Dal sito "Giust.it" – rivista di diritto pubblico

DAUNO F.G. TREBASTONI

(Cultore della materia "Diritto Processuale Amministrativo"

presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di "Roma Tre")

La disapplicazione nel processo amministrativo

 

 

SOMMARIO: Parte Prima. la disapplicazione come principio generale. Sez. I – 1. Il giudice amministrativo titolare del solo potere di annullamento. – 2. La riferibilità dell’art.5 al solo giudice ordinario. La disapplicazione nel processo amministrativo già prima del 1865. L’art. 5 espressione di un principio generale. – 3. I princìpi generali come norme ricavabili in via induttiva o deduttiva. Il ruolo dell’art. 5 nell’ordinamento attuale – 4. La disapplicazione come conseguenza del principio di legalità. La deducibilità del principio generale dall’esame dei processi civile e penale. – 5. La disapplicazione in materia di rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni. – 6. La rilevanza sostanziale dell’art.5: l’inapplicabilità e la corrispondenza biunivoca con la disapplicazione. La disapplicazione-inosservanza da parte della p.A. Sez. II. – 7. Il principio della disapplicazione introdotto e imposto dall’ordinamento comunitario.

Parte seconda. la disapplicazione nel processo amministrativo come regola del processo. 8. L’inoppugnabilità e l’elusione dei termini di decadenza. I diversi gradi di definitività dell’atto amministrativo. – 9. Il presunto consolidamento dell’efficacia e della validità dell’atto. Il potere del giudice ordinario di disapplicare atti inoppugnabili, e l’annullamento dell’atto ad opera dell’autorità amministrativa. L’inoppugnabilità operante solo sul piano processuale. – 10. La lesione dell’interesse sostanziale e l’interesse ad agire. La "rituale" impugnazione dell’atto presupposto. – 11. Gli atti presupposti e i regolamenti. L’esclusione della disapplicazione anche con riferimento ad atti non impugnabili perché non lesivi.– 12. Le volizioni preliminari e le volizioni-azioni. Insufficienza di una lesione futura per l’impugnabilità di un atto presupposto. – 13. L’impugnabilità a seguito di fatti sopravvenuti, o di vizi conosciuti in seguito: la formazione progressiva dell’inoppugnabilità. – 14. Le questioni pregiudiziali. Distinzione fra disapplicazione e accertamento incidentale. – 15. Il principio jura novit curia e la verifica della fondatezza delle affermazioni delle parti. La tutela dei controinteressati. I motivi di ricorso e il giudicato. – 16. La disapplicazione sia come riflesso processuale del principio di gerarchia delle fonti sia come istituto legato all’inapplicabilità. La disapplicabilità anche di atti diversi dalle fonti normative secondarie, e la rilevabilità di qualsiasi vizio di legittimità. – 17. I limiti soggettivi ed oggettivi delle sentenze che annullano anche l’atto presupposto .– 18. Il presunto trasferimento di competenza, nell’impugnazione contestuale di atti presupposti e applicativi. – 19. L’annullamento dell’atto come misura non necessaria per la tutela delle situazioni soggettive: la pretesa del ricorrente e l’assetto di interessi. – 20. La disapplicazione nelle materie di giurisdizione esclusiva. Gli atti paritetici e l’assenza di termini di decadenza. conclusioni

Parte Prima – la disapplicazione come principio generale. Sez. I – 1. – Il giudice amministrativo titolare del solo potere di annullamento. – Con il presente lavoro si intende sostenere che anche il giudice amministrativo possa disapplicare gli atti amministrativi illegittimi, e ciò sia da un punto di vista tecnico, facente leva sulla struttura e le caratteristiche stesse del processo amministrativo, sia da un punto di vista di teoria generale, cioè dei princìpi che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale. Con questo fine, si farà in modo di rilevare come la disapplicazione nel processo amministrativo si affermi sia nell’ottica in cui tale processo voglia essere inteso ancora come processo impugnatorio, teso esclusivamente all’annullamento di un atto, e sia, a maggior ragione, se si valorizzano invece gli sviluppi che la concezione ed il ruolo della giurisdizione amministrativa hanno avuto, sia in dottrina che in giurisprudenza, con particolare riferimento alla tutela delle situazioni soggettive. Dal punto di vista tecnico si cercherà di dimostrare, innanzitutto, come l’affermazione della disapplicazione sia non soltanto conforme alle caratteristiche di tale processo, ma necessaria alle esigenze di tutela a cui quest’ultimo è finalizzato.

Per il profilo attinente all’esistenza di un principio generale si rende necessaria un’analisi retrospettiva della norma attributiva al giudice ordinario del potere di disapplicare, cioè l’art.5 l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, abolitiva del contenzioso amministrativo, il quale articolo dispone che "in questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi e i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi". Ciò che si intende dimostrare non è tanto che l’art.5 debba essere considerato di portata generale, prescindendosi così dalle testuali dizioni normative, ma che già in tale articolo sia rilevabile un principio generale, e cioè che qualsiasi giudice può disapplicare gli atti amministrativi illegittimi di cui venga a conoscere nel corso di un giudizio, e la cui legittimità condizioni la soluzione della questione principale[1].

Per fare ciò, però, si rende necessario un esame della portata innovativa e della ratio in generale di tutta la legge abolitiva, al fine di confutare uno dei principali argomenti utilizzati per escludere il potere di disapplicazione del giudice amministrativo; infatti, dall’affermazione secondo la quale il potere di disapplicare sarebbe stato attribuito al giudice ordinario per compensarlo dei vincoli posti con l’art.4 – essendogli precluso di annullare, revocare o modificare l’atto amministrativo – e dalla circostanza che tale potere di annullamento, di contro, fu attribuito, con la l. 31 marzo 1889 n.5992, al giudice amministrativo, si trae normalmente la conclusione che quello di disapplicare resti un potere proprio ed esclusivo del giudice ordinario, essendo il giudice amministrativo titolare di un potere maggiore[2].

Ora, a parte il fatto che il giudice ordinario può in alcuni casi annullare, senza che per questo si possa dubitare del suo potere di disapplicazione, non si può "certo escludere in capo al medesimo giudice un potere minore per il solo fatto che esiste un potere maggiore, se non altro perché è possibile che in taluni casi il meno soddisfi di più l’interesse sostanziale dedotto in giudizio, semprechè parimenti si consideri il processo amministrativo uno strumento di protezione dei concreti interessi individuali"[3]. Il fatto anomalo è che il consolidato orientamento della giurisprudenza contrasta con non poche sentenze in cui, di contro, si ammise, per lungo tempo, la disapplicazione di atti amministrativi illegittimi[4].

Sembra che soltanto a partire da Cons. St., sez. V, 14 febbraio 1941 n.93[5], la posizione giurisprudenziale, favorevole ad ammettere la disapplicazione nei processi amministrativi, andò mutando, e, pur affermandosi che l’art.5 l. n. 2248, cit., debba trovare applicazione anche davanti agli organi di giustizia amministrativa, si precisava però che ciò può avvenire "solo nei casi in cui la illegittimità dell’atto venga dedotta in via di eccezione, in giudizi nei quali sia fatta valere una pretesa fondata sull’atto stesso"[6].

2. – La riferibilità dell’art.5 al solo giudice ordinario. La disapplicazione nel processo amministrativo già prima del 1865. L’art. 5 espressione di un principio generale. – C’è da dire che anche in dottrina appare discretamente diffusa la concezione secondo la quale la regola dell’art.5 costituirebbe "la conferma e il completamento della regola contenuta nell’art.4, e trova la sua ragione d’essere nei particolari limiti che il nostro ordinamento pone al potere del giudice nei confronti dell’atto amministrativo"[7]. Tali limiti, inoltre, costituirebbero una deroga al principio, accolto dal legislatore del 1865, dell’unità della giurisdizione – cioè della sottoposizione di tutti i soggetti, amministrazione compresa, al giudice ordinario – poiché quel principio avrebbe dovuto comportare, come logico corollario, la pienezza dei poteri del giudice nei confronti della pubblica amministrazione[8]. Tale concezione dell’art.5 è strettamente legata ad una più generale interpretazione di tutta la legge 20 marzo 1865, la quale, come si afferma comunemente, fu espressione delle tendenze liberali dell’epoca, che, realizzatesi già in altri ordinamenti e, soprattutto, in quello belga, esigevano maggiori garanzie di tutela per le posizioni giuridiche del cittadino e una sottoposizione completa dell’amministrazione al controllo giurisdizionale, in particolare del giudice ordinario, e, più in generale, alla legge[9].

Logica conseguenza era che al giudice dovesse essere attribuito il potere di non applicare gli atti amministrativi non conformi a legge, come già era avvenuto anche in Francia[10]. In realtà, tutto questo sembra frutto di un’interpretazione della legge del 1865 incompleta, che fa leva unicamente o quasi sulla circostanza che, con l’introduzione della giurisdizione unica, si volle sottoporre l’amministrazione allo stesso giudice dei privati[11]; il fatto poi che tale giudice non avesse nei suoi confronti gli stessi poteri di cui poteva normalmente disporre, e che anzi l’amministrazione godesse di numerosi privilegi, non ha minimamente scalfito tale teoria.

Infatti, in troppe parti della legge è possibile rilevare delle incoerenze con le premesse di base, tali da far pensare che non si tratti semplicemente di applicazioni del principio della divisione dei poteri, ma di un insieme di norme inserite con il preciso fine di tutelare principalmente gli interessi dell’amministrazione, anche a scapito di quelli del cittadino[12].

Ecco perché si è notato che l’attribuzione della tutela dei diritti del cittadino al giudice ordinario rivela un aspetto della legge del 1865 che appare profondamente contraddittoria, poiché la magistratura italiana "dipendeva organizzativamente dal potere esecutivo, il quale esercitava sui magistrati…la sorveglianza morale e ne controllava l’operosità professionale, e perfino la condotta politica"; senza contare, poi, che gli stessi giudici, "figli essi pure della borghesia che costituiva la classe dirigente, condividevano la fondamentale ideologia autoritaria di questa classe (in larga parte, anzi, alta magistratura e apparato di governo si incarnavano nelle stesse persone)"[13]. Di conseguenza, "non dovette essere molto difficile, per gli abolizionisti, prefigurare ciò che poi sarebbe puntualmente avvenuto, e cioè che i giudici ordinari si sarebbero intimiditi nei confronti della pubblica amministrazione"[14]. La contraddizione risulta allora senz’altro apparente, tanto da far ritenere che tutta la legge abbia, paradossalmente, una sua intrinseca coerenza; non facendo sembrare, così, affatto peregrina l’ipotesi che "il declassamento dei problemi di tutela e di garanzia del cittadino verso la pubblica amministrazione rappresentò il contenuto politico della scelta del ‘65"[15].

In definitiva, è possibile affermare – non dovendo oltretutto confondere la ratio juris con l’occasio legis[16] – che il legislatore del 1865, nell’impostazione generale che intese dare alla legge, fu, più che animato, spinto dalle tendenze e dalle istanze liberali dell’epoca a prevedere delle norme che garantissero il cittadino e contestualmente consentissero al giudice di fornire allo stesso un minimo di tutela[17]. In pratica, non si può ritenere con assoluta certezza che, senza l’art.5, il principio ivi contenuto della disapplicazione sarebbe stato ugualmente applicato, ma questo sarebbe dipeso dal momento storico e dalla posizione di privilegio dell’amministrazione.

