DIRIGENTI

Questione 1

Quali sono i diritti di un dirigente di imprese commerciali?

In forza del contratto collettivo dei dirigenti commerciali, il dirigente ha diritto ad una retribuzione composta dal minimo contrattuale (attualmente, per il neo-assunto, L. 5.780.000), dagli scatti di anzianità (L. 250.000 mensili al compimento di ogni biennio di anzianità, con un massimo di 11 bienni) e dall'elemento di maggiorazione (12% degli elementi della retribuzione utili per il calcolo del TFR). Nei mesi di dicembre e di giugno di ogni anno il dirigente ha diritto a mensilità supplementari. Al dirigente spettano 4 giorni di permesso retribuito in sostituzione delle festività abolite, e 30 giorni di ferie (nel periodo di ferie non vanno computate le domeniche e le festività).

Per giustificato motivo, al dirigente deve essere concessa una aspettativa fino a 6 mesi, con facoltà del datore di lavoro di non corrispondere, in tutto o in parte, la retribuzione. In caso di malattia, il dirigente ha diritto alla conservazione del posto e alla retribuzione, per 12 mesi ; successivamente, può essere chiesta l'aspettativa di cui si è detto. In caso di infortunio per causa di servizio, il posto di lavoro deve essere conservato fino all'accertata guarigione, e la retribuzione deve essere corrisposta per non più di 30 mesi. Inoltre, il datore di lavoro deve stipulare una polizza contro gli infortuni e deve contribuire, insieme al lavoratore, a forme di previdenza e assistenza sanitaria integrative.

Il licenziamento e le dimissioni devono essere comunicate per iscritto. Mancando una giusta causa, chi recede deve rispettare i termini di preavviso (da 2 a 4 mesi, a seconda dell'anzianità, in caso di dimissioni ; da 6 a 12 mesi in caso di licenziamento). Il licenziamento deve essere contestualmente motivato: in caso contrario, al dirigente spetta l'indennità supplementare (da un minimo corrispondente all'indennità sostitutiva del preavviso dovuto in caso di licenziamento ad un massimo pari ad una somma corrispondente a 18 mesi di preavviso). In ogni caso, al dirigente spetta il trattamento di fine rapporto.

Dimettendosi per giusta causa, il dirigente ha diritto all'indennità sostitutiva del preavviso che gli sarebbe dovuta in caso di licenziamento, nonché ad un'indennità supplementare pari a 1/3 del preavviso. Sono previste alcune ipotesi esemplificative di dimissioni per giusta causa : la mancata accettazione del trasferimento da un'unità produttiva ad un'altra ; la mancata accettazione del trasferimento di proprietà dell'azienda ; la dequalificazione; le dimissioni dovute a maternità o a matrimonio. Solo nel primo tra i casi citati spetta, oltre all'indennità sostitutiva del preavviso, anche l'indennità supplementare. Inoltre, il dirigente ha l'onere di richiamare espressamente la causa delle dimissioni e di rassegnarle entro un termine perentoriamente stabilito.

Questione 2

Com’è disciplinato il licenziamento del dirigente?

Il dirigente d'azienda non è tutelato dalla legislazione che limita il potere di licenziamento: il datore di lavoro che intenda licenziare un dirigente può omettere di addurre alcuna motivazione, nel qual caso il dirigente potrà rivendicare esclusivamente l'indennità sostitutiva del preavviso. Se invece il datore di lavoro adducesse una giusta causa di licenziamento, il dirigente licenziato perderebbe anche il diritto a tale indennità. In ogni caso, il licenziamento deve avvenire per iscritto: in questo senso dispone la L. 108/90 che ha modificato, anche sul punto, la previgente legislazione sui licenziamenti.

Tuttavia, la lacuna legislativa è, di regola, colmata dalla contrattazione collettiva, che impone al datore di lavoro l'obbligo di giustificare il licenziamento del dirigente. Tuttavia, la conseguenza del licenziamento ingiustificato non è la reintegrazione nel posto di lavoro, come avviene per gli altri lavoratori delle imprese medio - grandi, ma solo la corresponsione di una somma di denaro (cosiddetta indennità supplementare). Questa è l'ipotesi prevista per esempio dal contratto dei dirigenti industriali e dei dirigenti commerciali, che quantificano l'indennità tra un minimo e un massimo (per i dirigenti industriali, il minimo è pari al preavviso maggiorato di due mensilità, mentre il massimo corrisponde a ventidue mensilità di preavviso).

Nel caso in cui il dirigente intenda contestare il licenziamento, deve senz'altro ricorrere al pretore del lavoro nel caso di licenziamento per pretesa giusta causa: in altre parole, il pretore è sicuramente competente in ordine all'eventuale diritto all'indennità sostitutiva del preavviso. Invece, con riguardo al diritto all'indennità supplementare, sono stati sollevati dubbi circa la competenza del pretore, poiché i contratti collettivi sopra citati riservano ad un apposito collegio di conciliazione e arbitrato il compito di quantificare la somma di denaro dovuta per il caso di licenziamento ingiustificato. Conseguentemente, era stata affacciata l'ipotesi che il diritto alla indennità in questione potesse essere riconosciuta solo da tale collegio.

