ANTONIO ROMANO-TASSONE
(Ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Reggio Calabria)

Sul contratto di lavoro del dirigente pubblico (*)

1) Era opinione largamente diffusa, anche tra i più convinti fautori della riforma del pubblico impiego avviata con il D.Lgs. n. 29/1993, che, (non solo, ma soprattutto) per quanto riguarda la dirigenza pubblica, le iniziative innovatrici non fossero altro che un "gioco", nel quale - per mutuare una metafora di Romagnoli - avrebbero infine vinto i soliti noti (ossia i "politici"), mentre avrebbero perso i pochi benintenzionati (ossia i settori del sindacalismo confederale effettivamente interessati alla riforma).

Se questo era l’orientamento generale dopo la c.d. "prima privatizzazione", l’iniziale scetticismo degli addetti ai lavori si è però molto attenuato dopo che il processo riformatore è stato rilanciato dalla c.d. "seconda privatizzazione" (ossia dalla riforma Bassanini), e in particolare dal D.Lgs. n. 80/1998; sì che, come confessa ad esempio Lorenzo Zoppoli: "comincia a venirmi il sospetto che si faccia sul serio; oppure, cosa ancora più grave, comincio a pensare che il gioco possa valere la candela".

Questo rinnovato clima di fiducia sembra trarre alimento non solo e non tanto dal contenuto delle leggi riformatrici emanate in questi ultimi anni, quanto soprattutto dalla considerazione della enorme importanza che, anche nella disciplina dello status del dirigente pubblico, ha ormai chiaramente assunto la fonte contrattuale, una volta superata l’insidia rappresentata dalla sentenza n. 313/1996 della Corte Costituzionale.

Le preoccupazioni che quest’ultima pronuncia, pur avendo rigettato le eccezioni di incostituzionalità sollevate nei confronti della riforma della dirigenza pubblica, potesse rappresentare una battuta d’arresto nel processo di rinnovamento, sono state infatti rapidamente fugate dalla legislazione successiva, la quale, malgrado le chiare perplessità espresse dalla Consulta sulla legittimità della delegificazione di importanti settori della disciplina dello status giuridico della dirigenza (ed in particolare del regime della responsabilità disciplinare), ha invece adoperato la discrezionalità ad essa riconosciuta dalla Corte nel bilanciamento di fonte legislativa e fonte contrattuale, a tutto vantaggio di quest’ultima, cui oggi risulta affidata integralmente la disciplina del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici.

La fiducia nella contrattazione collettiva come volano di innovazione e riforma, non discende solo da considerazioni relative alla qualità politica delle parti contraenti (del resto, le difficoltà di far prevalere le istanze rinnovatrici ai tavoli della contrattazione sono state subito evidenti, e sono ampiamente documentate dalle testimonianze dirette dei protagonisti), quanto soprattutto dalla snellezza operativa della fonte, soggetta a periodiche revisioni, e comunque molto più facilmente emendabile che non la legge, notoriamente frutto di un processo decisionale di non agevole conduzione.

La contrattazione collettiva, del resto, in quanto direttamente formata dalle parti sociali, risulta particolarmente idonea ad evidenziarne le aspettative e i valori.

Su queste premesse, non sembra ingiustificato che la valutazione circa l’attuale momento del processo riformatore dello status della dirigenza pubblica venga affidata appunto all’esame del regime del rapporto di lavoro che emerge dalla contrattazione collettiva, e, in particolare, dal recente contratto collettivo nazionale dei dirigenti regionali e locali (siglato il 23 dicembre 1999), che si prospetta come il modello cui si atterranno tutti i prossimi contratti di settore.

La centralità dell’amministrazione locale nel processo di rinnovamento delle istituzioni repubblicane, rende anche per altro verso importante l’esame di tale disciplina: poiché infatti, specie dopo il D.Lgs. n. 112/1998 e i DD.Lgs. nn. 300 e 303/1999, l’amministrazione italiana sembra avviata a coincidere pressochè integralmente con l’amministrazione regionale e soprattutto locale, è evidente che il profilo generale della dirigenza italiana, ammesso pure che sia possibile tracciarlo, non potrà che esser desunto, in via principale se non addirittura esclusiva, dallo status, giuridico ed economico dei dirigenti locali.

