Tratto dal sito www.giust.it ove si può consultare anche la sentenza citata

LUIGI OLIVERI

La costituzione in giudizio negli Enti locali -
competenze e prospettive

Ha destato interesse in dottrina la sentenza n. 1164/99 della sezione IV del Consiglio di Stato, in merito alla competenza ad emanare il provvedimento di autorizzazione al sindaco a stare in giudizio. La decisione dell'alto consesso giurisdizionale amministrativo è stata, infatti, salutata come la definitiva soluzione al quesito riguardante l'attribuzione alla giunta, piuttosto che ai dirigenti, della competenza a decidere se stare in giudizio.

Parte della dottrina (1) ha ritenuto che la sentenza abbia risolto la questione nel senso che la competenza spetti sempre e comunque alla giunta, considerando la decisione del Consiglio di Stato corretta e maggiormente coerente col sistema delle competenze dell'ente locale, giacchè apparirebbe contraddittoria l'attribuzione alla dirigenza della competenza ad autorizzare il sindaco a stare in giudizio, poiché il sindaco ha già per legge, ai sensi dell'articolo 36 della legge 142/90, la rappresentanza legale dell'ente.

Tuttavia, così come posta, sia dalla citata dottrina, sia dal Consiglio di Stato, la soluzione al problema della competenza a stare in giudizio non sembra né conclusiva, né persuasiva.

La sentenza, in sostanza, nel ritenere legittima la deliberazione con la quale la giunta di un comune aveva autorizzato il sindaco a stare in giudizio, ha precisato che:

  1. l'articolo 13 del D.lgs 29/93 sancisce espressamente che le disposizioni del capo dedicate alla dirigenza trovano immediata applicazione solo per le amministrazioni dello Stato;
  2. l'articolo 51 della legge 142/90 attribuisce ai dirigenti <<la direzione degli uffici e servizi, nonché l'adozione di tutti gli atti di gestione che impegnino l'ente locale verso l'esterno, ad eccezione di quelli attribuiti dalla legge o dallo statuto dell'ente ad altri organi dello stesso>>;
  3. l'articolo 36 della legge 142/90 attribuisce al sindaco la rappresentanza legale dell'ente;
  4. in conseguenza di ciò, stante l'inapplicabilità immediata dell'articolo 16 del D.lgs 29/93 agli enti locali, in mancanza di un'espressa previsione statutaria che conferisca ai dirigenti la competenza a promuovere e resistere alle liti (così come dispone il citato articolo 16 del D.lgs 29/93), è legittima la deliberazione di costituzione in giudizio adottata dalla giunta.

A ben guardare il processo logico, e soprattutto la conclusione, cui perviene il Consiglio di Stato, appare chiaro come la soluzione prospettata non contribuisce, in realtà, a risolvere in maniera definitiva il problema della competenza, mentre, d'altro lato, il medesimo processo logico appare contraddittorio.

Per quanto concerne la soluzione prospettata: il Consiglio di Stato non ha negato che la competenza a decidere la costituzione in giudizio possa spettare ai dirigenti. Al contrario, è giunto alla, per la verità, ovvia conclusione che deve essere lo statuto a disciplinare tale competenza, nell'esercizio dell'autonomia dell'ente.

Tuttavia, e qui la non convincente prospettiva interpretativa del Consiglio di Stato e della dottrina che vi aderisce, si considera non corretto un provvedimento dirigenziale che autorizzi il sindaco a stare in giudizio, dal momento che il sindaco trae la sua potestà a stare in giudizio direttamente dalla legge e non dal provvedimento amministrativo di autorizzazione.

E' agevole dimostrare come questa considerazione non fornisca la dimostrazione dell'incompetenza dei dirigenti, in favore della competenza della giunta. Infatti, se il sindaco può stare in giudizio in virtù della sua rappresentanza legale prevista per legge, allora così come incoerente sembra un'autorizzazione dirigenziale, altrettanto incoerente appare un'autorizzazione da parte della giunta comunale, in quanto non è l'atto amministrativo che conferisce la potestà che il sindaco già possiede per legge.