In realtà, ormai la questione non dovrebbe più costituire un problema, essendo ormai stata risolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con sentenza n. 1463 dell'11/2/87, hanno riconosciuto al pretore di lavoro la competenza in ordine alla liquidazione dell'indennità in parola. L'orientamento delle S. U. è stato successivamente seguito dalla Sezione lavoro (v. per esempio Cass. 11/2/91 n. 1397). Pertanto, il dirigente che intenda rivendicare il proprio diritto alla indennità supplementare, può indifferentemente fare ricorso al pretore, ovvero al collegio di conciliazione ed arbitrato.

Questione 3

E' legittimo licenziare un dirigente senza specificare i motivi del recesso nella lettera di licenziamento?

Quasi tutti i contratti collettivi che disciplinano il rapporto di lavoro dirigenziale, prevedono che il licenziamento del dirigente debba essere contestualmente motivato (con particolare riferimento al CCNL dei dirigenti di aziende del terziario, v. l'art. 30 c. 1).

La regola sopra indicata comporta, in primo luogo, la necessità che licenziamento e motivazione siano comunicati nello stesso momento, nonché l'irrilevanza di motivi che dovessero essere successivamente addotti e l'impossibilità di modificare i motivi originariamente indicati. In secondo luogo, la motivazione del licenziamento, anche non disciplinare, deve consistere in un fatto storico e non in un astratto richiamo a norme di legge o di contratto, e ciò all'evidente fine di consentire al dirigente di preparare una adeguata difesa giudiziaria. Ma anche questo non basta : in altre parole, non è sufficiente un richiamo generico ad un qualche fatto storico, che deve invece essere indicato in maniera specifica, sempre al fine di consentire al dirigente di apprezzare pienamente le ragioni del recesso e, dunque, di valutare l'opportunità di una causa.

Le conseguenze della omessa indicazione contestuale della motivazione è evidente : poiché il dirigente ha diritto, nel caso di licenziamento ingiustificato, alla indennità supplementare, e poiché in assenza della contestuale motivazione è impossibile verificare la sussistenza della giustificazione, ne deriva che il caso di cui si parla è del tutto equiparabile a quello del licenziamento ingiustificato, con conseguente diritto del dirigente alla indennità di cui si è detto. In un caso del genere, dunque, al dirigente non resta altro che scegliere se fare ricorso al collegio di conciliazione ed arbitrato, disciplinato dal CCNL, o se adire l'autorità giudiziaria.

Questione 4

Quali sono i diritti di un dirigente licenziato a seguito dello smembramento del suo ufficio e della conseguente soppressione della mansione?

Il contratto dei dirigenti di aziende industriali disciplina il licenziamento intimato da una impresa in stato di ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione ovvero crisi aziendale riconosciute con decreto del ministro del lavoro. Più precisamente, l'accordo 27/4/95 (e, ancor prima, gli accordi 13/4/81 e 16/5/85) dispone che se il licenziamento dipende da una delle situazioni sopra indicate, il dirigente ha diritto alla indennità supplementare in misura pari al preavviso.

Proprio l'accordo da ultimo citato è stato utilizzato dalla sentenza del Tribunale di Milano del 26/11/94 per risolvere il caso del licenziamento del dirigente per soppressione del posto di lavoro. Più precisamente, il Tribunale è partito dal presupposto che il contratto collettivo non specifica quando il licenziamento del dirigente possa dirsi giustificato; conseguentemente, il giudice deve interpretare la clausola contrattuale facendo innanzi tutto riferimento al complessivo contesto contrattuale. In questa prospettiva, è di primaria importanza l'accordo relativo al licenziamento da parte di aziende in crisi sopra citato. Infatti, se le parti collettive hanno attribuito il diritto alla indennità supplementare, sia pure nella misura minima sopra indicata, al caso in cui il licenziamento sia dovuto a motivi non solo seri, ma addirittura accertati tramite un provvedimento amministrativo, a maggior ragione tale diritto deve essere riconosciuto allorquando il licenziamento, pur dovuto a motivi non pretestuosi né capricciosi, dipenda da una scelta discrezionale del datore di lavoro che, per motivi insindacabili ma non necessitati, si orienti verso una diversa organizzazione del lavoro. Conseguentemente, il dirigente licenziato avrà diritto, nel caso di cui si parla, oltre che al preavviso, anche alla indennità supplementare, nella misura minima contrattualmente prevista.

Sul punto è intervenuta anche la Corte di Cassazione, secondo cui ogni licenziamento di dirigente motivato con la soppressione del posto di lavoro dà diritto all’indennità supplementare di cui al relativo contratto collettivo.