Tralasciando il problema della responsabilità dirigenziale, di cui si occuperà il Presidente De Roberto, ritengo pertanto di dover esaminare tale disciplina sotto i seguenti aspetti: accesso al ruolo ed agli incarichi di dirigente; revoca degli incarichi stessi e risoluzione del rapporto di lavoro; profili retributivi della prestazione dirigenziale.

2) L’attuale disciplina dell’accesso al ruolo dirigenziale vede tipicamente scissi i due profili della instaurazione del rapporto di lavoro e del conferimento di mansioni dirigenziali.

Mentre infatti nel rapporto di lavoro del dirigente privato i due aspetti sono assolutamente coincidenti, nel settore pubblico tali momenti sono rigorosamente scissi: il dirigente accede al ruolo attraverso un concorso per esami (art. 28 D.Lgs. n. 29/1993), ma l’assunzione alle dipendenze di una amministrazione pubblica non comporta l’attribuzione degli incarichi dirigenziali.

Questi ultimi possono esser attribuiti dalle amministrazioni locali avvalendosi di procedure e di criteri alquanto vaghi indicati dalla norma.

Per quanto attiene ai criteri di riferimento, essi sono fissati in termini abbastanza generici nell’art.19, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 29/1993, e il recente contratto collettivo non opera alcun tentativo di approfondimento e specificazione, tanto che alcune organizzazioni sindacali hanno espressamente dichiarato di non condividere sotto tale aspetto la parte normativa del contratto, che è stato da esse sottoscritto all’esclusivo fine di evitare di esser escluse dalla contrattazione integrativa.

Nei limiti, assai ampi, dei criteri indicati dalla legge, le amministrazioni locali sono dunque libere di fissare autonomamente un proprio corpus di regole valutative, attraverso atti generali, che peraltro non sono soggetti neppure a concertazione con le organizzazioni sindacali (anche se la previsione contrattuale della necessaria informazione in tal senso, e della possibilità che le organizzazioni sindacali richiedano un incontro all’amministrazione, fa’ facilmente prevedere che si possa instaurare, al riguardo, una sorta di concertazione informale).

Per quanto riguarda le procedure di conferimento, manca del tutto ogni disciplina, sia legislativa che contrattuale.

Al momento, è dunque possibile rifarsi soltanto a principi generali dell’ordinamento, di non agevole applicazione.

Sembra emergere comunque la tendenza a sottoporre il conferimento degli incarichi dirigenziali a procedure di tipo para-concorsuale, attraverso soprattutto la pubblicazione o comunque la diffusione di un avviso concernente l’intenzione di procedere al conferimento dell’incarico.

Ove a tale avviso dovesse rispondere un solo interessato, si potrebbe aprire una fase di contrattazione diretta, mentre nel caso in cui gli interessati siano più d’uno, dovrebbe farsi luogo a una selezione comparativa, svolta secondo criteri predeterminati nell’avviso stesso da parte di un organismo in posizione non solo di terzietà, ma anche di neutralità istituzionale.

Di non lieve importanza è poi il profilo della giurisdizione competente a conoscere delle controversie che dovessero insorgere in ordine al conferimento degli incarichi dirigenziali.

L’art.18 del D.Lgs. n.387/1998, modificando (e forse interpretando autenticamente) l’art. 68 del D.Lgs. n. 29/1993, parrebbe aver attribuito tali controversie al giudice del lavoro, e tale sembra esser oggi anche il generale indirizzo dei dirigenti interessati, che sempre più spesso si rivolgono alla magistratura ordinaria, le cui prime decisioni sull’argomento cominciano ad abbondare nei repertori.