Questa mancanza di certezza, quindi, e l’essere l’art.5 frutto di una particolare condizione storico-ambientale, non possono portare ad escludere l’esistenza, o quantomeno il formarsi, già allora, di un principio generale, non potendosi trascurare il dato fondamentale che, "ancora prima che fosse formulato nell’art.5…, il principio che il giudice non dovesse applicare gli atti amministrativi illegittimi era già penetrato…nella nostra prassi giurisprudenziale, con la sola scorta ed autorità dei grandi princìpi"[18]. Non bisogna dimenticare che la formulazione dell’art.5, nel progetto della Camera del 1864, venne addirittura ritenuta superflua, in quanto esprimente un concetto ovvio, dalla Commissione del Senato, che ne propose quindi la soppressione. Se ciò non avvenne, e l’art.5 fu introdotto, la spiegazione sta probabilmente nel fatto che il legislatore non potè, a scanso di equivoci, farne a meno[19].

E anche se la giurisprudenza ante 1865 non fu univoca nell’ammettere la disapplicazione, e che "non mancarono casi in cui, sorta pregiudiziale sulla legittimità o sulla interpretazione di un atto amministrativo, il giudizio pendente innanzi ai giudici ordinari fu sospeso, e la decisione della pregiudiziale rinviata agli organi del contenzioso amministrativo"[20], sembra molto più significativo che tali sentenze favorevoli vi fossero, in un contesto storico che certamente non aiutava, e con un quadro normativo che non prevedeva, nè esplicitamente, nè implicitamente, strumenti giuridici come quello dell’art.5. Non sembra poi di impedimento all’individuazione di un principio generale della disapplicazione già all’epoca della legge abolitiva il fatto che l’art. 5, come è anche ovvio, non avesse fin dall’inizio tutti quei contenuti che è possibile attribuirgli oggi, perché ciò dipende comunque anche dal contesto storico e dalla posizione che la pubblica amministrazione assume in ogni contesto[21].

3. – I princìpi generali come norme ricavabili in via induttiva o deduttiva. Il ruolo dell’art. 5 nell’ordinamento attuale. – A questo punto è opportuno richiamare ciò che, quasi sessanta anni fa, affermava Ferrara, precisando che "i princìpi generali...possono intendersi in due sensi: o come quei princìpi di diritto positivo che si estraggono da disposizioni concrete legislative e che si ampliano in formule generali, comprensive di nuove applicazioni, o come princìpi fondamentali dell’ordinamento giuridico, informatori del suo sviluppo e capaci di indirizzare la stessa opera legislativa. I primi stanno dentro l’ordinamento giuridico, innucleati e latenti nelle sue norme, che l’interprete sviluppa mediante il processo logico e analogico. Gli altri sono condizioni essenziali dello stesso ordinamento giuridico, presupposti basilari di esso, in parte attuati, in parte da svolgersi e realizzarsi in avvenire. Questa seconda categoria di princìpi sono in certo modo fuori e superiori allo stesso ordinamento positivo, costituiscono le direttive, le forze propulsive del suo sviluppo"[22].

Tale impostazione porta ovviamente ad una distinzione tra il caso in cui vi sia una norma particolare esplicita, da cui sia ricavabile una norma di portata più generale, dal caso in cui tale norma invece manchi[23]. In questo secondo caso, le conseguenze di ordine pratico oltre che teorico saranno le stesse, perché "i princìpi generali sono vere e proprie norme ma di tipo specifico,...norme superiori...per generalità rispetto tanto alla norma-legge, quanto alla norma-sentenza"[24]. Vale a dire che sia nel caso di una ricostruzione del principio generale in via induttiva che in via deduttiva "si conferma...la natura di <<frammenti di norme>> (o meglio di disposizioni) che è propria dei princìpi generali del diritto, dato che il loro impiego richiede comunque un’integrazione, ma si conferma altresì la loro qualità di vere e proprie norme, dimostrata dalla possibilità che, compiuta in un modo o in un altro tale integrazione, essi possano concorrere alla produzione degli effetti normalmente propri delle norme giuridiche"[25].

Ora, per quanto riguarda l’utilizzo combinato dei processi logico-giuridici induttivi e deduttivi, in relazione al nostro ordinamento, bisogna innanzi tutto considerare che, se è vero che la nostra Costituzione ha mantenuto un diritto proprio dell’amministrazione – salva comunque la sua sottoposizione al diritto comune – con il potere di incidere unilateralmente nelle situazioni soggettive dei privati, è però anche vero, di contro, che la Costituzione stessa ha circoscritto tale supremazia con una serie di vincoli e di limiti, affermando la tipicità degli atti amministrativi che sacrificano posizioni giuridiche, e disciplinando rigorosamente sul piano formale l’esercizio di tali poteri. Con la necessaria conclusione che "non è all’amministrazione come <<entità>> che è attribuita preminente dignità nei confronti degli altri soggetti, ma è ai singoli comportamenti di essa, previsti e rigorosamente disciplinati, quanto alla sostanza e quanto alla forma, dall’ordinamento, che è assicurata efficacia per il raggiungimento dei concreti fini assegnati alla stessa amministrazione"[26].

Ed allora è chiaro come non si possa prescindere dal considerare la posizione che alla p.a. è consentito assumere in un dato ordinamento di fronte alla legge e, soprattutto, il ruolo che compete a qualsiasi giudice, nei rapporti con la stessa p.a. e con la legge. Nel senso che non può non essere considerato principio generale di uno Stato di diritto che verso gli atti dei pubblici poteri posti in essere contra jus non operano nè il dovere di <<osservanza>>, nè il dovere di <<applicazione>> da parte dei giudici[27]. L’art.5 non sarebbe quindi che un’espressione di tale principio, che andrebbe sempre applicato, quando non esistano, e al di fuori dei limiti in cui esistano, regole in senso diverso[28]. In sostanza, quindi, "negare ad un qualsiasi organo giurisdizionale, il quale, istituzionalmente, ha la funzione di dichiarare il diritto nel caso concreto sottoposto al suo esame, il potere di non applicare un atto amministrativo…illegittimo, appare un qualcosa che ripugna ai princìpi generali dello Stato di diritto, ai quali è informato il nostro ordinamento"[29].

L’esame sistematico dell’attuale ordinamento, quindi, consente di individuare quella che può essere ritenuta una vera e propria conferma di principi, come quello della disapplicazione e di legalità, sicuramente più risalenti nel tempo, non essendo sostenibile l’idea, per tutti i principi citati, di una loro nascita per precisa e nuova volontà legislativa[30].

In altri termini, il fatto che la norma contenuta nell’art. 5 debba essere inserita in un contesto normativo più ampio, porta inevitabilmente a ritenere, prescindendo per adesso da considerazioni di carattere più strettamente tecnico, che la mancata espressa previsione del potere di disapplicazione anche per il giudice amministrativo non sia particolarmente significativa, essendo tale mancanza ampiamente colmata da quei princìpi generali ai quali si è prima accennato, pur con gli adattamenti che si rivelano poi necessari in ogni tipo di processo[31].

Oltretutto, bisogna rilevare, per incidens, il dato di fatto che, al momento della previsione normativa espressa del potere di disapplicazione, un giudice amministrativo, come configurato poi con la legge del 1889, cui eventualmente attribuire allo stesso modo tale potere, non esisteva ancora, e tale circostanza, di per sé sola, non può evidentemente costituire un ostacolo.

Ora, c’è da dire che proprio Cannada-Bartoli, il quale, come è noto, è da sempre favorevole ad ammettere la disapplicazione in ogni tipo di processo, e di recente si è espresso per l’esistenza di un principio generale in tal senso, è tuttavia giunto a tale risultato a conclusione di una personale evoluzione, che lo ha visto in passato seguire quella posizione che discute della possibilità di disapplicare anche nel giudizio amministrativo con esclusivo riferimento all’art.5, discutendo quindi non tanto di un principio generale in esso contenuto, quanto di una sua applicazione estensiva[32].

Ed è interessante notare che Cannada-Bartoli criticasse tale estensione, prima di tutto perché il principio secondo il quale il giudice giudica secundum leges proverebbe troppo, perché "argomentando da esso, infatti, si potrebbe pure astrattamente dimostrare che il giudice ordinario dovrebbe potere annullare gli atti amministrativi non conformi a legge, mentre ciò è vietato". E poi perché "in linea astratta nulla vieta di considerare possibile un ordinamento nel quale il giudice possa dichiarare la illiceità o illegittimità di un atto e non possa invece non applicarlo", o in cui "il giudice possa dichiarare la non conformità alle leggi di un dato atto, ma non possa tuttavia annullarlo: che è precisamente quanto è disposto nella nota legge del contenzioso amministrativo"[33]. Il principio generale di cui l’art.5 va considerato espressione, non riguarda, se non indirettamente, un rapporto tra giudice ed atto sottoposto al suo esame, bensì, più direttamente, tra il giudice e la legge, che egli è tenuto ad applicare; rapporto che è perfettamente compatibile con la scelta di riservare l’annullamento dell’atto all’autorità amministrativa, purchè però tale scelta implichi sempre il dovere, per il giudice, di non applicare l’atto in questione riscontrato illegittimo. Ritenendo che un ordinamento possa prevedere che un giudice dichiari l’illegittimità di un atto, senza poterlo però disapplicare, è chiaro che detto giudice nessun potere concreto avrebbe nei confronti della p.a. e degli atti da essa emanati[34].

4. – La disapplicazione come conseguenza del principio di legalità. La deducibilità del principio generale dall’esame dei processi civile e penale. – Emerge adesso l’importanza di un esame della disapplicazione nei giudizi civili e penali, per individuare un filo conduttore comune al processo amministrativo, costituito dalla necessità della disapplicazione, e dalla superfluità di una sua espressa previsione normativa. Ciò che si vuole fare vedere, in pratica, è che lo stesso modo di funzionamento di tali processi dimostra che, anche quando viene espressamente fatto riferimento all’art. 5, la disapplicazione viene in realtà utilizzata prescindendo da esso, poiché i limiti per il giudice, sia civile che penale, sarebbero comunque ricavabili dall’art. 4 della legge abolitiva. Non si tratta quindi di riscontrare come la giurisprudenza applichi, più o meno consapevolmente, il principio generale della disapplicazione, ma, più semplicemente, di rilevare che lo stesso quadro normativo creato con l’art. 4, secondo l’interpretazione generale che ne viene comunemente data, rende superflua, in senso strettamente giuridico, la previsione dell’art. 5[35].

Infatti, nei casi di competenza principale del giudice civile, ciò di cui questo conosce direttamente è proprio l’atto lesivo del diritto del privato[36], dal punto di vista dei suoi effetti, per conoscere i quali il giudice dovrà necessariamente conoscere della sua legittimità, al fine poi di decidere sugli effetti (se vi siano e quali siano)[37], e, ritenuto illecito l’atto, deve ritenersi che egli "possa e debba disapplicare proprio il provvedimento amministrativo lesivo del diritto soggettivo del quale il titolare gli chiede tutela giurisdizionale"[38].