La dottrina adesiva alla tesi del Consiglio di stato sembra condizionata dalla constatazione dell'opportunità che ad autorizzare il sindaco sia l'organo di governo dell'ente, e non la dirigenza(2).

Tuttavia, occorre precisare ed osservare che il provvedimento amministrativo propedeutico alla costituzione in giudizio in realtà più che mirato ad autorizzare il sindaco a stare in giudizio, pare finalizzato a due obiettivi fondamentali: rendere palese la volontà dell'ente di essere parte (attiva o passiva) della vertenza, ed individuare il legale al quale affidare l'incarico di difenderne le ragioni in giudizio, impegnando la spesa necessaria. E' chiaro che essendo il sindaco legale rappresentante per legge, il provvedimento (delibera o determina che sia) non può in alcun modo influire sulla rappresentanza giudiziale non avendo, da questo punto di vista, alcun valore, se non meramente ricognitivo, qualora evidentemente si accetti la tesi che solo il sindaco abbia la legittimazione a stare in giudizio per conto del comune, con esclusione dei dirigenti.

Contrariamente alla tesi del Consiglio di Stato, si ritiene che la corretta applicazione del principio di separazione tra politica e gestione porterebbe a considerare più corretto un provvedimento dirigenziale di costituzione in giudizio: in primo luogo perché la gestione finanziaria spetta ai dirigenti; in secondo perché l'abrogazione della deliberazione a contrattare induce a reputare che gli incarichi a professionisti (anche se fiduciari) debbano essere adottati dai dirigenti e non dall'organo politico.

Ma il vero problema di prospettiva della sentenza 1164/99 del Consiglio di Stato e delle interpretazioni dottrinali ad essa adesive consiste nella corretta valutazione delle competenze dirigenziali in rapporto con quelle della giunta e del consiglio.

Da questo punto di vista, è da sottolineare come non sia corretto quanto afferma il Consiglio di Stato quando sostiene che ai dirigenti spettino tutte le competenze previste dall'articolo 51 della legge 142/90 ad eccezione di quelli attribuiti dalla legge o dallo statuto agli altri organi, ovvero consiglio e giunta. E' vero, infatti, esattamente il contrario, almeno con riferimento alla giunta.

Ai sensi dell'articolo 35, comma 2, della legge 142/90, difatti, è la giunta che <<compie gli atti di amministrazione che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non rientrino nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del sindaco o del presidente della provincia, degli organi di decentramento, del segretario o dei funzionari dirigenti […]>>. E', quindi, la giunta l'organo dotato di una competenza residuale, che va definita dalla legge e dallo statuto.

Questo vuol dire, leggendo la norma al contrario, che la giunta non può esercitare competenze che non le siano assegnate dalla legge o dallo statuto.

L'indagine, allora, sulla competenza in merito alla costituzione in giudizio, deve indirizzarsi verso la ricerca di norme di legge che assegnino alla giunta detta competenza. Ma a ben guardare le disposizioni del diritto vigente, simili leggi non esistono.

Pertanto, solo gli statuti potrebbero prevedere questa competenza in capo alla giunta. Allora, occorre capire se una simile disposizione statutaria sia legittima o meno.

Seguendo la lettera del citato articolo 35, la competenza della giunta potrebbe sussistere, solo in quanto esplicitamente prevista in capo ad essa ed in quanto non espressamente conferita dalle leggi o dallo statuto all'apparato burocratico.

Questa osservazione può contribuire a fornire un primo supporto alla tesi secondo la quale tocca ai dirigenti adottare i provvedimenti relativi alla costituzione in giudizio ed a rappresentare l'ente in causa. Ove, infatti, un ente locale prevedesse espressamente tale competenza in capo agli <<organi tecnici>> per via statutaria, la competenza della giunta, proprio in quanto residuale, resterebbe inevitabilmente esclusa.

Questo significa che il giudice, nel verificare la corretta costituzione in giudizio dell'ente, non può esimersi dall'esaminare la carta statutaria dell'ente, per ricavare la legittimità di un provvedimento dirigenziale che autorizzi l'ente, nella persona del legale rappresentante, a stare in giudizio.