La questione riguardava un dirigente licenziato per crisi aziendale. Il Tribunale di Bergamo aveva però rilevato che, in realtà, il licenziamento era imputabile a un mero processo di riorganizzazione e ristrutturazione, che aveva determinato la soppressione del posto di lavoro del dirigente e che non aveva nulla a che vedere con ipotesi di crisi. Conseguentemente, il Tribunale aveva ritenuto che l’art. 19 CCNL dirigenti industria (che prevede la corresponsione dell’indennità supplementare in caso di licenziamento ingiustificato del dirigente), interpretato in base a un equo contemperamento degli interessi contrapposti, escludesse dall’area del licenziamento giustificato quello determinato da scelte organizzative che non fossero necessitate da ragioni attinenti a una oggettiva crisi aziendale. In altre parole, il Tribunale aveva ritenuto che l’indennità di cui alla citata norma contrattuale non può essere confinata solo nell’ambito della tutela della dignità personale del dirigente, per reprimere ipotesi di licenziamenti offensivi o discriminatori; al contrario, la norma deve essere estesa alle ipotesi di ridimensionamento o ristrutturazione aziendale determinate da mere opportunità economiche che, pur essendo in sé legittime, comunque giustificano il ristoro del danno patito dal dirigente licenziato.

La Corte di cassazione (sentenza n.9896/98) ha confermato tale sentenza, partendo dal principio pacifico per cui la tutela legale contro i licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo è inapplicabile ai dirigenti, se non per il caso di licenziamento discriminatorio. Piuttosto, osserva la Corte, il dirigente dispone di una tutela convenzionale, disposta dal contratto collettivo, che prevede – come già si diceva – la corresponsione di una indennità supplementare per il caso di licenziamento ingiustificato.

Ora, secondo la Corte, che sul punto segue la giurisprudenza pacifica, la nozione di licenziamento giustificato non corrisponde a quella di licenziamento sorretto da un giustificato motivo. Piuttosto, la giustificatezza prevista dal contratto riguarda ogni vicenda o comportamento del dirigente oggettivamente idonei a incidere irreversibilmente sulla fiducia del datore di lavoro. Insomma, secondo la Corte, la giustificatezza del licenziamento dipende dalla ragionevolezza e dalla serietà del motivo del recesso, da accertarsi secondo un equo contemperamento dei contrapposti interessi.

Secondo la Corte, il Tribunale si era correttamente uniformato ai principi sopra enunciati: infatti, correttamente era stato distinto tra recesso per crisi aziendale e recesso per altri motivi oggettivi. In questo modo, si perviene ad un equo bilanciamento della libertà di licenziare con la correlativa esigenza di compensare il disagio del dirigente licenziato. La Corte ha anche osservato che, per questa via, si risponde non solo a criteri di equità, ma anche di corretta interpretazione della volontà delle parti che, sia pur successivamente ai fatti di causa, mediante l’accordo interconfederale 27/4/95, hanno previsto, per il caso di licenziamento per motivo oggettivo del dirigente, il diritto del lavoratore a una indennità supplementare.

Questione 5

Quali sono i diritti del dirigente trasferito ad una diversa sede di lavoro?

Il trasferimento del dirigente soggiace alla ordinaria disciplina dei trasferimenti, regolata dall'art. 2103 c.c.. Tale norma subordina la legittimità del licenziamento all'esistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che, per giurisprudenza costante, devono sussistere sia nella sede di provenienza che in quella di destinazione.

Tuttavia, l'art. 14 del contratto dei dirigenti industriali integra la disciplina legislativa con norme volte a tutelare il dirigente. In primo luogo, il trasferimento deve essere comunicato per iscritto, con un preavviso di almeno 3 mesi, ovvero di 4 mesi se il dirigente ha familiari conviventi e a carico. Qualora il preavviso non possa essere rispettato per motivi di particolare urgenza, il dirigente deve essere considerato in trasferta fino al raggiungimento dei termini di preavviso.

Inoltre, il dirigente ha diritto al rimborso delle spese sostenute, a seguito del trasferimento, per sé e per la famiglia, nonché - per un periodo da concordarsi e comunque non inferiore a due anni - della maggior spesa effettivamente sostenuta per l'alloggio dello stesso tipo di quello occupato nella sede di origine. Anzi, il datore di lavoro deve attivarsi per agevolare il reperimento di un alloggio nella sede di destinazione.

Inoltre, il dirigente ha diritto ad una indennità, pari a 3,5 o a 2,5 mensilità, a seconda che il dirigente abbia o non abbia carichi di famiglia, peraltro non computabile agli effetti del trattamento di fine rapporto. Infine, qualora entro 5 anni dal trasferimento dovesse cessare il rapporto per licenziamento o per morte, il datore di lavoro deve rimborsare le spese sostenute dal dirigente e/o dalla sua famiglia per il ritorno alla sede di origine. In ogni caso, se non è diversamente convenuto, il dirigente non può essere trasferito se abbia compiuto il 55° anno di età, se uomo, o il 50° anno di età, se donna.