Il punto da chiarire è che, sia nei casi di competenza principale che occasionale, il comune denominatore è dato dalla necessità logico-giuridica, per il giudice, di disapplicare l’atto amministrativo riscontrato illegittimo, cioè di non tenere conto degli effetti da esso prodotti, e di decidere la controversia tamquam non esset[39].

Interessanti le osservazioni di Cannada-Bartoli in un altro scritto, in cui l’Autore osserva come, "a ben guardare, il 2° co. dell’art. 4 (<<L’atto amministrativo…>>) dev’essere letto, per la proposta d’integrazione tra il comma precedente e l’art. 5, come 3° co., dopo il primo (<<quando la contestazione cade…>>) ed il secondo (<<in questo caso, le autorità giudiziarie applicheranno…>>). In tal modo, il principio generale non è stabilito nel capoverso dell’art. 4, con le note limitazioni, ma nell’art. 5… Quei divieti sono la conseguenza dell’inefficacia, in casu, del provvedimento illegittimo. La revoca e la modifica risultano inutili se l’atto amministrativo illegittimo venga disapplicato e il rapporto controverso definito a prescindere da tale atto. Il divieto di annullamento, più che da un’interpretazione estensiva delle parole <<revocato o modificato>> deriva dalla limitazione della pronuncia giudiziaria agli <<effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio>>"[40].

Per quanto riguarda poi la disapplicazione nel processo penale, la giurisprudenza ha più volte affermato che ogni volta che il provvedimento sia integrativo della fattispecie penale, il giudice deve compiere previamente un accertamento incidentale di legittimità dell’atto, concorrendo questo a determinare norme di condotta penalmente rilevanti[41]. Infatti, anche condizionando la possibilità di sindacato sull’atto ai risultati dell’interpretazione delle singole norme, se ed in quanto tali risultati, sotto il profilo dell’individuazione del bene tutelato e della ratio dell’incriminazione, siano tali da condurre logicamente l’interprete ad affermare la necessità di disapplicare l’atto illegittimo, affinché non siano rese vane le esigenze specifiche di tutela degli interessi protetti dalla singola norma, il giudice penale dovrà sindacare la legittimità dell’atto amministrativo, anche qualora di tale qualifica non sia fatta espressa menzione nella norma[42].

L’ammissione di una siffatta tecnica di accertamento e di apprezzamento della legalità dell’atto integrativo della fattispecie penale, non importa oltretutto la sostituzione del giudice nell’esercizio di poteri pubblici, restando fuori dal controllo del giudice penale i vizi relativi a norme extrapenali che riguardino soltanto aspetti formali e irregolarità del procedimento amministrativo di rilascio del provvedimento, sempre che non ledano anch’essi gli interessi protetti dalla norma penale[43]. Ma se la disapplicazione resta comunque un momento necessario anche dell’attività del giudice penale, allora è chiaro che il fondamento del suo utilizzo deve essere ricercato proprio nello stesso esercizio della funzione giurisdizionale, potendo oltretutto servire a tutelare il privato, in sede di verifica della insussistenza dei presupposti dell’atto: tutte le volte, cioè, che il comportamento del privato, o le concrete circostanze considerate, in quanto non lesivi del bene giuridico protetto, non legittimavano il provvedimento adottato[44].

5. – La disapplicazione in materia di rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni. – Se in materia di pubblico impiego persisteva la necessità di distinguere la natura degli atti sottoposti all’esame del giudice, anche al fine di individuare il carattere di autoritarietà degli atti e l’esistenza o meno di termini di decadenza, l’avvenuta privatizzazione del settore ha modificato i termini del problema.

Infatti, nel D. Lgs.vo 29/93 la devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni è stata legata alla qualificazione dell’attività di gestione del datore di lavoro (pubblico), attribuita ai dirigenti, come attività privatistica, cioè come un’attività che si svolge "con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro", nell’ambito degli "atti organizzativi" di carattere generale (cioè quelli – aventi funzioni di indirizzo politico-amministrativo, di definizione degli obiettivi e dei programmi da attuare, ecc. – con cui sono delineate le linee fondamentali dell’organizzazione degli uffici), che restano riservate alla disciplina di diritto amministrativo[45]. Conseguenza di ciò è che gli atti di gestione del datore di lavoro (pubblico) sono atti negoziali e non provvedimenti, incontrano i limiti dei diritti soggettivi dei dipendenti, e sono sindacabili dal giudice ordinario, non diversamente dalle imprese private, in base ad un parametro costituito dalla sussistenza di dimostrabili esigenze tecnico organizzative[46].

Da tali norme si evince innanzi tutto, come è stato precisato, che, "di riflesso, rispetto agli atti organizzativi generali in regime pubblicistico…e agli altri eventuali atti che siano adottati dalla pubblica amministrazione nell’esercizio di una potestà (e quindi non con i poteri del datore di lavoro, che sono poteri contrattuali), i dipendenti pubblici non hanno azione di fronte al giudice amministrativo, dato che la loro posizione giuridica è tutelabile in modo esaustivo davanti al giudice ordinario, che può disapplicare, ove necessario, l’atto pubblicistico che lede i diritti del cittadino", sindacandone l’illegittimità secondo i canoni del diritto amministrativo[47].

Per quanto riguarda la disposizione, contenuta nell’art. 68 dello stesso D. Lgs.vo, secondo la quale "l’impugnazione davanti al giudice amministrativo dell’atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo", essa dovrebbe essere riferita, secondo alcuni, alle ipotesi in cui siano i terzi, e non lo stesso dipendente – che non avrebbe azione – a ricorrere al giudice amministrativo contro il provvedimento[48].

Sempre l’art. 68[49] ha poi previsto, al 1° comma, che il giudice ordinario è competente "ancorchè vengano in questione atti amministrativi presupposti", e che "quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione…li disapplica, se illegittimi". Ora, al di là del fatto che tale potere sarebbe comunque spettato al giudice ordinario in base all’art. 5 della legge abolitiva, alla ritenuta necessità del legislatore di prevederlo espressamente può comunque essere attribuito il significato di ribadire e confermare un dato normativo che – oltre a rivelare un utile significato interpretativo di carattere generale – nel contesto in esame emerge comunque rafforzato.

Infatti, tale potere di disapplicare è strettamente legato alla previsione della prima parte del 2° comma dell’art. 68, secondo cui "il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati", e che semplicemente in base alla disciplina contenuta negli artt. 4 e 5 non sarebbe possibile adottare. Ciò vuol dire che i giudizi relativi a rapporti di lavoro con pubbliche amministrazioni sono definitivamente finalizzati alla tutela delle situazioni soggettive in gioco, avendo acquisito il carattere di una giurisdizione sul rapporto che, pur utilizzando, talvolta, le tradizionali forme dell’impugnativa di atti, trascende la loro semplice eliminazione, finalizzata com’è alla regolazione delle situazioni sostanziali delle parti, ed alla determinazione di una norma agendi idonea a vincolare le parti per il futuro, anche attraverso la disapplicazione[50].

Ciò ha sicuramente modificato le caratteristiche della tutela giurisdizionale del pubblico dipendente nella materia in argomento, incrementando gli spazi di ingerenza del giudice sul rapporto e così rendendo effettiva la tutela, tenuto conto della maggiore elasticità ed ampiezza che la legge attribuisce all’intervento del giudice ordinario sulle controversie di lavoro rispetto a quello tradizionalmente ritenuto consentito al giudice amministrativo, caratterizzato dalla necessaria impugnazione di un atto (amministrativo), con tutti i limiti formali e sostanziali che si ritiene derivino da una simile impostazione, in relazione all’imperatività dei provvedimenti e ai termini di decadenza. In realtà si avrà poi modo, nella terza parte di questo lavoro, di rilevare come anche per il giudizio impugnatorio tipico sia possibile dare la giusta prevalenza alla tutela delle situazioni sostanziali.

In ogni caso, ciò che interessa mettere in evidenza, da un punto di vista più ampio, è il fatto che l’avvertita esigenza di rafforzare l’attribuzione al giudice civile, in materia di rapporti di lavoro con pubbliche amministrazioni, del potere di disapplicazione, è sintomo di una generalizzata acquisita consapevolezza, anche da parte del legislatore, della stretta inerenza del potere di disapplicazione, proprio come principio generale, alla funzione ed ai compiti del giudice, semplicemente in quanto espressione della funzione giurisdizionale nel suo complesso[51].

E questo, se collegato logicamente e giuridicamente con l’art. 5 l. n. 2248, cit., proprio in quanto espressione di un principio generale di tale portata, con l’analogo principio che vedremo essere stato ormai introdotto ed imposto dall’ordinamento comunitario, nonché con le caratteristiche ed esigenze dello stesso processo amministrativo, per il quale, come si vedrà, un’identica conclusione appare doverosa, dà certamente modo di affermare l’esistenza del principio della disapplicazione nei termini generali in questa sede prospettati.

6. – La rilevanza sostanziale dell’art.5: l’inapplicabilità e la corrispondenza biunivoca con la disapplicazione. La disapplicazione-inosservanza da parte della p.A. – A questo punto, è opportuno concludere l’esame della rilevanza in generale del principio della disapplicazione indicando un profilo sostanziale da esso presupposto, diventando essenziale, a tal fine, prendere spunto dall’opera, già più volte citata, in cui si è per la prima volta teorizzato tale aspetto della questione. Ci si riferisce, ovviamente, a L’inapplicabilità degli atti amministrativi, di Cannada-Bartoli, che istituisce un collegamento fra la disapplicazione e l’invalidità degli atti amministrativi, analizzando le categorie di quest’ultima[52].

L’Autore sosteneva a suo tempo – prima di indirizzarsi verso l’esistenza di un principio generale della disapplicazione – che "il potere di disapplicazione in senso stretto, riferito cioè agli atti invalidi, spetta al giudice soltanto se attribuito dall’ordinamento: donde la necessità di un’indagine positiva diretta a riscontrare la esistenza di espresse disposizioni". Per chiarire meglio il suo pensiero, poi, l’Autore precisava che "non occorrono due serie di norme, una che parli di inapplicabilità o di annullabilità e l’altra di disapplicazione o di annullamento: i due aspetti – attribuzione del sindacato ed esistenza della correlativa specie d’invalidità – sono così connessi, che dall’esistenza dell’uno si inferisce anche l’esistenza dell’altro". In modo tale che la disapplicazione "implica la esistenza della inapplicabilità"[53]. È vero che la disapplicazione presuppone la inapplicabilità, ma non può non essere vero anche il contrario, e cioè che anche l’inapplicabilità presuppone la disapplicazione, cioè la legittima come immediata conseguenza logico-giuridica; vale a dire che è sufficiente che l’ordinamento stabilisca le condizioni legali di un atto, affinché se ne possa dedurre l’esistenza di uno stato sostanziale di inapplicabilità e il correlativo potere di disapplicazione da parte di qualsiasi giudice, con riferimento ad un sistema basato sul principio di gerarchia delle fonti.

Inoltre, l’annullabilità – cioè la condizione dell’atto viziato consistente nel fatto che, normalmente su domanda dell’interessato, può essere annullato – non è l’unica conseguenza dell’invalidità, altrimenti "la condizione degli effetti dell’atto viziato dovrebbe consistere solo nella eliminabilità dei medesimi per via dell’annullamento"[54], mentre invece gli effetti dell’atto invalido, proprio a causa dell’inapplicabilità, possono, ancora prima dell’annullamento, essere considerati irrilevanti. Tale irrilevanza riguarda direttamente gli effetti, e non tocca minimamente l’efficacia dell’atto, poiché interessa singole fattispecie: "l’atto continua a produrre gli effetti disposti dalla norma, ma questi possono essere ignorati rispetto a singoli casi"[55].