Occorre, allora, chiedersi adesso se l'eventuale adozione di una soluzione diversa ed opposta, proprio alla luce dell'articolo 35 della legge 142/90, non possa essere considerata altrettanto valida e fondata.

L'indagine deve spostarsi alla verifica dell'esistenza, nell'ordinamento giuridico, di disposizioni che consentano oppure impediscano l'attribuzione in via residuale alla giunta di tali competenze, in quanto spettanti all'apparato burocratico.

E nei dettati della legge 127/97 e del D.lgs 80/98, oltre che dalla medesima legge 142/90 si rinvengono disposizioni che lungi dal consentire alla giunta di esercitare queste competenze, paiono decisamente orientate ad attribuirle alla dirigenza. A mente dell'articolo 51, comma 3, primo periodo, della legge 142/90, <<spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione di atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, che la legge e lo statuto espressamente non riservino agli organi di governo dell'ente>>.

Il disposto analizzato fornisce già una prima risposta. Contiene una previsione che specifica il significato dell'articolo 35 della legge 142/90. Se ai sensi di questo, infatti, la giunta ha competenza residuale, in applicazione del paragrafo citato dell'articolo 51 tale competenza residuale, perché sia operante, deve espressamente essere riservata dalla legge o dallo statuto alla giunta in quanto organo di governo.

Fermo rimanendo che non si rinvengono nell'ordinamento giuridico leggi che attribuiscono espressamente alla giunta il potere di disporre la costituzione in giudizio degli enti locali, allora non basterebbe neanche che lo statuto non attribuisca ai dirigenti tale competenza, perché operi quella della giunta. Infatti, se lo statuto tace su tale aspetto, ciò vuol dire che la competenza è dirigenziale. Perché vi sia una trasferimento di competenza dai dirigenti alla giunta, occorre che lo statuto espressamente preveda che la giunta disponga la costituzione in giudizio, con propria deliberazione.

Bisogna, quindi, verificare se una tale norma statutaria sia legittima o meno. In realtà, il primo periodo dell'articolo 51, comma 2, della legge 142/90 non chiede nemmeno che l'atto di competenza dirigenziale sia propriamente un atto gestionale, almeno inteso come provvedimento privo di discrezionalità, adottato soltanto in esecuzione di programmi politici stabiliti dagli organi di governo.

Infatti, la disposizione in argomento non distingue tra provvedimenti di natura gestionale o meno, prevedendo che ai dirigenti spettino <<tutti i compiti>> che leggi e statuti non assegnino alla giunta, senza distinguere se gestionali o meno. Nella visione del legislatore del '90, gli statuti avrebbero dovuto assumersi il compito di provvedere a disegnare da soli ed interamente l'assetto istituzionale ed organizzativo degli enti. Per questa ragione la disposizione dell'articolo 51, comma 2, fu volutamente generica, per permettere agli enti di individuare in assoluta autonomia le competenze degli organi. In ogni caso, anche in quella disposizione si vede un favor del legislatore per la competenza dirigenziale: infatti, l'eventuale assegnazione di competenze amministrative alla giunta deve passare per una disposizione positiva legislativa o statutaria.

La non completa attuazione dell'autonomia statutaria ha lasciato in grande parte inapplicata la norma di cui all'articolo 51, comma 2, primo periodo della legge 142/90. E sono dovuti intervenire altri provvedimenti legislativi per delineare l'assetto delle competenze tra organi che gli enti locali non avevano voluto o saputo disegnare utilizzando l'autonomia statutaria.

Soffermandosi sugli ultimi in ordine di tempo, la legge 127/97 ha contribuito a chiarire che il principio di separazione delle funzioni politiche da quelle gestionali era immediatamente operativo e da attuare anche per gli enti locali.

L'articolo 6, comma 2, della legge 127/97 ha a questo scopo sostituito il secondo periodo dell'articolo 51, comma 3, indicando espressamente i compiti di attuazione degli obiettivi politici, spettanti ai dirigenti, conseguibili ovviamente mediante l'adozione di propri provvedimenti.