Il dirigente che non accetti il trasferimento può, secondo le regole generali, ricorrere al giudice per far accertare la mancanza delle ragioni giustificatrici del provvedimento. Inoltre, secondo quanto disposto dal citato art. 14, il dirigente può recedere dal rapporto entro 60 giorni dalla comunicazione del trasferimento, motivando le proprie dimissioni con la mancata accettazione dello stesso : in questo caso, il dirigente ha diritto, oltre al trattamento di fine rapporto, all'indennità sostitutiva del preavviso, nonché ad una indennità supplementare pari ad 1/3 del preavviso. In ogni caso, il dirigente che venga licenziato per mancata accettazione del trasferimento ha diritto, oltre al trattamento di fine rapporto, all'indennità sostitutiva del preavviso.

Questione 6

E' legittimo inviare un dirigente in trasferta?

La trasferta deve essere distinta dal trasferimento, disciplinato dall'art. 2103 c.c.. Più precisamente, la trasferta presuppone il sopravvenire di esigenze transitorie, non previste al momento dell'assunzione, che non incontrano limitazioni da parte della legge : pertanto, il lavoratore inviato in trasferta non ha spunti per contestare, nel merito, il provvedimento.

In altre parole, nel caso in cui il datore di lavoro modificasse il luogo di esecuzione della prestazione di lavoro, è necessario verificare se la modifica sia stabile e definitiva, nel qual caso ricorrerebbe l'ipotesi del trasferimento, ovvero temporanea, nel qual caso si configurerebbe la trasferta : naturalmente, il provvedimento che si qualificasse come "trasferta temporanea", ma senza una precisa data di rientro, o con una previsione di durata molto lunga, sarebbe qualificabile alla stregua di un trasferimento.

La trasferta è disciplinata dal contratto collettivo che, come normalmente accade, prevede essenzialmente il diritto del lavoratore al rimborso delle spese. Più precisamente, l'art. 18 del contratto collettivo dei dirigenti commerciali (ma analogamente è previsto, per esempio, dall'art. 10 del CCNL dirigenti industriali) dispone che il lavoratore in trasferta ha diritto al rimborso delle spese di viaggio, di vitto e alloggio, nonché di ogni spesa che sia stata sostenuta in esecuzione del mandato o nell'interesse dell'azienda. Il rimborso del vitto e dell'alloggio può avvenire a piè di lista, o per equivalente, in una misura da convenire tra il datore di lavoro e il lavoratore. Il dirigente in trasferta, qualora utilizzasse l'autovettura privata, avrebbe diritto - sempre che l'uso dell'auto privata sia stato autorizzato dal datore di lavoro - al rimborso chilometrico secondo le tariffe ACI. Infine, è previsto il rimborso delle piccole spese non documentabili, senza peraltro che il contratto offra, al riguardo, alcun parametro.

Questione 7

Quali sono i diritti del dirigente nel caso in cui la proprietà dell'azienda venga trasferita da un soggetto ad un altro?

L'art. 13 c. 2 del contratto di lavoro dei dirigenti di imprese industriali riguarda l'ipotesi del "cambiamento" della proprietà dell'azienda. Poiché vi è un esplicito riferimento alle "particolari caratteristiche del rapporto dirigenziale", si deve intendere che la norma si applichi a tutti i casi in cui il cambiamento dell'assetto proprietario sia tale da ripercuotersi sul particolare vincolo fiduciario che lega il datore di lavoro al dirigente.

In altre parole, la norma di cui si parla non si riferisce solo ai casi di trasferimento d'azienda, disciplinato dall'art. 2112 c.c.. Pertanto, oltre ai casi (per esempio) di concentrazione, fusione, scorporo, si deve ritenere che l'art. 13 del contratto si applichi anche ai casi di cessione di quote di proprietà dell'azienda, esclusi dall'ambito di applicazione dell'art. 2112 c.c..

Naturalmente, non deve trattarsi della cessione di una qualunque quota di proprietà aziendale. Poiché, come si diceva, la norma si riferisce alle peculiarità del rapporto dirigenziale, è necessario che la quota trasferita sia di una consistenza tale da incidere sul già citato rapporto fiduciario : in altre parole, deve trattarsi di un mutamento che possa legittimare l'affermazione che il datore di lavoro che aveva assunto il dirigente è cambiato, in modo tale che quest'ultimo possa non avere interesse a proseguire il rapporto di lavoro con l'acquirente.

Nei casi sopra indicati, dunque, il dirigente ha la facoltà di rassegnare le proprie dimissioni, senza obbligo di preavviso e con il diritto di percepire un trattamento pari ad un terzo dell'indennità sostitutiva del preavviso spettante nel caso di licenziamento. Tuttavia, per ottenere l'emolumento ora indicato, le dimissioni devono essere rassegnate nel termine di 180 giorni : il termine è stato evidentemente introdotto al fine di garantire che le dimissioni siano effettivamente causate dal descritto cambiamento. Bisogna sottolineare che il termine decorre dalla data legale dell'avvenuto cambiamento e non dal momento in cui il dirigente ne sia venuto a conoscenza.