E l’inapplicabilità consisterebbe quindi proprio in questa condizione precaria degli effetti di un atto viziato, cioè nella possibile irrilevanza dei medesimi[56]. Il vizio da cui l’atto è affetto non viene dunque meno, restando rilevabile da parte della p.a. non solo in fase di autotutela ma, anche, al fine della sua disapplicazione o, rectius, inosservanza[57]. Bisogna però distinguere l’ipotesi in cui a disapplicare sia un’autorità diversa da quella competente ad annullare, da quella in cui sia la stessa autorità a suo tempo emanante. In quest’ultimo caso, è da ritenere che l’autorità non possa disapplicare l’atto, svolgendo la propria ulteriore attività come se esso non esistesse, ma potrà solo annullarlo[58]. Tale principio non può valere però quando a disapplicare è un’autorità diversa, che nessun potere di incidenza avrebbe sull’atto de quo, e che potrebbe trovarsi nella condizione di dovere applicare un atto del tutto in contrasto con la legge, con la conseguenza di rimanere assolutamente vincolata dalla disposizione de qua[59].

Sez. II. – 7. – Il principio della disapplicazione introdotto e imposto dall’ordinamento comunitario. – L’esistenza di un principio generale della disapplicazione, da ritenere strettamente legato, come si è già chiarito, al concetto di inapplicabilità, va verificata anche in base all’esame dei rapporti intercorrenti tra norme comunitarie direttamente applicabili e norme nazionali, ed alle connessioni con il principio di gerarchia delle fonti.

Infatti, nella giurisprudenza comunitaria è ormai un dato ampiamente acquisito che in caso di contrasto tra norme nazionali e norme comunitarie direttamente applicabili debbano prevalere queste ultime, precisandosi che "il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale"[60].

Anche la Corte Costituzionale, pur dopo posizioni diverse, afferma che "l’eventuale contrasto fra norme nazionali e norme comunitarie non può dar luogo ad una questione di legittimità costituzionale, ma va risolto tramite la disapplicazione della norma nazionale"[61].

Il punto è che le norme comunitarie che sono da ritenere direttamente applicabili (Trattati, atti emanati dalle Istituzioni comunitarie, ecc.) entrano a far parte del nostro ordinamento, assumendo anzi, come viene in genere riconosciuto in virtù dell’art.11 della Costituzione, una valenza intermedia fra le stesse norme costituzionali e le norme di legge ordinarie, e quindi una posizione di superiorità gerarchica rispetto a queste ultime, comportando, in caso di legge successiva con esse contrastanti, non solo la disapplicabilità delle stesse da parte del giudice comune, ma anche la possibilità di un giudizio di costituzionalità su ricorso diretto, accanto, ovviamente, al dovere del legislatore nazionale di procedere alla relativa abrogazione[62].

La giurisprudenza italiana è, in maniera unanime, orientata ad affermare che "tutti i soggetti competenti nell’ordinamento a dare esecuzione alle leggi e agli atti aventi forza o valore di legge – ivi compresi gli organi amministrativi – sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme comunitarie direttamente applicabili (in quanto da esse derivano diritti immediatamente tutelabili in giudizio da parte dei cittadini degli Stati membri), indipendentemente dalla fonte di produzione delle medesime"[63].

Il quadro generale descritto suggerisce subito alcune osservazioni. Innanzitutto, ciò che emerge in via immediata è che nell’ordinamento italiano il potere di disapplicazione è stato ormai introdotto dall’ordinamento comunitario, limitatamente ad eventuali contrasti tra norme nazionali e comunitarie, come principio generale, insuscettibile di deroghe, con stretti nessi proprio con il principio di gerarchia delle fonti, e indipendentemente anche dalla natura delle situazioni soggettive coinvolte. Il fatto è che in materia di norme comunitarie le posizioni della giurisprudenza italiana sono, più semplicemente, la conseguenza della presa d’atto della vigenza di un principio generale che non può essere disatteso, proprio in relazione al ruolo ed al rango rivestito dalle norme comunitarie[64].

E la generalizzazione di tale principio emerge in particolare sotto due aspetti strettamente legati. In primo luogo, il fatto che coinvolga gli stessi atti di normazione primaria, pur in presenza di un organo giurisdizionale specificamente deputato all’accertamento della loro legittimità costituzionale; in secondo luogo, poi, il riguardare direttamente anche tutti gli atti di normazione secondaria ed amministrativi in genere[65]. Quest’ultimo profilo, in particolare, rivela maggiormente le incoerenze della giurisprudenza, allorquando, per le stesse categorie di atti, esclude invece la possibilità di rilevare eventuali contrasti tra atti amministrativi e fonti sopraordinate nazionali mediante la disapplicazione, richiedendo sempre una loro formale impugnazione, anche in assenza dei presupposti di legge[66].

Ecco perché, proprio con riferimento alla giurisprudenza tradizionale che nega invece al giudice amministrativo la possibilità di disapplicare norme interne in contrasto con altre norme, che non siano però comunitarie, si è così giustamente notato come "a leggere le numerose sentenze pronunciate in base alla disciplina comunitaria e per le quali la disapplicazione è ben ammessa, si ha l’impressione che nel nostro ordinamento vi siano due principi di legalità: l’uno debole per il diritto interno; l’altro forte con riguardo al diritto comunitario". Infatti, le caratteristiche dell’ordinamento comunitario "…non sono limitate o negate per esigenze del processo amministrativo o della teoria della validità dei provvedimenti amministrativi", come invece avviene per tutti quegli atti amministrativi che siano in contrasto semplicemente con disposizioni normative nazionali. La conclusione è che, "in realtà, il principio debole è tale perché è debole l’interpretazione che ne immagina limiti di dubbio fondamento giuridico, ma consono ad un modello forte di publica potestas, con la conseguenza che l’atto amministrativo è più resistente rispetto alle norme interne di quanto non sia rispetto a quelle comunitarie"[67].

Parte Seconda – la disapplicazione nel processo amministrativo come regola del processo. 8. – L’inoppugnabilità e l’elusione dei termini di decadenza. I diversi gradi di definitività dell’atto amministrativo. – Oltre quello facente leva sulla riferibilità dell’art. 5 l. n. 2248, cit., esclusivamente al giudice ordinario, un altro dei principali argomenti che vengono normalmente addotti, sia in dottrina che in giurisprudenza, per escludere la disapplicazione nel processo amministrativo, è il fatto che, ammettendola, si consentirebbe al privato di eludere i termini di decadenza previsti per l’impugnazione degli atti amministrativi[68].

Il primo Autore che si occupò in maniera sistematica dell’inoppugnabilità fu Bracci[69], il quale, incentrando l’attenzione sull’atto inoppugnabile, precisa che un provvedimento può essere annullato o modificato, innanzi tutto, a seguito di ricorso (gerarchico o in opposizione) presentato dall’interessato all’amministrazione emanante o a quella superiore, obbligando queste ultime, quanto meno, a provvedere sul ricorso[70].

Lo stesso provvedimento può essere poi impugnato dinanzi all’autorità giurisdizionale, che, a secondo dei casi, potrà annullarlo o modificarlo. Oppure ancora, l’Autorità emanante potrà, avendolo riconosciuto illegittimo, annullare l’atto di propria iniziativa, o revocarlo in quanto inopportuno[71].

Bracci precisa che bisogna poi prendere in considerazione il concetto di provvedimento definitivo, cioè non più modificabile, con la precisazione che mentre nel linguaggio corrente la parola definitivo indica solitamente qualcosa che non può essere più modificato in alcun modo, nel linguaggio tecnico-giuridico, invece, il significato della parola cambia, "ed indica non più un concetto assoluto, bensì uno relativo, cioè indica un provvedimento che non può più altrimenti essere modificato in un dato ordine di funzioni, o la cui possibilità di modificazione non riguarda determinati effetti"[72].

Fermando l’attenzione sulla nozione di definitività dell’atto, ovvero di atto definitivo, Bracci distingue tre diversi gradi di definitività. Il primo grado, minimo, corrisponderebbe a quell’atto che non è soggetto, o non lo è più, a ricorsi gerarchici, sia perché questo rimedio sia già stato esperito, sia perché quello specifico atto viene considerato dall’ordinamento, implicitamente o per espresso, l’ultima parola dell’amministrazione su quell’oggetto[73]. Il terzo grado è proprio degli atti amministrativi veramente definitivi, cioè di quegli atti che, oltre a non essere più suscettibili di ricorsi gerarchici o di impugnazione dinanzi al giudice amministrativo, non possono più neppure essere revocati dalla stessa amministrazione: "questa specie di atti può essere designata come <<irrevocabile>>"[74]. Il secondo grado, infine, è proprio dell’atto nei confronti del quale non possono più essere proposti ricorsi – né gerarchici, nè in sede di giurisdizione amministrativa – ma che può tuttavia essere revocato dalla stessa amministrazione; tale posizione intermedia è definita da Bracci dell’atto amministrativo "inoppugnabile", che "segna dunque l’impossibilità di far valere ulteriormente in via di azione gli interessi legittimi lesi ed anche i diritti soggettivi, quando la giurisdizione amministrativa sia esclusiva"[75].

9. – Il presunto consolidamento dell’efficacia e della validità dell’atto. Il potere del giudice ordinario di disapplicare atti inoppugnabili, e l’annullamento dell’atto ad opera dell’autorità amministrativa. L’inoppugnabilità operante solo sul piano processuale. – C’è però da rilevare una posizione secondo la quale l’inoppugnabilità andrebbe intesa come una "qualità che si acquista al provvedimento per effetto del decorso del termine di impugnativa, e che rende inattaccabili definitivamente gli effetti sostanziali"[76].

Bisogna però considerare che l’atto amministrativo spiega i propri effetti indipendentemente sia dal fatto di essere definitivo, che dall’essere ancora sottoposto ad impugnativa; inoltre, l’esecutività accompagna ab initio l’atto stesso, non sopraggiungendo a seguito della inoppugnabilità[77]. Pertanto, la consolidazione di cui parla parte della dottrina "avviene di riflesso, in via puramente negativa, in quanto alla decadenza non si collega alcun effetto sulla validità ed efficacia dell’atto"[78]. Pertanto, per quegli atti per l’impugnazione dei quali è trascorso il termine di decadenza, "non si può propriamente parlare di una presunzione assoluta di legittimità, perché, se non è ammissibile l’impugnazione da parte degli interessati, è pur sempre possibile, in via generale, che il vizio venga rilevato, d’ufficio o dietro semplice denuncia, dall’autorità amministrativa che li ha emanati o da quelle ad essa superiori"[79].