L'elencazione contenuta nella novella all'articolo 51, comma 2, però non è certamente esaustiva, né tanto meno tassativa, visto che la legge prevede che detti compiti spettino ai dirigenti <<in particolare>>, lasciando quindi intendere che i compiti ivi delineati sono solo il minimo obbligatoriamente disposto per legge, ampliabile mediante il ricorso all'autonomia statutaria ed organizzativa.

Comunque, i compiti attuativi si aggiungono e non cancellano le altre competenze previste dal primo periodo del comma 3, lasciato evidentemente non a caso in vigore dal legislatore del '97. La riforma del '97, pertanto, rafforza la ragionevolezza della tesi che privilegia la competenza dirigenziale.

Spostando momentaneamente l'attenzione su un altro aspetto dell'indagine, la costituzione in giudizio è definibile come atto di gestione o come atto di natura politico-discrezionale?

La legge 142/90 non aiuta a dare questa risposta, perché non dispone, come già visto, in merito. Né la legge 127/97 si è soffermata sulla questione.

La norma cui fare riferimento è, pertanto, il D.lgs 29/93, come novellato dal D.lgs 80/98. E' questa la norma che ha fissato in maniera più chiara (anche se ancora non in modo del tutto limpido) i confini tra la funzione di indirizzo e quella gestionale. A delineare le rispettive sfere di competenza tra gli organi di governo e quelli gestionali provvedono gli articoli 3 e 14 da un lato e 16 e 17 dall'altro. Gli articoli 3 e 14 indicano le principali funzioni e responsabilità dell'organo politico, confermando che ad esso spetta la competenza in merito ad atti normativi (o amministrativi di carattere generale), la definizione degli obiettivi, l'assegnazione delle risorse per il loro conseguimento, la definizione dei criteri generali per le erogazioni economiche a terzi. In questo elenco (anch'esso non tassativo) non si rinviene alcun tipo di funzione, né di competenza, in merito alla gestione delle controversie.

L'articolo 3, comma 2, del medesimo D.lgs 29/93, novellato, con una formulazione molto simile a quella dell'articolo 51, comma 3, primo periodo, dispone che <<ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. […]>>.

La disposizione si divide in due parti. La prima attribuisce alla competenza dirigenziale l'adozione di tutti gli atti amministrativi (evidentemente con l'eccezione di quelli indicati dal comma 1 del medesimo articolo 3), compresi quelli che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, conferendo così ai dirigenti la funzione di vero e proprio organo, capace di rappresentare la volontà dell'ente all'esterno.

La seconda parte attribuisce ai dirigenti la gestione, nei suoi aspetti finanziari, tecnici ed organizzativi.

La prima parte dell'articolo 3, comma 2, potrebbe da sola bastare per chiarire che la competenza in merito alle liti è certamente dirigenziale. Ma il legislatore ha voluto, in questo caso, essere più chiaro. Sicchè all'articolo 16, comma 1, lettera f), ha previsto che i dirigenti generali hanno il potere di promuovere e resistere alle liti, nonché di conciliare e transigere, fermo restando il potere di decisione ministeriale in caso di contrasto tra le valutazioni del dirigente e l'avvocatura dello Stato, in merito alla condotta da assumere in merito ad una vertenza.

Ai sensi del D.lgs 29/93, quindi, senza dubbio il provvedimento di costituzione in giudizio è di competenza dirigenziale. Ed in realtà non si può non concordare con quanto dispone il legislatore. La promozione o la resistenza in una lite, infatti, sono decisioni che attengono certamente all'aspetto gestionale tecnico.

Ciò non tanto perché si tratti di provvedimenti esecutivi di programmi e progetti politici. Al contrario, nessun programma prevede, evidentemente, la possibilità di problemi attuativi tali da sfociare in conflittualità con terzi. Per altro la costituzione in giudizio ha dei risvolti di discrezionalità certamente non irrilevanti.

Tuttavia non pare, in questo caso, trattarsi della classica discrezionalità amministrativa, intesa come possibilità per l'amministrazione di scegliere tra due atti o comportamenti legittimi quale adottare. Bensì del concetto di discrezionalità gestionale, intesa come potere dei dirigenti di stabilire forme e modalità idonee al perseguimento degli obiettivi fissati dagli organi di governo, secondo calendari e percorsi conformi al proprio disegno gestionale.