Ondivago è al riguardo l’atteggiamento del giudice amministrativo, con decisioni e prassi di segno diametralmente opposto, talora all’interno dello stesso organo giudiziario (si veda, ad esempio, il revirement che sembra aver compiuto, sul punto, il T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, nella sentenza 18 dicembre 1999 n. 1282, rispetto alle posizioni assunte con la sentenza 10 maggio 1999 n. 601; di notevole interesse anche l’ordinanza 21 dicembre 1999 n. 505, con cui il T.A.R. Sicilia, CT, Sez. III, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 68 del D.Lgs. n. 29/1993, nella parte in cui conserva al giudice amministrativo, anziché trasferire al giudice del lavoro, le controversie attinenti al ai concorsi d’assunzione dei pubblici dipendenti).

Non si tratta di un aspetto secondario, perché la tutela "di interesse legittimo" accordata dal giudice amministrativo porta con sé, almeno in linea di principio, una tutela reale delle aspettative del dirigente, che invece (sempre in linea di principio) sembra preclusa al giudice ordinario, i cui ordini di preposizione a (o di mantenimento ne) l’incarico del dirigente non parrebbero godere del requisito della coercibilità (ma si ricordi la contraria opinione espressa, in numerosi scritti, da Bruno Sassani).

Se dunque dovesse affermarsi nella materia la giurisdizione del giudice del lavoro, è prevedibile che l’eventuale vittoria giudiziaria del dirigente comporti, quale sola sicura aspettativa, il risarcimento del danno, e che non rechi con sé la concreta acquisizione (o il concreto mantenimento) delle funzioni dirigenziali.

3) Note molto dissimili, invece, per quanto riguarda la revoca degli incarichi e la risoluzione del rapporto.

Il recente contratto della dirigenza locale sembra infatti aver abbandonato definitivamente il criterio del recesso ad nutum, esemplato sul modello dell’art. 2118 c.c., cui si rifaceva il contratto precedente, per introdurre invece il ben diverso principio che vede l’incarico revocabile solo in presenza o di un "giustificato motivo" di tipo organizzativo (sostanzialmente, e con molta improbabilità di verificarsi, la sopravvenuta inutilità dell’incarico medesimo), ovvero di un risultato gestionale insoddisfacente (giusta causa ex art. 2119 c.c.).

Ciò dovrebbe condurre ad un rafforzamento della pretesa del pubblico dirigente alla stabilità dell’incarico stesso (ovviamente, nei limiti temporali di durata, comunque non inferiori al biennio).

Da un lato, è infatti molto improbabile che decisioni organizzative di ampio respiro vengano ad incidere risolutivamente sulla utilità stessa di mantenere in vita l’incarico cui dirigente è preposto.

Dall’altro, la revoca anticipata per mancato conseguimento dei risultati, pur essendo concretamente possibile (ed essendo stata anzi non occasionalmente praticata, soprattutto in ambito regionale), viene adesso circondata da notevoli cautele, la principale delle quali è costituita dalla necessità che l’organo politico abbia effettivamente e puntualmente indicato al dirigente, all’atto dell’assegnazione dell’incarico, gli obiettivi da conseguire, perché possa farsi luogo alla revoca ante tempus dell’incarico stesso.

Manca però una disciplina, sia pure solo di massima, circa le modalità ed i criteri da seguire per la valutazione del risultato, e questo lascia nel concreto ampio margine alle amministrazioni per giudizi negativi di tipo "politico".

Se il dirigente riceve una tutela più ampia, ma non completa, nelle sue pretese al mantenimento dell’incarico, le aspettative di conservazione del rapporto di lavoro sono invece pressoché assolute.

L’eventuale valutazione negativa dei risultati ottenuti, infatti, non comporta di per sé neppure la immediata impossibilità di vedersi attribuito un altro incarico dirigenziale: semplicemente, essa condurrà in genere alla assegnazione di un incarico diverso, con conseguenze che possono essere quindi del tutto irrilevanti anche sotto l’aspetto economico.

Solo in caso di gravi e reiterate violazioni degli indirizzi ricevuti, ovvero in seguito a ripetute valutazioni negative, il dirigente può esser sospeso per due anni dal conferimento d’incarichi dirigenziali.