Conclusivamente, dunque, in caso di trasferimento di proprietà dell'azienda, il dirigente, se non vuole proseguire il rapporto con il nuovo datore di lavoro, deve inviare, nel termine indicato, una raccomandata con ricevuta di ritorno, per comunicare le proprie dimissioni, specificando che le stesse sono motivate dall'avvenuto cambiamento dell'assetto proprietario, rivendicando altresì l'emolumento previsto dall'art. 13 c. 2 CCNL DAI.

Questione 8

Il quadro che subentri nelle mansioni di un dirigente, andato in pensione, ha diritto alla superiore qualifica?

Secondo la giurisprudenza prevalente la dipendenza gerarchica da altro dirigente non è, di per sé, un impedimento al riconoscimento della qualifica dirigenziale, potendo sussistere una struttura "piramidale" anche nell'ambito dei vertici aziendali (così si è espressa, ad esempio, la sentenza della Cassazione n. 1899/94) Quanto alle mansioni, in base all'art. 2103 del codice civile il lavoratore che abbia svolto per almeno tre mesi mansioni superiori (purché ciò non avvenga in sostituzione di un collega avente diritto alla conservazione del posto, ad esempio, perché malato) ha diritto all'assegnazione, in via definitiva, a tali mansioni, nonché al trattamento corrispondente. Peraltro, il fatto che il lavoratore sostituito avesse la qualifica dirigenziale non è di per sé sufficiente ad affermare che le mansioni svolte sono di natura, appunto, dirigenziale; tale qualifica potrebbe, in teoria, essergli stata attribuita, in base ad una scelta discrezionale del datore di lavoro.

Dunque, importanza determinante assumere l'esame delle mansioni che il lavoratore si trova, di fatto, a svolgere. In particolare, ciò che caratterizza la figura del dirigente, e che lo distingue dall'impiegato con funzioni direttive, è l'ampiezza dei poteri decisionali a lui in concreto affidati, nonché la possibilità di esercitare gli stessi con significativa discrezionalità, nell'ambito dell'intera impresa o di un settore rilevante della stessa. Al riguardo, assumono particolare importanza anche le previsioni dei contratti di categoria. Esistono, infatti, specifici contratti collettivi dei dirigenti in cui vengono individuate alcune delle caratteristiche più significative di tale figura professionale o, addirittura, una serie di ruoli professionali (direttore, vicedirettore, institore, ecc.) al cui svolgimento si accompagna il diritto al riconoscimento del ruolo dirigenziale. Per esempio, il contratto dei dirigenti del commercio prevede che lo stesso si applichi a coloro che "rispondendo direttamente all'imprenditore o ad altro dirigente a ciò espressamente delegato svolgono funzioni aziendali di elevato grado di professionalità con ampia autonomia e discrezionalità e iniziativa e col potere di imprimere direttive, a tutte l'impresa o ad una sua parte autonoma".

Questione 9

Si può parlare di demansionamento nel caso in cui il dirigente venga affiancato da un altro, al quale siano affidate una parte delle sue mansioni originarie?

Il diritto del datore di lavoro di modificare le mansioni dei propri dipendenti incontra i limiti della garanzia del livello retributivo raggiunto e del rispetto dell'equivalenza delle nuove mansioni con quelle precedentemente svolte, al fine di salvaguardare il livello professionale e le conseguenti prospettive di miglioramento.

Per esempio, la Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente la dequalificazione qualora il ridimensionamento della complessiva posizione lavorativa del dirigente "dimezzato" determini una compressione del suo spazio professionale e la divisione dei compiti, prima svolti in via esclusiva, nel senso di cogestione da parte dei due dirigenti. La Corte di Cassazione ha rilevato che in casi del genere non è rilevante in sé l'aspetto quantitativo ai fini del problema della dequalificazione, ma deve essere confrontata la posizione del dirigente prima o dopo l'affiancamento, tenendo presente l'elevata posizione professionale già rivestita, e valutando se quelle mansioni, proprio per il rilievo che avevano, potessero essere svolte con altri, senza che la loro qualità, la loro valenza professionale, avesse a soffrirne. Proprio l'elevatezza delle mansioni, secondo la Corte, non consentiva che le stesse fossero suscettibili di esercizio congiunto con altri, senza che venissero snaturate nella loro qualità.

E' proprio la posizione elevata del dirigente che fa apparire come l'eventuale svolgimento delle relative mansioni, in un momento successivo a opera di due persone, abbassi il livello professionale di chi in precedenza le aveva svolte da solo, in via esclusiva. In tal modo la nuova situazione viene ad essere dequalificante per il dirigente. Una volta accertata la dequalificazione, il diritto al risarcimento dei danni diviene conseguenziale e resta solo un problema di quantificazione dei danni stessi (in molti casi, a seconda dell'entità del danno patito, il risarcimento è stato commisurato alla retribuzione percepita o a una parte della stessa, per tutto il periodo in cui si è consumato il fatto illecito).