Il verificarsi di una conflittualità (potenziale o concreta, determinatasi in seguito ad un atto introduttivo del giudizio ad opera di un terzo) fa sì che il percorso gestionale della procedura trovi inevitabilmente una deviazione, o quanto meno un'interruzione, sia pure temporanea.

Infatti, la fase patologica può portare a due diversi comportamenti. Il primo consiste nel riesame, sulla base della lagnanza del terzo, dei propri provvedimenti, che può sfociare anche nell'adozione di provvedimenti di annullamento o revoca, nell'esercizio del potere di autotutela. Il dirigente, valutata meglio la situazione di fatto e diritto anche giovandosi della lagnanza può decidere se sia o meno opportuno difendersi in giudizio.

In secondo luogo, il dirigente può determinarsi nel valutare la correttezza e legittimità dei propri provvedimenti e scegliere, quindi, di resistere giudizialmente o di promuovere la vertenza.

In ogni caso, il dirigente deve comunque valutare con attenzione gli aspetti di merito, così da assumere le sue decisioni in modo da non dare luogo a lite temeraria.

Le valutazioni di cui si è fin qui parlato, non possono essere altro che istruttorie. In altre parole, l'opportunità, la probabilità di successo, i presupposti, infine, per la costituzione in giudizio sembrano necessariamente attenere alla funzione tecnico gestionale. E' il gestore che conosce approfonditamente gli sviluppi della procedura, ivi comprese le potenziali conflittualità, magari conosciute (e quindi meglio approfondite già nella fase genetica) attraverso le forme di partecipazione al procedimento amministrativo previste dalla legge 241/90.

La costituzione in giudizio, quindi, è una fase, sia pure patologica e <<deviante>> della gestione, essendone, anche, una conseguenza.

Il legislatore ha previsto che i dirigenti generali dello Stato promuovono e resistono alle liti in quanto ha riconosciuto questo aspetto precipuamente di discrezionalità gestionale insito nel provvedimento di costituzione in giudizio. Se a decidere in merito fosse l'organo di governo, le valutazioni di carattere tecnico (e di opportunità) dovrebbero essere svolte dal medesimo organo di governo. Il quale, quindi, opererebbe sia un inammissibile sconfinamento nella sfera gestionale, sia una sorta di controllo non sull'andamento complessivo della gestione (cioè quello ammesso e previsto dall'articolo 20 del D.lgs 29/93), bensì sul singolo atto, decidendo al posto del dirigente se affrontare o meno la causa ed anche, di conseguenza, la strategia in giudizio.

Ecco da qui l'espresso conferimento del potere al dirigente generale. Sicchè in diritto positivo, come visto, mentre non esiste una competenza dell'organo politico a stabilire se costituirsi in giudizio, vì è una chiara norma che assegna tale competenza ai dirigenti generali dello Stato.(3)

A ben vedere, per le ragioni svolte poco innanzi, la disposizione del D.lgs 29/93 pare null'altro che la specificazione di un principio generale. La separazione, infatti, tra sfera politica e gestionale, non potrebbe in ogni caso consentire alla giunta di ingerirsi così pesantemente in un'attività appunto gestionale.

Basterebbe, quindi, interpretare gli articoli 35 e 51 della legge 142/90 ai sensi di tale principio generale, ricavabile sia dalla medesima legge 142/90, sia dal D.lgs 29/93, per concludere che la promozione e resistenza alle liti è dei dirigenti.

Tuttavia, l'articolo 27-bis del D.lgs 29/93 novellato prevede che gli enti locali, nell'esercizio della propria potestà statutaria adeguino i propri ordinamenti ai principi previsti dall'articolo 3 del medesimo decreto legislativo e nel capo dedicato alla dirigenza.