Nei casi più gravi (in concreto: nell’ipotesi di assoluta irrecuperabilità del dirigente al consorzio civile), potrà infine esser disposta la risoluzione del rapporto di lavoro, previo conforme parere del comitato dei garanti (art. 21 D. Lgs. n. 29/1993).

In pratica, la complessità operativa di questo percorso è talmente elevata da render molto più conveniente, per l’amministrazione che si ritrovi con un dirigente assolutamente inutilizzabile, di limitarsi al suo accantonamento, ovvero, in casi estremi, di far ricorso alla procedura di risoluzione consensuale del rapporto (art.17 del contratto), erogando l’indennità aggiuntiva ivi prevista.

Anche qui, come già per i problemi dell’accesso, il profilo della tutela giurisdizionale non è di secondario rilievo: ferma restando la giurisdizione del giudice del lavoro sull’eventuale risoluzione del contratto, la revoca anticipata dell’incarico pone gli stessi problemi già esaminati in relazione al conferimento degli incarichi stessi, e anche qui non può che registrarsi la crescente tendenza a rivolgersi alla magistratura del lavoro (la quale sembra indirizzarsi verso una tutela del dirigente pubblico del tutto analoga a quella del dirigente privato: si veda la recente ordinanza del Tribunale di Potenza, 29 dicembre 1999, Libutti c. Ministero Finanze).

4) Non meno importante parametro di valutazione, la retribuzione, che, per il dirigente locale, può consistere di tre voci.

La prima è costituita dalla retribuzione di base, ossia dal trattamento economico comunque spettante al dirigente in forza del rapporto di lavoro che lo lega all’amministrazione, ed a prescindere dal conferimento di eventuali incarichi.

Tale trattamento, dunque, compete anche al dirigente "accantonato" per scarso rendimento, salva ovviamente la possibilità - che l’esperienza rivela del tutto teorica - che su di esso abbiano inciso eventuali sanzioni disciplinari comminate in conseguenza della prova gestionale negativa offerta dal dirigente stesso.

A questo reddito "sicuro", il dirigente incaricato aggiunge (ma forse sarebbe meglio dire: può aggiungere) la c.d. "retribuzione di posizione", ossia un incremento retributivo commisurato al livello dell’incarico dirigenziale svolto.

Vale la pena di sottolineare che tale incremento è attribuito dall’amministrazione al singolo posto in sede di determinazione generale, di carattere organizzativo, degli incarichi dirigenziali e dei relativi "livelli", sicché non residua alcuno spazio per la contrattazione individuale tra amministrazione e dirigente in ordine al suo ammontare.

Se poi si va a vedere in concreto quale possa essere l’entità di tale incremento, il contratto collettivo lo indica in un minimo di 17 milioni annui ed in un massimo di 82 milioni annui, ma è abbastanza chiaro, dallo stesso testo del contratto, che moltissimi amministrazioni locali non garantiscono ai propri dirigenti neppure l’incremento minimo, che sembra dunque, in realtà, più un traguardo da raggiungere che una aspettativa di sicura soddisfazione.

Ancor più ridotto, ove pure vi sia, lo spazio per la "retribuzione di risultato", la sola tendente ad incentivare comportamenti effettivamente manageriali da parte del dirigente pubblico: sembra di capire, infatti, che la percezione di tale voce retributiva rappresenti una conseguenza molto poco comune della buona gestione, in quanto i relativi fondi sono eccessivamente esigui.

5) A questo punto, è forse possibile formulare alcune osservazioni generali sul regime della dirigenza locale.

Dal complesso delle norme esaminate, sembra di poter cogliere i seguenti elementi:

a) il dirigente gode di una pretesa pressoché assoluta ed intangibile, salvo eventi del tutto eccezionali, alla conservazione del posto di lavoro;

b) la pretesa al conferimento degli incarichi è invece soggetta a maggiore incertezza, così come resta tuttora incerta (ancorché sia meglio presidiata di prima) la pretesa alla permanenza negli incarichi fino alla scadenza del periodo concordato;

c) la pretesa al trattamento economico di base è ovviamente garantita insieme a quella tendente alla stabilità del rapporto di lavoro, mentre l’incentivo rappresentato dalla retribuzione di posizione (teoricamente anche assai notevole) sembra destinato, nella maggioranza dei casi, a ridursi in concreto a ben poca cosa (spesso ad assai meno del minimo contrattuale);

d) non esistono, se non marginalmente, concrete prospettive di retribuzione legata ai risultati positivi della gestione.

