Nell’attesa che la giurisprudenza consolidi un cammino che si preannuncia faticoso e controverso pare opportuno muovere dal principio chiovendiano che il processo civile deve consentire il conseguimento del bene della vita in relazione al quale si è prodotta la lesione del diritto.

L’art. 68, comma 2°, del D. L.vo n. 29 del 1993, nella nuova formulazione data dall’art. 29 D.L.vo n. 80/98, sembra voler tradurre questa aspirazione quando detta:

"Il giudice adotta nei confronti delle pubbliche amministrazioni tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati."

Il giudice civile può dunque assumere nei confronti dell’amministrazione il provvedimento adeguato alla concreta tutela del diritto riconosciuto, cioè il provvedimento concretamente idoneo a soddisfare l’interesse sotteso all’esercizio dell’azione.

Il richiamo non suona fuor di luogo se si guarda alla storica reticenza dei giudici ordinari ad invadere la sfera della pubblica amministrazione.

Può quindi prefigurarsi un’azione di merito in cui, sul presupposto dell’illegittimo esercizio del potere di revoca, si chieda la condanna dell’amministrazione a ripristinare la situazione quo ante, e cioè a reintegrare l’istante nelle funzioni di segretario comunale.

Né sembra che i problemi di esecuzione coattiva di una siffatta pronuncia possano precluderne l’ammissibilità.

Innanzi tutto dottrina osserva che non si potrebbe parlare, per la p.a., di infungibilità della prestazione: fungibilità ed infungibilità attengono tipicamente alle prestazioni dovute dai privati, laddove l’imprenditore è considerato insurrogabile nell’esercizio di una libertà costituzionalmente garantita, mentre non avrebbero senso per soggetti pubblici che compiono attività funzionalizzata all’interesse pubblico.

La stessa giurisprudenza più recente, sopra tutto in tema di destinazione a mansioni inferiori, ammette ormai la condanna dell’azienda al corretto adempimento del contratto mediante l’assegnazione delle precedenti mansioni, non ravvisando nell’incoercibilità della prestazione alcun impedimento alla sentenza di condanna (Cass. Sezione Lavoro n. 4221 del 27 aprile 1999, Pres. Sommella, Rel. Prestipino; n. 11479 del 12 ottobre 1999, Pres. Buccarelli, Rel. Miani Canevari).

Nei procedimenti cautelari, poi, l’ordine impartito dal giudice è in potenza assistito da sanzione penale (art. 388, II comma, cp; cfr. App. Milano, 27.10.92; Pret. Milano, 19.9.82; Pret. Milano, 19.5.82; Pret. Milano, 13.10.81; Trib. Terni, 5.12.80), ed è comunque lecito confidare nell’ottemperanza spontanea di chi è investito di una funzione pubblica ed è gravato di una responsabilità amministrativo-contabile per l’eventuale inadempimento.

Infine, una tale pronuncia non sarebbe certo inutiliter data nell'ipotesi di mancato adeguamento dell’amministrazione all'ordine del giudice, rappresentando il precostituito polo di riferimento di una condanna all'ulteriore risarcimento del danno per il persistente inadempimento.

Pertanto, dovendosi fare fronte al paventato pregiudizio irreversibile determinato dal protrarsi della situazione di lesione del patrimonio morale e professionale della lavoratrice, questo giudice, sulla premessa del fumus di invalidità della revoca, sospesa l’efficacia del decreto sindacale, può ordinare agli enti convenuti, nella sfera dei quali, stante la duplicità del rapporto di dipendenza di impiego e funzionale, sono necessariamente destinati a prodursi gli effetti della decisione, di ripristinare temporaneamente con la S. la concreta funzionalità dell’incarico di segretario comunale di C..

All’esito del merito saranno liquidate le spese della presente fase del giudizio.

P.Q.M.

Il dott. Fabrizio Amendola, quale giudice del lavoro, letti gli artt. 700 e 669 octies cpc, in accoglimento della domanda cautelare proposta da M. S.

sospende

gli effetti del decreto del sindaco del comune di C. n. 26 del 26.9.2000 prot. n. 8648;

ordina

al Comune di C. nonché all’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali – sezione regionale della C., in persona dei legali rapp. p.t., a ciascuno per gli adempimenti di rispettiva competenza, di ripristinare il rapporto di dipendenza funzionale con la S. quale segretario del comune di C.;

fissa

il termine di trenta giorni per l’instaurazione del giudizio di merito.

S. Maria Capua Vetere, 11 dicembre 2000

Il Giudice Dott. Fabrizio Amendola