Quindi, comuni e province non solo possono assegnare ai dirigenti la competenza relativa alla costituzione in giudizio, ma sono anche tenuti a farlo. Sicchè una disposizione statutaria o regolamentare che assegni alla giunta tali competenze non appare conforme ai principi generali dell'ordinamento delle pubbliche amministrazioni e degli enti locali. Non si rinviene, infatti, nell'ordinamento degli enti locali una peculiarità che impedisca di assegnare ai dirigenti, invece che alla giunta, la decisione di stare in giudizio.

La considerazione che non pare opportuno assegnare ai dirigenti il compito di autorizzare il sindaco a stare in giudizio in quanto ciò apparirebbe incongruo, non pare appagante.

In primo luogo, perché si tratta di valutazioni di opportunità, non basate su un'interpretazione di stretto diritto. In secondo luogo, in quanto se per legge si ritiene che l'unico soggetto che disponga della rappresentanza giudiziale dei comuni è il sindaco, qualunque organo abbia la competenza a decidere se stare o meno in giudizio, non potrebbe che attuare il disposto dell'articolo 36. Ma il provvedimento di detto organo non può in ogni caso spingersi ad autorizzare il sindaco a stare in giudizio; il contenuto decisorio di tale provvedimento, infatti, è un altro: stabile di stare in giudizio ed in conseguenza della decisione prendere atto che spetta al legale rappresentante dell'ente la sottoscrizione della procura ad litem, il quale, dunque, non viene autorizzato a ciò, traendo obbligatoriamente dalla legge tale competenza.

In tal senso, quindi, anche le non infrequenti pronunce giudiziali che ancora oggi individuano nella giunta l'organo competente a disporre la costituzione in giudizio sembrano non tenere nel dovuto conto l'assetto organizzativo generale delle pubbliche amministrazioni.

PROSPETTIVE SULL'INGEGNERIA ISTITUZIONALE LOCALE.

La sentenza n. 1164 della sezione IV del Consiglio di Stato rileva, comunque, sotto un altro aspetto di tipo organizzatorio degli enti locali. L'interpretazione suggerita secondo la quale l'articolo 16 del D.lgs 29/93 non è di immediata applicazione può rivelarsi molto importante per l'esatta configurazione delle competenze dei dirigenti degli enti locali.

Autorevole dottrina(4), infatti, collegando le disposizioni dell'articolo 51-bis della legge 142/90, che disciplina le funzioni del direttore generale, con le disposizioni dell'articolo 16 del D.lgs 29/93, ritiene di assegnare al direttore generale un ruolo di superiorità gerarchica nei confronti degli altri dirigenti, assegnando al medesimo direttore le competenze previste per i dirigenti generali dal citato articolo 16.

Tale tesi ha larga presa in dottrina: tuttavia, proprio quanto ha stabilito il Consiglio di Stato sul recepimento delle disposizioni riguardanti la dirigenza statale negli enti locali consente di motivare un'ipotesi diversa.

Sostenere che tra direttore generale e dirigenti degli enti locali esista un rapporto gerarchico non pare conforme al principio di separazione tra sfera politica e tecnica. Occorre sempre tenere molto bene presente che il direttore generale del comune è immediata e diretta promanazione del sindaco e della giunta, quale figura tecnico-manageriale in grado di tradurre il programma politico in azioni gestionali pianificate e concrete.

E' evidente la differenza che intercorre tra il direttore generale ed i dirigenti generali dello Stato. E' vero che anche questi ultimi sono nominati direttamente dai ministri. Tuttavia occorre tenere presente che i sistemi di individuazione e di carriera sono del tutto opposti.

Il sindaco può assegnare un incarico assolutamente fiduciario a soggetti da qualificare esclusivamente sulla base del regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, giacchè la legge 142/90 non stabilisce in alcun modo quali requisiti minimi né culturali, né professionali il direttore generale debba possedere.

Il legislatore, anzi, sembra essere stato volutamente generico per consentire a ciascun sindaco, senza troppi vincoli, di scegliere di volta in volta il soggetto più idoneo al perseguimento dei suoi obiettivi politici e gestionali. In sostanza, si è lasciato al sindaco uno spettro di scelta vastissimo e non vincolante, poiché il direttore generale non è che un tecnico di staff del sindaco, come già detto, sua diretta promanazione.