Ha ancora aggiunto la Corte che la lesione del bene giuridico garantito dall'art. 2103 c.c. prescinde anche da una specifica volontà dal datore di lavoro di declassare il lavoratore.

Questione 10

I dirigenti hanno diritto alla retribuzione per il lavoro straordinario?

Il lavoro straordinario è quello che viene effettuato dopo il normale orario di lavoro (a tale riguardo, va precisato che, attualmente, la legge prevede il limite delle otto ore giornaliere e delle quaranta ore settimanali, anche se i contratti collettivi normalmente stabiliscono limiti più bassi). Il lavoratore, in relazione al lavoro straordinario, ha diritto ad un compenso maggiorato rispetto alla retribuzione ordinaria. Di regola, la maggiorazione è quantificata dal contratto collettivo, che peraltro può legittimamente prevedere che, in alternativa, lo straordinario sia remunerato a forfait (il lavoratore percepisce una somma fissa mensile, destinata a remunerare il lavoro straordinario a prescindere dalla quantità di straordinario effettivamente prestato) o mediante i riposi compensativi. Naturalmente, per vantare il diritto al descritto trattamento economico, lo straordinario deve essere ordinato dal datore di lavoro, ovvero deve essere da questo autorizzato, anche tacitamente (è quindi sufficiente che il datore di lavoro sapesse che il lavoratore svolgeva lavoro straordinario e non si sia opposto).

Dalle regole sopra brevemente indicate è escluso il personale direttivo, cui non si applicano i limiti d’orario previsti dalla legge e, eventualmente, dal contratto collettivo. La nozione di personale direttivo comprende, ma non esaurisce la categoria dei dirigenti: infatti, i lavoratori di cui si parla sono tutti coloro i quali hanno la possibilità di alternare liberamente il lavoro ed il riposo, ovviamente fatto salvo l’obbligo lavorativo quotidiano (si tratta, per esempio, dei capi ufficio e dei capi reparto).

In altre parole, i dirigenti (in quanto facenti parte della più ampia categoria del personale direttivo) non hanno un orario prestabilito di lavoro; conseguentemente, nei loro confronti non si può parlare di lavoro straordinario e, dunque, neppure di diritto al compenso per il lavoro straordinario. Questa situazione, come è evidente, può peraltro portare a conseguenze aberranti, almeno nel caso in cui il dirigente lavori per una quantità di tempo eccessiva. Per questo, la giurisprudenza ha introdotto il principio secondo cui il dirigente ha diritto ad un compenso, che il giudice dovrà quantificare secondo equità, nel caso in cui la sua prestazione di lavoro si protragga per un periodo di tempo così lungo da superare i limiti della ragionevolezza. In altre parole, il diritto al compenso aggiuntivo spetta nel caso in cui l’orario di lavoro del dirigente sia stato tale da rendere la prestazione lavorativa particolarmente usurante, e complessivamente più gravosa di quella prestata dal personale direttivo.

Questione 11

Nel caso di licenziamento disciplinare, il dirigente ha diritto alla procedura prevista dall’art. 7 S.L.?

La sentenza n. 1434, pronunciata dalla Corte di cassazione in data 11/2/98, ha riaperto la questione della procedura da seguire nel caso di licenziamento disciplinare di un dirigente. A tale riguardo, conviene preliminarmente ricordare che, in caso di licenziamento disciplinare, l’art. 7 S.L. prescrive una articolata procedura, che il datore di lavoro deve seguire pena l’illegittimità del licenziamento: il datore di lavoro deve preliminarmente contestare l’addebito, con conseguente facoltà del lavoratore di far pervenire, nei successivi 5 giorni, le proprie giustificazioni. Solo allo spirare di detto termine, e sempre che si ritenga di non accogliere le giustificazioni, può essere inflitta la sanzione del licenziamento.

La procedura sopra descritta è pacificamente applicabile nei confronti di operai, impiegati e quadri. Al contrario, nei confronti dei dirigenti, la giurisprudenza della S.C. ha espresso orientamenti difformi, ora affermando, ora negando la necessità di esperirla. La questione sembrava definitivamente risolta con la pronuncia delle Sezioni Unite n. 6041 del 29/5/95, che aveva escluso l’applicabilità dell’art. 7 S.L. nei confronti del dirigente: ciò voleva dire che il dirigente poteva essere licenziato per motivi disciplinari anche senza l’attuazione della procedura garantista imposta dalla norma citata.

Come si diceva, invece, la sentenza in questione della Suprema Corte ha riaperto il dibattito sull’argomento. Tale sentenza è intervenuta su una pronuncia del Tribunale di Alessandria, che si era consapevolmente ribellato all’orientamento delle Sezioni Unite, rimarcando come tale decisione si scontrasse con il parere contrario più volte espresso, in passato, dalla stessa Corte di cassazione. La sentenza del Tribunale è stata annullata dalla Suprema Corte, lasciando però ampi spiragli per il dirigente licenziato in via disciplinare.