Per quanto riguarda poi la validità dell’atto, che anche su di essa l’inoppugnabilità non abbia conseguenze è dimostrato da due dati: la disapplicabilità dell’atto inoppugnabile da parte del giudice ordinario, e la possibilità, che l’amministrazione comunque mantiene, di revocare o annullare d’ufficio l’atto inoppugnabile[80]. Da tali elementi interpretativi si evince un dato fondamentale, e cioè che se l’amministrazione può, a volte anche molto tempo dopo, annullare di sua iniziativa l’atto stesso, allora è chiaro che "la decorrenza dei termini per l’impugnativa non elimina il vizio di illegittimità"[81], per cui "l’inoppugnabilità non può essere considerata mezzo di sanatoria; essa non è una forma di convalida per decorso di tempo"[82]. Ma se l’inoppugnabilità non incide sulla validità dell’atto, e non allarga la sfera dei suoi effetti, "poiché essi sono prodotti dalla volontà in quanto formata, e non in quanto conforme al diritto"[83], allora "...opera solo sul piano giustiziale e consiste nell’inattaccabilità (a fini caducatori)…dell’atto da parte degli interessati a impugnarlo,… decorsi i termini di impugnativa"[84].

10. – La lesione dell’interesse sostanziale e l’interesse ad agire. La "rituale" impugnazione dell’atto presupposto. – Preliminare allo studio dei problemi legati alla possibilità di disapplicare, appare l’esame di alcune categorie processuali, come i presupposti, di ricevibilità o di ammissibilità, di un ricorso giurisdizionale, tra i quali, soprattutto, l’interesse ad agire e la legittimazione ad agire. È noto che può avere titolo a che un giudice amministrativo si pronunci sul merito di un ricorso "soltanto chi faccia valere una lesione recata in modo diretto e attuale ad un proprio interesse personale e attuale, protetto dall’ordinamento, e abbia un interesse – anch’esso personale e attuale – alla pronuncia richiesta"[85]. Per quanto attiene alla concretezza ed attualità della lesione, e all’efficacia dell’atto, in giurisprudenza si esclude l’interesse ad impugnare gli atti ancora soggetti a controllo, gli atti preparatori e infraprocedimentali, le circolari, proprio perché non incidono ancora concretamente nella sfera giuridica dei destinatari. Tali atti, infatti, ove siano viziati, incidono su interessi sostanziali soltanto indirettamente, cioè tramite l’invalidità derivata dell’atto in funzione del quale furono emanati, con la conseguenza che l’interessato si limiterà ad impugnare l’atto derivato o definitivo per il vizio suo proprio derivatogli dal primo[86]. Allo stesso modo, viene escluso l’interesse a ricorrere quando la lesione non derivi direttamente dall’atto impugnato, ma da un atto diverso ed anteriore, come nei casi di atti di mera esecuzione, o consequenziali, o confermativi di precedenti atti non impugnati[87].

Ora, per quanto riguarda la categoria degli atti presupposti, la giurisprudenza esclude, a causa della mancanza attuale della lesione di un interesse, che l’illegittimità dell’atto presupposto possa essere fatta valere autonomamente, se non al momento in cui sia stato emanato il provvedimento concretamente lesivo adottato sul suo presupposto[88]. Solo che in questi casi, come già rilevato, la giurisprudenza ritiene che l’atto presupposto vada impugnato in maniera autonoma, sebbene contestualmente all’atto che ne faccia applicazione, dichiarando inammissibile il ricorso contro tale provvedimento applicativo che non sia rivolto anche contro quello presupposto[89].

L’atteggiamento della giurisprudenza si giustifica però solo in quei casi in cui l’atto poteva essere a suo tempo impugnato, per cui ammetterne la disapplicazione significherebbe consentire l’elusione dei termini. Ma se l’assetto di interessi stabilito nel primo provvedimento non poteva essere messo in discussione perché l’atto non era impugnabile, o se con l’impugnazione è un assetto di interessi diverso che si vuole mettere in discussione; oppure, ancora, se l’atto continua a non essere impugnabile da parte del soggetto che di quell’atto chiede la disapplicazione, allora è chiaro come la disapplicazione diventi veramente l’unico strumento di tutela sostanziale degli interessi del privato coinvolto[90].

11. Gli atti presupposti e i regolamenti. L’esclusione della disapplicazione anche con riferimento ad atti non impugnabili perché non lesivi. – L’esclusione della disapplicazione dipende dal volere disconoscere che richiedere l’impugnazione congiunta dell’atto immediatamente lesivo e di quello presupposto significa soltanto accanirsi nel fare acquisire a quest’ultimo delle caratteristiche che non può avere[91]. L’errore di tale impostazione consiste probabilmente nel far coincidere il concetto di illegittimità e quello di lesione, non considerando che anche un atto illegittimo non è necessariamente lesivo. Infatti, la lesività è legata alla concreta ed attuale modificazione di posizioni giuridiche, motivo per cui di solito non è dato ricorso in caso di lesione soltanto temuta[92]. Nè, d’altro canto, l’essere lesivo o meno può dipendere da un fatto meramente eventuale ed incerto come l’emanazione di un atto successivo o la realizzazione di una certa fattispecie. La conclusione obbligata è che un atto o è lesivo o non lo è, ma se non lo è, pur essendo illegittimo, non può diventarlo a causa dell’emanazione successiva di un atto che da esso tragga la propria illegittimità[93]. Vale a dire che l’atto presupposto "non tanto diventa inoppugnabile, quanto rimane, quale anteriormente era, originariamente inimpugnabile, per carenza di lesività", perché "manca qualsiasi nesso tra la lesività del regolamento e la lesione dell’interesse legittimo…fatta valere, e d’altro canto l’illegittimità dedotta quale principale oggetto dell’accertamento è pur sempre l’illegittimità del provvedimento applicativo, illegittimità che non cessa di essere propria di questo, per la circostanza che deriva da quella del regolamento"[94].

Fondamentale diventa però precisare che "il processo amministrativo di annullamento richiede l’impugnazione di un atto amministrativo, ma quando la fattispecie impugnatoria minima necessaria è stata posta in essere con l’impugnazione dell’atto lesivo – nella specie, dell’atto applicativo – che costituisce l’oggetto del giudizio, non è necessario pretendere l’impugnazione anche dell’atto presupposto, perché non è vero che il giudice amministrativo possa conoscere delle questioni controverse soltanto in via principale, come dimostra la cognizione incidenter tantum in materia di questioni pregiudiziali e incidentali relative a diritti soggettivi…"[95].

12. – Le volizioni preliminari e le volizioni-azioni. Insufficienza di una lesione futura per l’impugnabilità di un atto presupposto. – Nell’esame dei problemi legati all’insorgenza dell’onere di impugnazione, è stato proposto di distinguere le disposizioni regolamentari in due tipi, diversi per caratteristiche ed efficacia, di cui uno incide direttamente nella sfera giuridica dei soggetti cui le disposizioni sono applicabili, mentre l’altro tipo regola la condotta che la stessa amministrazione dovrà tenere in futuro, e che si esplicherà attraverso l’emanazione di atti applicativi. Mentre per il primo tipo di disposizioni un ricorso al giudice amministrativo potrà e dovrà essere proposto subito, per il secondo tipo, invece, un ricorso immediato non sarà proponibile[96].

Con riferimento al primo tipo di norme, non soltanto la lesione da esse prevista è futura, perché rinviata al provvedimento applicativo, ma è anche eventuale, in quanto è eventuale l’emanazione del provvedimento stesso. Infatti, anche quando l’amministrazione sia obbligata ad emanare quest’ultimo, può in ipotesi sempre succedere, per un qualsiasi motivo, che l’amministrazione resti inerte, e non provveda nel senso in cui sarebbe obbligata a fare[97]. Inoltre, il fatto stesso che, con l’emanazione del regolamento, sorga per l’amministrazione l’obbligo di agire in seguito – al concretizzarsi delle condizioni astrattamente previste – non sembra sufficiente per l’insorgenza dell’onere di impugnazione, visto che questo è legato ad un’effettiva modificazione delle situazioni giuridiche, che si verifica soltanto con l’emanazione del provvedimento applicativo[98].

Altrimenti si dovrebbe ritenere che la modificazione si abbia con la semplice previsione dell’obbligo di agire. Diverso sarebbe, invece, se la norma regolamentare fosse formulata in modo da produrre l’effetto previsto, ad esempio estintivo del rapporto di impiego, automaticamente, al verificarsi del presupposto costituito dal raggiungimento da parte del dipendente dell’età prevista. In questo caso la lesione sarebbe riconducibile in via immediata alla norma regolamentare, che andrebbe pertanto impugnata tempestivamente[99]. Qualora però la realizzazione del risultato sia affidata unicamente ad un successivo provvedimento che, in applicazione della disposizione regolamentare, estingua il rapporto, sarà solo con quest’ultimo che si verificherà la lesione, "con la conseguenza che una eventuale omissione da parte dell’ente, consente il mantenimento di questo rapporto: sia pure…contra legem"[100].

Oltretutto, da un punto di vista pratico sorgono anche ulteriori questioni, legate alle difficoltà che il privato può incontrare nello stabilire se una disposizione regolamentare sia immediatamente lesiva – ovvero se egli si trova nelle condizioni previste per l’applicazione di quella disciplina – e se deve quindi impugnarla tempestivamente. La differenza è fondamentale, perché se il giudice dovesse poi ritenere che la disposizione andava tempestivamente impugnata, mentre l’interessato, valutando diversamente, ha invece atteso il provvedimento applicativo, questi si vedrà respingere il ricorso, per avere sollevato vizi riferibili all’atto non impugnato[101].

Non solo, ma come è stato evidenziato, "si può esigere che un interessato ricorra contro un regolamento, entro sessanta giorni dal momento in cui gli fu reso noto, se egli all’epoca della pubblicazione si trovava nel rapporto giuridico cui il regolamento si riferisce" (come succede nel caso di impiegato in servizio e di un nuovo regolamento organico). Il problema sorge però se il regolamento è anteriore all’inquadramento del soggetto nei ruoli dell’ente, e se, come di solito avviene, dei regolamenti non viene eseguita alcuna comunicazione speciale ai nuovi dipendenti. In questo caso, o si considera l’inizio del rapporto come momento di decorrenza del termine per l’impugnativa – con la conseguenza di costringere l’interessato a ricorrere contro tutti i regolamenti illegittimi e solo potenzialmente lesivi nei suoi confronti, e facendo oltretutto decorrere il termine da un fatto che non è neanche equiparabile ad una notificazione – oppure si ritiene che il termine cominci a decorrere soltanto dall’emanazione del provvedimento che applichi il regolamento[102]. A questo punto, però, nota Cammeo, la rilevante conseguenza illegittima sarà che "si avranno più persone, in condizioni uguali, le quali, per essere entrate in un dato rapporto giuridico prima o dopo l’emanazione ed eventuale comunicazione di un regolamento, si troveranno diversamente trattate". Più precisamente, "in uno stesso corpo di impiegati...vi potranno essere gli anziani, sottoposti senza rimedio ad un regolamento organico illegittimo contro cui non abbiano ricorso nei 60 giorni, e i meno anziani, governati, al di sopra del regolamento, dalle vere fonti di diritto, la legge"[103].

13. – L’impugnabilità a seguito di fatti sopravvenuti, o di vizi conosciuti in seguito: la formazione progressiva dell’inoppugnabilità. – Ora, in generale, per quanto riguarda il termine di decadenza per l’impugnazione, per la giurisprudenza esso comincia a decorrere inesorabilmente dal momento in cui l’interessato ha avuto notificato l’atto o ne ha comunque avuto "conoscenza", anche se poi dell’atto non riesce in realtà ad avere cognizione nella sua portata lesiva ed illegittima[104]. Sono però questi due elementi della lesività ed illegittimità a consentire all’interessato di proporre ricorso e, nella maggior parte dei casi, a far sorgere in capo ad esso lo stesso interesse a ricorrere, con la conseguenza che "la piena conoscenza dell’atto amministrativo, idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione, esige anche la consapevolezza della portata lesiva dell’atto stesso"[105].