I dirigenti generali dello Stato, invece, provengono da una carriera dirigenziale ben precisa e possono essere nominati in quanto scelti dai ranghi del Ruolo unico della dirigenza, previsto dall'articolo 23 del D.lgs 29/93 e sulla base di specifici requisiti e curriculum richiesti per legge. Inoltre, l'articolo 19, comma 1, del medesimo D.lgs 29/93 dispone, con una norma che non è ripetuta nell'ordinamento degli enti locali, che per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale e per il passaggio ad incarichi di funzioni dirigenziali diverse si tiene conto della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e delle capacità del singolo dirigente, anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza, applicando di norma il criterio della rotazione. Il successivo comma 6 elenca certosinamente i requisiti che debbono possedere i dirigenti generali da nominarsi extra pianta organica.

Il corpus normativo della dirigenza statate, dunque, tratta della dirigenza generale come uno sviluppo della carriera dirigenziale; i dirigenti di prima fascia possono accedere agli incarichi corrispondenti in quanto già parte del novero dei dirigenti iscritti nel ruolo unico, nel quale sono confluiti a seguito di concorso. Per altro, i dirigenti di seconda fascia possono a loro volta aspirare ad incarichi superiori, anche giovandosi del principio della rotazione.

I dirigenti generali dello Stato, allora, pur essendo nominati specificamente dal ministro, non sono sua diretta promanazione, non sono uno staff del singolo ministro, ma uno staff dell'amministrazione statale nel suo complesso, conservando così quella neutralità che la Costituzione impone ai funzionari pubblici e che certamente il direttore generale del comune non può possedere.

Se così stanno le cose, appare razionale, anche per le dimensioni delle strutture amministrative statali, che i dirigenti generali siano considerati dal D.lgs 29/93 superiori gerarchici dei dirigenti inquadrati nella prima fascia. E comunque, l'espressa previsione legislativa non lascia adito a discussioni sul criterio gerarchico nello Stato.

Analoghe previsioni mancano del tutto nell'ordinamento degli enti locali. Molti autori ritengono di fondare l'affermazione del principio gerarchico sull'ultimo periodo dell'articolo 51-bis, comma 1, della legge 127/97, a mente del quale <<A tali fini, al direttore generale rispondono, nell'esercizio delle loro funzioni, i dirigenti dell'ente, ad eccezione del segretario del comune e della provincia>>.

Ma questa laconica disposizione normativa non può essere vista come il fondamento della superiorità gerarchica del direttore sugli altri dirigenti.

In primo luogo, perché essa non supera il problema della rottura del confine che separa la politica dalla gestione che si creerebbe se ad una figura come il direttore generale si assegnasse il ruolo di superiore gerarchico, pertanto con l'esercizio delle prerogative che ne derivano: come il potere di impartite ordini di servizio, di avocare a sé i provvedimenti, di intervenire in via sostitutiva. Se questo fosse possibile, significherebbe di fatto consentire al sindaco, per il mezzo della finzione giuridica del direttore generale, di ingerire profondamente nell'attività gestionale della dirigenza, svilendone l'autonomia.

I dirigenti degli enti locali, in secondo luogo, rispondono al direttore non nel senso che egli sia il loro referente o giudice dell'attività: è fin troppo chiaro che essendo il sindaco colui che conferisce e revoca gli incarichi, è al sindaco che i dirigenti rispondono nel senso di assumersi la responsabilità specifica manageriale del proprio ruolo. Per altro, il direttore generale non può giudicare ma semmai valutare i dirigenti, quale componente del nucleo di valutazione.

Occorre chiedersi in che senso il dirigente, allora, risponda al direttore. La prima parte dell'articolo 51-bis, comma 1, chiarisce che compito del direttore generale è assicurare una gestione di impronta manageriale al comune, principalmente predisponendo il piano dettagliato degli obiettivi e la proposta del piano esecutivo di gestione.