Infatti, la sentenza in questione ha ricordato come, in realtà, l’orientamento delle Sezioni Unite fosse nel senso di escludere la obbligatorietà della procedura ai sensi dell’art. 7 S.L. solo nei confronti dei dirigenti di vertice dell’azienda; al contrario, nei confronti dei cosiddetti pseudo-dirigenti, la procedura deve essere espletata. Inoltre, è stata fornita una nozione di pseudo-dirigente molto ampia: la applicabilità della norma più volte richiamata è stata esclusa solo nei confronti del dirigente in posizione apicale, che effettivamente sostituisca il capo di un’impresa di dimensioni medio – grandi nelle funzioni tipicamente sue proprie. Al contrario, la stessa norma deve essere applicata nei confronti del personale della media e bassa dirigenza, rappresentata dalla figura del dirigente di staff, ovvero dal dirigente tecnico altamente specializzato, ricercatore eccetera, in grado di offrire una prestazione lavorativa di elevata competenza e responsabilità professionali.

Questione 12

E’ possibile prorogare il contratto a termine stipulato con il dirigente?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8069 del 17/8/98, ha fornito risposta positiva.

Come è noto, il nostro ordinamento giuridico riconosce, come contratto di lavoro subordinato tipico, quello a tempo indeterminato, slegato cioè da un termine di durata predeterminato. Infatti, la legge consente la stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine solo in presenza di particolari ragioni giustificatrici, tassativamente contemplate dalla legge. Da qualche tempo, è stata attribuita anche alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare ipotesi di legittima stipulazione di contratti di lavoro a termine.

La regola appena ricordata non vale per i lavoratori con qualifica di dirigente. L’art. 4 L. 230/62 stabilisce infatti che, con riguardo ai dirigenti amministrativi e tecnici, è possibile stipulare contratti di lavoro a termine, anche in assenza delle cause giustificatrici necessarie per le altre categorie di lavoratori. L’unico limite posto dalla legge è che il termine apposto al contratto di cui si parla non può essere superiore a 5 anni, comunque con facoltà per il dirigente di recedere dal rapporto dopo che sia decorso un triennio, fatto salvo l’obbligo del preavviso.

Rispetto alla proroga di un contratto a termine, il primo comma dell’art. 2 della già citata L. 230 ne ammette la possibilità, a condizione che il contratto sia prorogato una sola volta, per un tempo non superiore a quello della durata iniziale del contratto, e sempre che la proroga sia richiesta da esigenze contingenti ed imprevedibili e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto a tempo determinato era stato stipulato. La sentenza sopra richiamata ha ritenuto inapplicabile nei confronti dei dirigenti la norma in questione: è stato infatti considerato che il rapporto fiduciario che lega il datore di lavoro ai suoi dirigenti, così come giustifica la possibilità di licenziare il lavoratore anche senza motivo; così come giustifica la stipulazione di un contratto a termine senza una delle cause giustificatrici previste dalla legge per le altre categorie di lavoratori, parimenti giustifica la facoltà del datore di lavoro di prorogare il contratto a termine anche al di fuori dei limiti stabiliti dalla norma.

Questione 13

In cosa può consistere il mutamento della posizione professionale del dirigente, che comporta il diritto dello stesso a dimettersi per giusta causa?

La sentenza n. 6168 pronunciata dalla Corte di cassazione il 19/6/99 fornisce un esempio al riguardo: tra un dirigente e la presidenza di una società era stato interposto un gruppo di consulenti da cui quindi il dirigente finiva per dipendere, dopo che per anni il dirigente era stato alle dirette dipendenze del Presidente della società.

Questa modifica, secondo il dirigente, aveva comportato una lesione della sua professionalità; pertanto, invocando l'art. 23 del CCNL dei dirigenti commerciali, si era dimesso per giusta causa. Questa norma citata stabilisce la facoltà del dirigente di dimettersi, con diritto all'indennità sostitutiva del preavviso prevista per il caso di licenziamento, nel caso in cui si verifichi un mutamento delle mansioni, sostanzialmente incidente sulla sua posizione, e sempre che le dimissioni vengano rassegnate nel termine di sessanta giorni. La stessa regola è contemplata dall'art. 16 CCNL dei dirigenti industriali.

Tuttavia, per ottenere il pagamento del dovuto, il dirigente si era dovuto rivolgere al giudice del lavoro. La domanda del lavoratore è stata accolta dal Pretore e, in grado d'appello, dal Tribunale. Con la sentenza prima citata, la Corte di cassazione ha confermato la decisione dei giudici di merito, affermando tra l'altro che la frapposizione tra il dirigente e la presidenza della società di alcuni consulenti configura un palese decadimento della posizione professionale del dirigente. Pertanto, a ragione il dirigente aveva invocato la norma contrattuale sopra indicata, con conseguente diritto all'indennità sostitutiva del preavviso.