Per essere più chiari, basta rilevare che se da un lato viene normalmente richiesta, ai fini della proposizione del ricorso, una concreta ed attuale lesione di un interesse giuridico, accompagnata da un concreto e attuale interesse ad agire, dall’altro, contraddittoriamente, si stabilisce che il termine non può decorrere dalla lesione dell’interesse, qualora essa si collochi in un momento posteriore alla conoscenza dell’atto, sebbene soltanto da tale data si determini l’insorgenza dell’interesse all’impugnativa. Si afferma, infatti, che "non rileva, ai fini del giudizio circa la tempestività dell’impugnazione di un provvedimento amministrativo, che l’interesse processuale si radichi in un momento successivo alla piena conoscenza del provvedimento, poiché è solo da questo momento che deve farsi decorrere il suddetto termine"[106]; pertanto, se, prima della scadenza di tale termine, l’interesse non si è ancora concretizzato, il fatto casuale che lo faccia sopraggiungere non è idoneo a far riaprire il termine per ricorrere. Di conseguenza, il soggetto dovrebbe proporre subito ricorso, con la possibilità, poi, di proporre motivi aggiunti in seguito alla successiva conoscenza di vizi o fatti che indichino "ulteriori" profili di illegittimità. Però così si ha un assoluto diniego di tutela, perché da un lato il ricorso, se proposto prima che emergano i vizi, verrà probabilmente respinto nel merito, a meno che nell’atto non fossero già rilevabili altri vizi; dall’altro, però, non potrebbe essere proposto dopo la concreta ed effettiva insorgenza dell’interesse, in quanto in tale momento, secondo i canoni utilizzati in giurisprudenza, il ricorso risulterebbe irricevibile per tardività[107]. L’interessato non è però in grado di valutare se il provvedimento abbia operato una "lesione" dei suoi interessi sostanziali, oppure li abbia soltanto "sacrificati" – nell’assetto dato dall’amministrazione agli interessi coinvolti – fino a quando non è messo in grado di conoscere tutti i profili dell’atto che ne rivelino la sua portata più o meno "lesiva" e, quindi, la sua eventuale illegittimità[108].

Potrebbe inoltre sostenersi che non soltanto il soggetto "avverte" tale lesione solo nel momento, anche successivo alla conoscenza dell’atto, in cui si evidenziano per la prima volta i vizi, ma è proprio la lesione che si concretizza in quel successivo momento, legittimando realmente il soggetto a ricorrere; e questo non perché si tratti di "riaprire" i termini per impugnare, ma perché è da quel momento che decorrono, possibilmente per la prima volta, i termini, visto che "non si può escludere che il sacrificio subìto e l’illegittimità dell’atto da cui il sacrificio deriva vengano conosciuti in tempi diversi"[109].

Il problema è, infatti, che potrebbe benissimo succedere che il soggetto, proposto ricorso "al buio", per non incorrere nella decadenza dai termini, avverso un provvedimento che non mostri alcun profilo di illegittimità, ma contando sulla possibilità di presentare poi motivi aggiunti, si veda invece decidere il ricorso allo stato degli atti, senza cioè che siano ancora sopraggiunti i nuovi fatti che avrebbero potuto appunto legittimarlo alla proposizione dei motivi aggiunti. Nel caso del licenziamento motivato con l’esigenza di riduzione del personale, ad esempio, se l’amministrazione aveva agito con l’unico malizioso intento di eliminare dall’organico quelle unità licenziate, ma senza volere realmente ridurre il personale, ovviamente aspetterà, per procedere ad assumere nuove unità, il giudicato amministrativo che, a seguito del ricorso presentato dagli interessati, abbia ritenuto legittimo il licenziamento, al fine di precludere così ai ricorrenti la possibilità della presentazione dei suddetti motivi aggiunti[110]. Dimodochè il soggetto sarà comunque irrimediabilmente pregiudicato, sia nel caso che abbia presentato ricorso che nel caso in cui sia invece rimasto inerte. Nel primo caso, infatti, qualora volesse ripresentare ricorso per i profili di illegittimità tardivamente emersi, si vedrebbe dichiarare il ricorso inammissibile, a causa di quell’orientamento secondo il quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile[111]; nel secondo caso, invece, a causa dell’inoppugnabilità dell’atto che il giudice inevitabilmente constaterà, il ricorso sarà dichiarato irricevibile.

Certo, per ritenere che, nei casi in cui emergano dei vizi dopo il decorso dei termini, l’interesse a ricorrere si concretizzi, per la prima volta, proprio in tale momento, è necessario che nell’atto da impugnare non fosse rilevabile vizio alcuno, e per questo motivo l’interessato non procedette ad impugnare[112]. Nel caso in cui, però, l’atto manifestasse già dei vizi, la soluzione non cambia di molto, perché l’unico limite per il ricorrente sarà dato dall’impossibilità di denunciarli in seguito[113].

Ecco perché si è fatto cenno ad un "eventuale" decorso di termini dalla conoscenza dell’atto, perché in sede di ricorso presentato contro l’atto prima non impugnato il giudice, normalmente in seguito ad apposita eccezione dell’amministrazione, dovrà accertare se con riferimento ad alcuni dei vizi denunciati si sia già verificata l’inoppugnabilità, e quindi se il ricorso sia ammissibile con riguardo a tutti gli aspetti sollevati nello stesso[114]. In giurisprudenza si è anche sostenuto che "funzione dei motivi aggiunti è quella di consentire al ricorrente, a seguito della conoscenza sopravvenuta di un fatto lesivo, di dedurre ulteriori censure contro lo stesso atto già impugnato ovvero di ampliare ad atti ulteriori l’oggetto della impugnazione"[115].

Bisogna in proposito distinguere subito tre ipotesi, nettamente distinte. Nella prima, in cui avverso l’atto originario sia stato comunque proposto tempestivamente ricorso, la posizione giurisprudenziale che qualifica come motivi aggiunti gli eventuali ricorsi proposti contro atti successivi a quello originariamente impugnato, sembra tutelare sufficientemente il privato, facendo decorrere un secondo termine di decadenza, semprechè, però, il primo provvedimento manifestasse già dei vizi. Nell’ipotesi invece in cui un ricorso tempestivo non sia stato proposto, è da ritenere, come già affermato, che il privato debba poter far valere gli eventuali vizi che emergano successivamente, perché l’interesse a ricorrere si concretizzerà per la prima volta. Nell’ipotesi infine in cui l’eventuale ricorso presentato sia già stato deciso, allo stato degli atti, in senso sfavorevole per il ricorrente, questi dovrà avere riconosciuta la possibilità di presentare un nuovo ricorso contro lo stesso atto, facendo ovviamente valere i vizi successivamente emersi[116].

Soltanto nella prima e nella terza ipotesi, pertanto, cioè nei casi in cui l’atto presentasse già dei vizi che fossero rilevabili, l’interesse a ricorrere non si concretizzerà per la prima volta, perché già al momento in cui era venuto a conoscenza dell’atto il soggetto era in condizioni di impugnare, con l’ulteriore conseguenza che dal momento dell’apprendimento degli ulteriori vizi decorrerà un secondo termine di decadenza, ovviamente riferito esclusivamente ai nuovi profili di illegittimità. Ciò non toglie, naturalmente, che il privato sia libero, nonostante l’atto presenti già dei profili di illegittimità relativi alla lesione di uno specifico interesse, di non impugnarlo entro il termine decorrente dalla sua conoscenza, bensì, più tardivamente, dal momento in cui siano emersi altri profili di illegittimità relativi ad interessi diversi. Nel caso del ricorso presentato "al buio" e deciso allo stato degli atti, poi, sorge subito un collegamento con il problema della formazione progressiva del giudicato, cioè dell’efficacia di una sentenza che abbia già giudicato della legittimità dell’atto che viene poi, per la seconda volta, impugnato[117].

In tali casi, infatti, la giurisprudenza esclude spesso che l’interessato possa procedere ad impugnare nuovamente l’atto sul quale un giudice amministrativo si è già pronunciato, anche se per vizi diversi. Vale a dire che "nel giudicato di reiezione viene coperto il dedotto e il deducibile, con la conseguenza di precludere nuovi motivi di impugnativa"[118]; così, una volta che l’atto sia stato giudicato legittimo, nessuna censura sarebbe più proponibile contro di esso, con la conseguenza che il privato rimarrebbe privo di ogni tutela, atteso che i vizi che potrebbero portare effettivamente all’annullamento dell’atto, legittimandolo alla proposizione di un nuovo ricorso, possono emergere, come dimostrato, successivamente alla formazione del giudicato[119].

Però, c’è da dire, quanto prima sostenuto non sembra inconciliabile con la descritta posizione giurisprudenziale in materia di giudicato, se si considera che, normalmente, si afferma che "il giudicato preclude che possano essere rimesse in discussione, in un successivo giudizio, profili della fattispecie interessata già da esso affrontati, o suscettibili di venir affrontati se investiti da rituali e tempestive censure"[120]. Infatti, pur prendendo atto che alcuni profili di illegittimità, ovvero alcuni vizi dell’atto, non potevano essere fatti valere nel momento in cui fu emanato l’atto stesso, o allorquando questo fu impugnato, si potrebbe ugualmente continuare a sostenere, come già avviene in giurisprudenza, che "la formula <dedotto e deducibile> (…) contrassegna non soltanto…le ragioni giuridiche già fatte valere nel precedente giudizio (c.d. giudicato esplicito), sebbene anche quelle altre che, pur non specificamente prospettate, costituiscano antecedenti logici essenziali e necessari della…pronuncia (c.d. giudicato implicito)"[121].

Vale a dire che è evidente come i profili di illegittimità emersi solo in un secondo momento non potessero certo costituire un antecedente logico di una pronuncia di annullamento, resa per altri motivi. La portata delle affermazioni giurisprudenziali, quindi, andrebbe in qualche misura ridimensionata, sia con riferimento a vizi dell’atto emersi in un secondo momento, sia con riguardo ad interessi diversi da quelli lesi da un precedente provvedimento a suo tempo impugnato; in accordo con quelle sentenze che ammettono invece la possibilità di far valere vizi di legittimità solo successivamente conosciuti, precisando che "il principio per il quale il giudicato copre il dedotto ed il deducibile va inteso nel senso che il giudicato copre l’azione qual è stata concretamente esercitata, sul fondamento dei fatti costitutivi allegati e di tutti quei fatti che…debbono intendersi implicitamente inclusi nella medesima <causa petendi>"[122].