In sintesi, il dirigente è stimolato non tanto ad operare bene, quanto a non operare male (che, ovviamente, è cosa del tutto diversa), giacchè una prestazione "non-negativa" garantisce comunque, nella maggioranza dei casi, la retribuzione massima possibile e la non revocabilità dell’incarico.

Se questo è il quadro generale, se ne possono trarre alcune considerazioni, sia in ordine al problema del rapporto tra management pubblico e management privato, sia in ordine al rapporto tra dirigenza pubblica e potere politico.

6) Per quanto riguarda il rapporto tra managers pubblici e privati, non v’è dubbio che la differenza resti radicale.

Quel che soprattutto fa’ difetto, ed anzi viene rigorosamente contraddetto dalla disciplina contrattuale nazionale, è il ruolo trainante e fondamentale del contratto individuale, ridotto, nel settore pubblico, praticamente a nulla, anche per quanto riguarda l’ambito retributivo.

Senza approfondire i motivi di tale diversità (che sono certamente molteplici, e non tutti omogenei), non si può non rimarcare come manchi nel settore pubblico la stessa tensione individualistica che esiste invece in ambito privato, e come, anzi, le sollecitazioni che vengono da parte sindacale tendano sempre di più a circoscrivere il valore della contrattazione individuale.

Nel rapporto di lavoro privato (come osserva Zoppoli) il contratto individuale è visto in genere con sfavore dal lavoratore subordinato, che tende a limitarne al massimo lo spazio operativo, perchè questo è il campo su cui potrebbe spiegarsi il prepotere datoriale; del tutto diverso è però il caso del dirigente, che tende invece a esaltare l’autonomia della contrattazione individuale per ottenere dal datore di lavoro quanto più è possibile di poteri organizzativi del lavoro altrui (oltre, e forse persino ancor prima che la desiderata retribuzione).

Se così è, allora non v’è dubbio che il modello del contratto di lavoro del dirigente pubblico sia tutt’oggi fondamentalmente quello del comune lavoratore subordinato, e nient’affatto quello manageriale: basti accennare al fatto che una vera e propria contrattazione individuale manca qui del tutto, e che il dirigente aderisce, in buona sostanza, alla proposta formata unilateralmente dall’amministrazione.

7) Esaminiamo ora la situazione sotto il centrale profilo dei rapporti tra potere politico e amministrazione.

Prescindendo anche qui da ricostruzioni di tipo propriamente giurisprudenziale e dunque da discorsi di carattere "prescrittivo", limitiamoci a un esame, di tipo "descrittivo", delle vicende attuali, inquadrate in prospettiva storica, per cercare di comprendere cosa stia in concreto accadendo.

E’ noto che l’evoluzione del rapporto tra politica e burocrazia vede, all’inizio, la convergenza di entrambe in un unico corpo sociale, contrassegnato da identità di classe e di percorsi formativi dei suoi appartenenti.

In tale periodo, corrispondente all’incirca ai primi quarant’anni della storia unitaria, incarichi politici e cariche burocratiche vedono spesso avvicendarsi le medesime persone; la burocrazia non sollecita dunque garanzie di stabilità da un ceto politico che non avverte come altro da sé, ma chiede –e ottiene- la compartecipazione nella gestione del potere.

E’ solo con la crisi dello Stato monoclasse che si consuma la rottura tra politica e burocrazia, e che la seconda, ridotta su posizioni difensive, chiede –e ottiene- uno statuto giuridico che ne garantisca alcune pretese minimali: in altre parole, essa cede status, ritraendosi, nel migliore dei casi, in un tecnicismo asettico e fondamentalmente subordinato, ma acquista garanzia di stabilità.