Il direttore, allora, è colui che si fa carico di tradurre minutamente in atti concreti il programma politico: è dunque il soggetto con il quale i dirigenti debbono negoziare per individuare, valutare, pesare gli obiettivi, individuando tempi, risorse, strategie realizzative per conseguirli. In sostanza, il direttore è il raccordo tra dirigenti e giunta: dunque i dirigenti rispondono a lui, nel senso che è a lui che debbono fare riferimento per il coordinamento dell'azione amministrativa, in modo da evitare gli appesantimenti derivanti da contatti con un organo collegiale quale la giunta, anche per evitare gli ondeggiamenti decisionali inevitabili conseguenze delle diversità di opinioni di ciascun assessore.

Poiché il direttore è colui che predispone gli obiettivi e propone il Peg, cioè lo strumento finanziario necessario per raggiungerli, è col direttore che i dirigenti debbono confrontarsi. Qualora esista una zona grigia nell'azione concreta, il dirigente risponde al direttore, perché è questo ad indicare la scelta strategica da seguire, fermo restando che la scelta gestionale, il metodo concreto non può essere sottratto all'autonomia del dirigente.

In terzo luogo, nell'ordinamento degli enti locali v'è una peculiarità specifica: i dirigenti sono inquadrati in una fascia unica, come ha confermato il CCNL di comparto in data 23.12.1999. Non v'è tra dirigenti locali un rapporto di gerarchia: essi non sono i mattoni di una piramide, ma gli assegnatari di sfere gestionali, sottoinsiemi di un insieme più grande, l'organizzazione comunale.

Allora, esiste una specifica peculiarità dell'ordinamento degli enti locali, che impedisce l'applicazione per via statutaria dell'articolo 16 del D.lgs 29/93 per la parte relativa al sistema organizzativo (gerarchico o meno) intercorrente tra direttore generale e dirigenti.

Tornando, invece, alle competenze dirigenziali, non pare l'ordinamento degli enti locali presenti delle peculiarità tali da impedire l'esercizio (anche se non espressamente previsto dallo statuto) delle competenze dirigenziali elencate dal citato articolo 16, per altro in gran parte coincidenti con l'elencazione di cui all'articolo 51, commi 2 e 3, della legge 127/97.

(1) Vedasi Gian Valerio Lombardi in <<Guida agli enti locali>> n. 5 del 12 febbraio 2000, pagg. 85-86

(2) Vedasi, per la tesi della non contrarietà al sistema di un'autorizzazione dirigenziale al sindaco, Luigi Oliveri, <<Spetta ai dirigenti l'adozione del provvedimento che autorizza la costituzione in giudizio per gli enti locali>> in <<Rivista del personale dell'ente locale>> n. 5, settembre/ottobre 99.

(3) La residuale ipotesi prevista dall'articolo 12, comma 1, della legge 103/79 - espressamente richiamato dall'articolo 16, comma 1, lettera f) del D.lgs 29/93 - secondo la quale le divergenze che insorgono tra il competente ufficio dell'Avvocatura dello Stato e le amministrazioni interessate, circa la instaurazione di un giudizio o la resistenza nel medesimo, sono risolte dal Ministro competente con determinazione non delegabile, dimostra proprio il contrario. L'organo di governo può intervenire solo per risolvere un contrasto di opinioni tra il dirigente e l'avvocatura sull'opportunità o meno di stare in giudizio. Qualora i due organi tecnici, quello amministrativo e l'avvocatura, non concordino, dal momento che l'inerzia o la temerarietà rispetto ad un'iniziativa giudiziale non sono prive di conseguenza, ad intervenire con un proprio giudizio di merito è l'organo di governo. Ma questo non può intervenire se dirigenti ed avvocatura concordino sulla strategia di giudizio. La stessa cosa può evidentemente avvenire negli enti locali, anche privi di avvocatura. Infatti, è opportuno che il dirigente o responsabile di servizio cui spetta il compito di curare l'istruttoria relativa all'opportunità che il comune stia in giudizio come attore o convenuto si consulti comunque con un legale, al fine di valutare le ragioni tecniche sia di diritto sostanziale, sia di diritto processuale. Concordata una linea, non si vede come l'organo di governo possa essere coinvolto in una decisione che appare tecnica.

(4) Per tutti vedasi E. Barusso, <<Il direttore generale>>, ed. Giuffrè, coll. Cosa e come, 1998.