14. – Le questioni pregiudiziali. Distinzione fra disapplicazione e accertamento incidentale. – Per chiarire i nessi intercorrenti tra gli atti direttamente impugnati e gli atti da questi presupposti, nonché il modo in cui in tale rapporto si inserisca il concetto di pregiudizialità, è bene chiarire che per questione pregiudiziale debba intendersi quella questione la cui soluzione condiziona la soluzione di un’altra questione (cosiddetta questione pregiudicata). Secondo A. Romano, "la pregiudizialità…si inserisce in una relazione che lega due questioni e si qualifica, appunto, come nesso di pregiudizialità quel rapporto di antecedenza logica"[123]. Nello studio del fenomeno della pregiudizialità, quindi, ci si muove innanzi tutto su di un piano logico, prima ancora che giuridico, con riferimento, cioè, a quella serie di questioni che il giudice deve risolvere per poter decidere la controversia portata al suo esame, fermo restando che "pregiudiciali alla sentenza non sono che quei giudizi su cui la sentenza effettivamente si basa come su precedenti logici. Prima d’arrivare alla sentenza non si può conoscere la serie sillogistica da cui essa scaturirà, né si può dunque proclamare ciò che sarà e ciò che non sarà pregiudiciale; la sfera della pregiudicialità apparisce solo dalla motivazione della sentenza, dato che essa ci sia e risulti completa"[124].

Per delineare meglio la pregiudizialità nell’ambito del processo amministrativo, tornano utili le considerazioni di Romano, secondo il quale "l’ambito della pregiudiziale arriva, senza, ovviamente, ricomprenderlo, fino all’accertamento della legittimità o della illegittimità dell’atto impugnato", tenendo presente che, normalmente, i motivi del ricorso delimitano "l’ambito di manifestazione del fenomeno della pregiudizialità nel processo amministrativo", e che "si dovrebbero far rientrare nel contenuto del motivo quelle circostanze e, addirittura, le prove di quelle circostanze, le quali...devono essere accertate e valutate dal giudice amministrativo, ai fini della soluzione della questione c.d. principale…"[125]. E poiché ogni questione pregiudiziale è, in quanto tale, decisa incidenter tantum, e non rientra nell’oggetto del giudizio, la loro soluzione non passa in giudicato, confermandosi così uno stretto legame tra oggetto del giudizio, pregiudiziali, e limiti oggettivi del giudicato[126].

Inoltre, poiché in generale vanno valutate come questioni pregiudiziali in senso tecnico anche quelle questioni che, considerate come un autonomo oggetto di giudizio, ricadono nella competenza del giudice della causa principale, nel processo amministrativo sono questioni pregiudiziali anche quelle che abbiano ad oggetto la legittimità di un atto amministrativo, diverso da quello impugnato. Pregiudizialità che può anche riflettere un nesso di carattere sostanziale, tutte le volte in cui la legittimità, o l’illegittimità, del primo atto, quello pregiudicante, costituisca condizione di legittimità del secondo, l’atto pregiudicato[127].

A questo punto, si rivela utile una distinzione tra accertamento incidenter tantum ed accertamento incidentale di legittimità. La nozione di quest’ultimo si deduce dall’art. 34 c.p.c., ove è prevista l’ipotesi in cui il giudice debba spogliarsi della causa di cui è stato investito, qualora, "per legge o per esplicita domanda di una delle parti", sia "necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore". Come è stato osservato, "nel discorso del c.p.c. le questioni pregiudiziali di merito si differenziano dalle questioni preliminari di merito nell’essere le prime, e non le seconde,…<trasformabili in cause>", per cui "mentre le questioni preliminari di merito incidono su <ragioni> strumentali solo all’accoglimento o al rigetto della domanda già proposta, le questioni pregiudiziali di merito incidono su ragioni che possono servire anche a domanda diversa (purchè…il loro nesso con la precedente non sia di accessorietà o di continenza)"[128]. L’accertamento incidentale in senso stretto riguarda quindi una questione pregiudiziale che, per il coinvolgimento della competenza di un giudice superiore, debba essere decisa con efficacia di giudicato, mentre per le questioni pregiudiziali vere e proprie vale "il principio che…sono decise di regola senza effetti di cosa giudicata", cioè con effetti limitati al caso in decisione[129].

Tali considerazioni vanno poi adattate alla struttura del processo amministrativo, caratterizzato da termini di decadenza. Nel senso che in tale processo un problema di accertamento incidentale in senso tecnico della legittimità di atti amministrativi diversi da quello direttamente impugnato potrà porsi soltanto in quei casi, difficili da concretizzarsi, in cui il ricorrente sia ancora in termini per impugnare anche l’atto presupposto, il cui esame risulti pregiudiziale per la soluzione della controversia, ovvero per l’annullamento dell’atto impugnato. In ogni caso, sembra valido il rilievo che "la perentorietà dei termini impedisce soltanto che la questione pregiudiziale circa la legittimità di un atto amministrativo possa, nonostante la scadenza dei termini, divenire controversia in senso tecnico, oggetto di accertamento incidentale, ma non può impedire che la questione sia risolta con la tecnica della disapplicazione, pena la menomazione della tutela"[130].

Fondamentale diventa precisare che se la disapplicazione comporta sempre la rilevanza in via pregiudiziale di un atto amministrativo, e quindi l’accertamento incidenter della sua illegittimità, non è sempre vero il contrario, nel senso che la rilevanza pregiudiziale, da un punto di vista logico-giuridico, della legittimità di un atto amministrativo non direttamente impugnato, al fine di valutare la legittimità di un atto successivo nel relativo giudizio di impugnazione, non comporta necessariamente la sua disapplicazione. Anche perché, poi, "tutto quello che è giuridicamente pregiudiziale è tale anche logicamente, ma non viceversa"[131]. Inoltre, la pregiudizialità, come categoria astratta, va comunque distinta dalla disapplicazione, sebbene, nei risultati, da questa possa anche discostarsi poco, perché in ogni caso ne resta distinta concettualmente, a causa del fatto che i due istituti operano su due piani logici diversi. A far giungere alla disapplicazione è il riscontro, comunque in via pregiudiziale, dell’illegittimità dell’atto presupposto.

15. – Il principio jura novit curia e la verifica della fondatezza delle affermazioni delle parti. La tutela dei controinteressati. I motivi di ricorso e il giudicato. – Una volta affermata la necessità dell’utilizzo della disapplicazione anche nel processo amministrativo – in base all’esame dell’importanza dell’interesse ad agire, nonché dei rapporti tra atti presupposti ed atti applicativi direttamente impugnati, e della inimpugnabilità da cui i primi sono talvolta caratterizzati – il punto allora diventa stabilire in generale le modalità tecniche con le quali giungere a tale risultato; tutto questo tenendo presente che deve comunque valere il principio della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, cioè il principio per cui il giudice, nei limiti che si preciseranno, resta vincolato ai motivi di ricorso fatti valere dalla parte, con l’esclusione della possibilità di prendere in esame d’ufficio motivi non addotti dal ricorrente[132].

Tale vincolo comporta in via generale che il giudice – fermo restando il principio jura novit curia – potrà prendere in esame solo quei profili d’illegittimità del provvedimento che il ricorrente abbia dedotto a base del suo ricorso. Di conseguenza, nel caso in cui sia impugnato un atto che trovi il proprio precedente o presupposto in un altro atto del quale sia affermata l’illegittimità, deve ritenersi che il giudice non possa procedere d’ufficio all’accertamento incidenter di profili d’illegittimità dell’atto presupposto non rilevati dal ricorrente[133].

Limitazione, questa del giudice, che ha bisogno però di essere in qualche modo ridimensionata, perché "la natura dispositiva del processo…si collega sempre con il principio jura novit curia, il quale, deducibile che sia dal sistema nel suo complesso, o dal solo art. 113 c.p.c. che impone al giudice di <<seguire le norme del diritto…>>, caratterizza sempre l’attività di ogni giudice"[134].

In sostanza, la necessità che il chiesto corrisponda al pronunciato non esclude che i giudici, civili o amministrativi, "debbano…interpretare le disposizioni sulle quali si fondino le domande o i ricorsi…; debbano altresì tenere conto di tutto il restante materiale normativo, suscettibile di incidere sulla fondatezza di quelle domande, così come prospettate. Ed è in questi termini che l’imperativo jura novit curia si riafferma sotto i più vari profili e ai più vari effetti"[135].

Da altro punto di vista, è possibile rilevare non soltanto che "l’opera del giudice consiste in una continua tessitura dal fatto al diritto, e viceversa", cioè dai fatti "dai quali si vogliono dalle parti far derivare certe conseguenze di diritto (questione di fatto)" al "diritto di cui viene richiesta l’applicazione a quei fatti (questione di diritto)", ma anche che "il diritto entra, nel processo amministrativo di impugnazione, quale elemento costitutivo del vizio-motivo, e quindi come un fatto affermato dal ricorrente al pari dei fatti che concretano la asserita violazione della fattispecie normativa: la indicazione della norma che si assume violata, infatti, delimita, insieme con l’indicazione dei fatti violatori, il vizio-motivo"[136]. Inoltre il giudice non deve riconoscere semplicemente la norma da applicare – la cui scelta spetta al ricorrente – ed interpretare il ricorso, per individuare la fattispecie normativa cui si intende fare riferimento. Infatti, "l’opera di interpretazione non consiste soltanto nel rettificare le errate indicazioni da parte del ricorrente delle disposizioni che si assumono violate, o nel supplire alla mancanza o incompletezza di tali indicazioni", perché "il giudice può e deve, addirittura, <<estrarre>> dal ricorso le fattispecie normative che, secondo il punto di vista del ricorrente, interessano la specie…"[137]. Questo perché "i motivi di ricorso concorrono…a delimitare ciò che il giudice deve conoscere, non ciò su cui il giudice deve decidere, cioè l’oggetto del giudizio". Infatti, "la funzione dei motivi è soltanto quella di individuare il materiale che il giudice può porre alla base della propria decisione", dovendo intendersi così "il vincolo del giudice ai motivi di parte,… espressione del principio dispositivo, e la regola della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato"[138]. La naturale conseguenza è che, "ove si ravvisi la difformità tra provvedimento e legge, tanto basta per radicare correttamente la domanda, anche se nel ricorso il regolamento viene del tutto ignorato"[139]. Anche perché, "così facendo, il giudice non si sostituisce al ricorrente nella scelta della norma, ma sviluppa tutte le implicazioni della denuncia dello stesso ricorrente e mette allo scoperto l’intera trama del diritto di cui si richiede l’applicazione all’unitario episodio di vita esposto…"[140]. Torna poi utile Abbamonte, secondo cui "l’art. 6 n. 3 del regolamento di procedura n. 642 del 17/8/1907 è sufficientemente espressivo nel senso di individuare nelle questioni proposte dal ricorrente l’oggetto dell’accertamento del giudice amministrativo, richiedendo esso <<l’esposizione sommaria dei fatti, i motivi su cui si fonda il ricorso con la indicazione degli articoli di legge o di regolamento che si ritengono violati e le conclusioni>>"[141].