Se queste vicende sono comunemente note, lo è molto meno il fatto che, con l’avvento del pluralismo istituzionale e con la diffusione dei centri di potere locale, la classe burocratica, proprio in forza della stabilità acquisita nella gestione dell’amministrazione pubblica, aveva prepotentemente riconquistato status politico, spesso in modo indiretto ed improprio.

La gestione dell’apparato, sul quale il dirigente pubblico regnava sovrano, si era sovente trasformata in volano delle fortune genericamente politiche (e talvolta direttamente elettorali) del burocrate: l’esempio più eclatante, ma certo non il solo, è quanto è avvenuto nei trascorsi decenni nel campo della sanità pubblica.

Rispetto al politico di professione, il burocrate non solo era quindi dotato di una ben maggiore stabilità, ma risultava sempre più spesso direttamente concorrenziale sul piano della acquisizione del consenso.

Le recenti tendenze della normazione del rapporto della dirigenza pubblica sembrano quindi, con particolare chiarezza, modificare radicalmente tale situazione: alla stabilità nel posto e nella retribuzione minima, praticamente intangibili, si accompagna infatti una sostanziale aleatorietà del conseguimento e, sia pur in minor misura, del mantenimento degli incarichi dirigenziali, che comunque sono tutti temporanei, e non garantiscono più una gestione vitalizia del potere burocratico.

La burocrazia, dunque, sembra cedere ancora una volta status in cambio di garanzie.

In gran parte, questo è certamente un bene: che goda di potere politico chi non è chiamato a risponderne all’elettorato è infatti, comunque, un fenomeno pericoloso per le istituzioni democratiche.

Il problema è che stenta ad affermarsi (e resta anzi del tutto marginale) quel modello di burocrate, dotato di potere contrattuale nei confronti degli amministratori politici in ragione della propria competenza professionale, che sarebbe necessario emergesse perché fosse possibile parlare di management pubblico, e verso cui la riforma chiaramente tende.

Ciò potrebbe indurre a condividere le critiche radicali di quanti (vedasi, da ultimo, Nino Longobardi) ritengono che il tentativo di creare figure manageriali nella p.a. sia destinato a sicuro fallimento, perché il contesto di rapporti sociali in cui il dirigente pubblico opera è troppo diverso da quello in cui si muove il manager privato.

Sospendendo il giudizio su tale questione di fondo, si deve comunque constatare che, almeno finora, gli innegabili sforzi innovativi del legislatore non sembrano premiati dal successo.

Ma sarebbe sicuramente utopistico attendersi che la figura del manager pubblico possa scaturire da una riforma, per quanto radicale essa sia, della disciplina del rapporto di lavoro burocratico: non si deve dimenticare, infatti, che mentre nel settore privato il lavoro ha un ruolo assolutamente primario, perché è l’oggetto stesso su cui si costruiscono le organizzazioni imprenditoriali (che nascono con il preciso scopo di sfruttarne la capacità di produrre plusvalore), le organizzazioni pubbliche sorgono essenzialmente per l’esercizio del potere politico, sicché, al loro interno, il lavoro è sì indispensabile, ma viene a trovarsi in posizione fisiologicamente secondaria.

In ambito privato può così immaginarsi un’affermazione dei valori del lavoro in quanto tale che è invece impensabile nel pubblico, in cui il lavoro è comunque servente rispetto alla politica e ai valori che questa promuove.

Il che significa, in conclusione, che il processo di riforma della burocrazia e dell’amministrazione, che si va in questi anni faticosamente avviando, non può esser condotto a completo successo operando soltanto sullo status giuridico del dirigente, ma necessita, per inverarsi, anche e soprattutto di un effettivo mutamento della politica, che induca una forte domanda di competenza e professionalità nei confronti della dirigenza pubblica, solo allora realmente sollecitata ad assumere comportamenti ed habitus corrispondenti al modello manageriale.

(*) Testo dell’intervento svolto nell’incontro di studio di Messina del 22 gennaio 2000, sul tema "Managerialità e dirigenza nella pubblica amministrazione".

Dello stesso A. v. in precedenza Il problema della dirigenza locale.