La sentenza è importante perché sancisce il principio che la posizione professionale del dirigente si qualifica non solo per le mansioni di fatto svolte dal lavoratore, ma anche per il suo collocamento nella scala gerarchica della impresa per cui egli lavora. Pertanto, nel caso di un mutamento deteriore della posizione del dirigente nell'organigramma aziendale, si deve ritenere realizzata l'ipotesi contemplata dall'art. 23 CCNL dirigenti commerciali e dall'art. 16 CCNL dirigenti industriali, e ciò quand'anche la mansione del dirigente sia rimasta, in sé, invariata.

Tuttavia, al di là del rilievo della sentenza di cui si parla, resta da riflettere sull'efficacia del rimedio offerto dalla contrattazione collettiva per l'ipotesi del mutamento di posizione del dirigente. Da un lato, non si può trascurare che, nel rapporto di lavoro dirigenziale, l'indennità sostitutiva del preavviso è elevata: infatti, per i dirigenti del commercio tale indennità varia da un minimo di 6 ad un massimo di 12 mensilità, a seconda dell'anzianità del dirigente; per i dirigenti industriali, l'indennità varia, sempre in rapporto all'anzianità, da un minimo di 8 ad un massimo di 12 mensilità. Tuttavia, per quanto elevata sia la somma di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al dirigente nel caso di mutamento della sua posizione, resta il fatto che il lavoratore ha perso il suo posto di lavoro: evidentemente, si tratta di un sacrificio che difficilmente può essere compensato con una somma di denaro, per quanto elevata. In buona sostanza, il rimedio offerto dalla contrattazione collettiva non appare del tutto congruo, mentre invece sarebbe preferibile che, in casi come quello di cui si parla, fosse prevista una sanzione a carico del datore di lavoro, ma con la conservazione del posto per il lavoratore che ha subito il pregiudizio.

Questione 14

Qual è la conseguenza di un licenziamento discriminatorio intimato a un dirigente?

Anche un dirigente può ottenere dal Pretore un ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, a seguito di un licenziamento ritenuto discriminatorio. Questa la conclusione di una recente sentenza della Cassazione.

Il caso riguardava un dirigente che aveva impugnato il licenziamento che gli era stato intimato, sostenendo che, essendo stato inflitto come ritorsione a sue legittime rivendicazioni, il licenziamento era nullo, con conseguente obbligo del datore di lavoro di reintegrarlo in servizio. La legge infatti prevede la reintegrazione del lavoratore colpito da un licenziamento discriminatorio, estendendo tale tutela anche ai lavoratori con qualifica di dirigente (che, come è noto, di regola sono esclusi dalla tutela offerta dalla legge contro i licenziamenti ingiustificati).

L'impugnazione del licenziamento andava incontro ad alterne vicende giudiziarie. La domanda era stata accolta dal Pretore, che aveva accertato la natura ritorsiva del licenziamento, conseguentemente ordinando la reintegrazione in servizio del dirigente, ma era stata rigettata dal Tribunale. Quest'ultimo, in particolare, aveva sostenuto che è pur vero che la legge prevede esplicitamente la reintegrazione del lavoratore licenziato per motivi discriminatori; è anche vero che l'art. 3 L.108/90 si applica anche ai dirigenti; tuttavia, il Tribunale aveva concluso che, nel caso di specie, non ricorreva la fattispecie prevista da quella norma. Secondo il Tribunale, infatti, la norma prevede la nullità dei licenziamenti determinati da ragione di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali o a scioperi. Poiché, dunque, nel caso di specie il licenziamento era sì discriminatorio in senso lato, ma non era discriminatorio nel senso indicato, ne conseguiva l'inapplicabilità della reintegrazione.

La pronuncia del Tribunale è stata ribaltata dalla sentenza n. 4543, pronunciata dalla Suprema Corte in data 6/5/99. E' stato infatti osservato che la previsione di nullità per il licenziamento discriminatorio deve essere riferita anche a fattispecie di licenziamenti che, pur non direttamente corrispondenti alle singole ipotesi espressamente menzionate, siano determinati in maniera esclusiva da un illecito motivo di ritorsione o rappresaglia, costituendo dunque l'ingiusta ed arbitraria reazione a fronte di un comportamento legittimo del lavoratore (che, per esempio, aveva fatto valere rivendicazioni anche a mezzo di iniziative giudiziarie) ed inerente a diritti derivantigli dal rapporto di lavoro, o a questo comunque connessi.

L'interpretazione estensiva dell'art. 3 L. 108/90, afferma la Corte, è giustificata dal rilievo che le varie ipotesi di licenziamento discriminatorio contemplate costituiscono una specificazione della più ampia fattispecie del licenziamento viziato da motivo illecito, riconducibile alla più generale ipotesi dell'atto unilaterale nullo per motivo illecito. In tale più ampia e generale previsione è certamente da ricomprendere il licenziamento intimato per ritorsione e rappresaglia, poiché esso implica una illecita discriminazione, intesa in senso lato, del lavoratore licenziato rispetto agli altri dipendenti.