Diversi invece sono i casi che vedono la presenza di controinteressati, in relazione ai quali bisogna operare una distinzione. Può innanzi tutto darsi il caso in cui il ricorrente impugni un provvedimento affermando che questo, pur perfettamente conforme ad un atto da esso presupposto, ad esempio una disposizione regolamentare, o un atto normativo generale, sia però in contrasto con una norma superiore; in tal caso la disapplicazione andrà a suo vantaggio, e il giudice dovrà semplicemente accertare la fondatezza o meno delle sue affermazioni, verificando se i profili di illegittimità, da questo denunciati con riferimento allo specifico provvedimento, non siano concretizzati e resi fondati proprio dall’esame dell’atto presupposto, che si riveli appunto illegittimo[142]. Al contrario, nel caso in cui il ricorrente (che ad esempio impugni una concessione edilizia) fondi il proprio ricorso sul presunto contrasto dell’atto impugnato con l’atto presupposto (ad esempio il p.r.g.), la disapplicazione andrà a vantaggio dell’amministrazione resistente e degli eventuali controinteressati, e "il giudice amministrativo potrà invece anche d’ufficio, senza cioè che occorra una eccezione ad hoc dell’amministrazione resistente o del controinteressato, prendere in esame quei profili d’illegittimità dell’atto presupposto, il cui accertamento conduce alla dichiarazione d’infondatezza del motivo"[143].

D’altra parte, il principio jura novit curia non può non comportare per il giudice il potere-dovere di verificare sempre, d’ufficio, il contrasto tra atto presupposto e legge, se ed in quanto il primo sia un atto normativo, come è appunto nel caso dei regolamenti o dei P.R.G.[144]. Questo discorso dell’esame ex officio varrà ovviamente solo nei casi in cui l’atto presupposto – citato dal ricorrente come legittimo per affermare il contrasto con esso e quindi l’illegittimità dell’atto da lui impugnato – risulti poi illegittimo sotto gli specifici profili cui il ricorrente stesso ha fatto riferimento. Così, se il ricorrente adduce che la concessione edilizia è illegittima sotto un certo profilo, in quanto l’amministrazione, nel rilasciarla, non ha ottemperato ad una certa prescrizione del piano regolatore, bene eventualmente fa il giudice a sindacare anche d’ufficio quella specifica prescrizione, e, ritenutala illegittima, a desumerne conseguentemente la legittimità della concessione e l’infondatezza del ricorso, proprio perché l’amministrazione correttamente non si era attenuta all’illegittima prescrizione[145]. Di contro, invece, perché possa essere rilevata dal giudice l’illegittimità dell’atto presupposto anche sotto profili diversi da quelli rispetto ai quali il ricorrente ha specificamente denunciato la difformità dell’atto impugnato, dovrà essersi in presenza di una "eccezione" del soggetto interessato[146].

Per quanto riguarda poi il vincolo che alla p.a. deriverebbe comunque dal giudicato, non sembra condivisibile che "la illegittimità dell’atto – rilevata ex officio al di fuori di specifiche censure – vale a privare, il ricorrente, della possibilità di <<guidare>> l’impugnativa verso una pronuncia fonte di <<normae agendi>> e di <<vincoli>> puntualmente aderenti al suo interesse"[147]. Infatti, il sindacato che il giudice compie sulla legittimità della norma regolamentare, però, non può essere in ogni caso un sindacato d’ufficio tout court, ma deve avere luogo nei limiti consentiti, con la conseguenza che l’accertamento di illegittimità, sebbene non passi in giudicato in quanto compiuto incidenter tantum, obbliga comunque l’amministrazione, quanto meno nel senso di non riemettere un atto dal contenuto analogo[148].

16. – La disapplicazione sia come riflesso processuale del principio di gerarchia delle fonti sia come istituto legato all’inapplicabilità. La disapplicabilità anche di atti diversi dalle fonti normative secondarie, e la rilevabilità di qualsiasi vizio di legittimità. – Una volta stabilito il potere-dovere per il giudice di rilevare, nei limiti precisati, l’illegittimità di atti presupposti anche quando tale censura non sia stata esplicitamente sollevata, può restare da chiarire il tipo di rapporto intercorrente tra il principio jura novit curia, quello di gerarchia delle fonti, e la disapplicazione degli atti amministrativi, di cui finora si è trattato[149].

Questo perché si è di recente affermato in dottrina che quando il giudice, anche quello amministrativo, risolve un conflitto tra due norme, applicando la norma superiore, in realtà non di vera disapplicazione si tratterebbe, bensì di semplice applicazione del criterio gerarchico[150].

La verità è che tale impostazione è finalizzata ad eliminare alla radice il problema della disapplicazione, puntando sulla gerarchia delle fonti, affermando che quando il giudice rileva l’illegittimità di un provvedimento amministrativo per il contrasto tra la disposizione regolamentare sulla quale esso si fonda e la legge che regola la stessa materia, non sarebbe corretto parlare di disapplicazione, perché "l’operazione…si risolve in un semplice strumento di composizione del contrasto esistente fra norme di rango diverso, da attuarsi nel rispetto dei criteri di prevalenza e di coordinamento postulati dal principio di gerarchia delle fonti". Vale a dire, che "il fenomeno…disvela la sua vera natura di mero processo ermeneutico di rilevazione del diritto vigente che viene assunto come regola di giudizio per la definizione della controversia"[151]. Si precisa poi che "il giudice amministrativo può disapplicare la norma regolamentare soltanto quando essa risulti contrastante con la fonte sovraordinata", con la conseguenza che "esula dal sindacato di legittimità esercitabile a tal fine (incidenter tantum) ogni altra tipologia di vizio: e, quindi, non soltanto l’eccesso di potere…, ma anche le violazioni di legge rilevanti sotto il profilo della incompetenza ovvero consistenti nella inosservanza di norme (di azione) che disciplinano il procedimento di formazione del regolamento"[152].

E questo perché "in tal caso non si pone un problema di disciplina sostanziale da applicare al caso concreto (o quella della legge o quella del regolamento), da risolversi attraverso il criterio gerarchico", perché "il vizio di forma si traduce in un contrasto tra la disposizione regolamentare e la legge che stabilisce le regole procedurali di esercizio di tale potere"[153]. Ciò che però risulta subito evidente è che le uniche ipotesi considerate da tali teorie sono quelle in cui l’atto de quo sia un regolamento, mentre invece può sorgere la necessità di disapplicare un atto presupposto diverso, o un atto la cui legittimità pregiudichi in qualche modo quella dell’atto direttamente impugnato (si pensi ad un parere, emesso da un organo collegiale costituito in difformità dalle previsioni di legge, da ritenere illegittimo, come in casi concreti già esaminati). Inoltre, risulta quanto meno riduttivo affermare che nelle ipotesi di violazione di principi, di norme sulla procedura, e delle stesse regole sulla competenza, "…si è in presenza della mera violazione di prescrizioni che la fonte secondaria avrebbe dovuto osservare e che sono state, invece, violate…"[154].

Infatti, non è da trascurare il fatto che l’osservanza di alcune regole ben precise nella formazione di un regolamento sia dettata anche a garanzia della legittimità degli eventuali atti applicativi che dovranno essere poi emanati, come facilmente può affermarsi nel caso in cui la legge preveda, per l’emanazione di un regolamento, l’audizione di un organo consultivo (come può essere il Consiglio di Stato); le norme che prescrivono alla p.a. il rispetto di certe regole, anche la stessa emanazione di un regolamento attraverso un iter procedimentale, non possono essere considerate fini a loro stesse, perché vanno considerate in stretta correlazione con la successiva attività, che potrà legittimamente concretizzarsi solo qualora gli atti presupposti ai quali farà riferimento, implicitamente o meno, possano a loro volta essere considerati del tutto legittimi, anche se non si ponga affatto un problema di conflitto o sovrapposizione con norme sopraordinate disciplinanti la stessa fattispecie[155]. Non bisogna dimenticare che anche un regolamento, per quanto atto normativo, mantiene la peculiarità di essere provvedimento, rilevando anche come atto presupposto, secondo la definizione datane[156].

Quanto all’opinione secondo cui dovrebbe parlarsi di non applicazione della disposizione regolamentare, ma non di disapplicazione in senso proprio, c’è da dire che le due nozioni costituiscono due facce della stessa medaglia. Come precisato in dottrina, "il dovere di disapplicazione della norma soccombente da parte del giudice non è che il riflesso processuale di siffatta norma sulla gerarchia delle fonti". Nel senso che "il conflitto tra due norme di rango diverso, incompatibili,...è in via generale risolto dall’ordinamento mediante l’attribuzione al giudice, ad ogni giudice, del potere-dovere di accertare l’incompatibilità e di negare applicazione alla norma esorbitante dai limiti che altra norma, a ciò abilitata dall’ordinamento, le imponga"[157]. Vale a dire che "la disapplicazione della norma regolamentare non è altro che la non applicazione della stessa siccome contraria alla norma di legge", venendone disconosciuti gli effetti nel caso singolo, mentre sembra limitativo affermare che ciò avvenga "sulla base del solo principio della gerarchia delle fonti"[158].

Oltretutto, tale posizione sembra compatibile anche con il concetto di inapplicabilità, come categoria sostanziale, a suo tempo espresso, laddove si è precisato che la disapplicazione implica l’esistenza della inapplicabilità, e viceversa, nel senso che è sufficiente che l’ordinamento stabilisca le condizioni legali perché un atto sia considerato illegittimo, affinché se ne possa dedurre l’esistenza di uno stato sostanziale di inapplicabilità e il correlativo potere di disapplicazione da parte di qualsiasi giudice. Come si è chiarito, infatti, l’inapplicabilità consiste nella condizione precaria degli effetti dell’atto viziato, cioè nella possibile irrilevanza dei medesimi. Considerazioni, queste, che valgono pienamente anche per atti caratterizzati dal fatto di essere dei veri e propri atti normativi, inseriti in un sistema di gerarchia di fonti[159].

17. – I limiti soggettivi ed oggettivi delle sentenze che annullano anche l’atto presupposto. – Le conseguenze più immediate del richiedere la contestuale impugnazione dell’atto impugnato e di quello che ne costituisce il presupposto, sono innanzi tutto quelle di allargare i limiti soggettivi di efficacia del giudicato, specie quando l’atto presupposto in questione è un regolamento. Atti simili, infatti, si presentano il più delle volte come atti generali, non scindibili in atti singoli, che stabiliscono in termini generali le modalità della successiva condotta dell’amministrazione, senza incidere immediatamente e direttamente su interessi sostanziali.

Il problema sorge sotto due profili ben distinti, per quanto connessi, innanzi tutto perché l’annullamento di tali atti amministrativi ha efficacia erga omnes ed ex tunc, e poi perché si pone il problema della sorte degli atti consequenziali o che in quella disposizione trovavano il loro presupposto. Per quanto riguarda il primo profilo, la disposizione regolamentare annullata può riguardare una pluralità di cittadini anche molto vasta, interessati dalla stessa disciplina. "Il problema non è soltanto di limiti soggettivi del giudicato amministrativo, il quale resta rilevante solo per le parti del processo, ma di presenza o meno dell’atto, oggetto dell’annullamento, come fattispecie giuridica"[160], nel senso che la pronuncia di annullamento di un atto è, per la sua stessa natura, una decisione che non può che avere una rilevanza erga omnes, in relazione al fatto che un atto o esiste oppure non esiste, ma in quest’ultimo caso deve essere considerato non esistente per tutti i soggetti coinvolti nella produzione dei suoi effetti tipici[161]. Nel caso quindi di una disposizione regolamentare, il cui contenuto sia da considerare di carattere generale e indivisibile, se di essa viene pronunciato l’annullamento a seguito della sua impugnazione insieme al provvedimento applicativo, tale annullamento travolgerà la disposizione, che non potrà più essere considerata sussistente per alcun soggetto[162].

È pertanto infondata la posizione per cui "se anche la disposizione regolamentare deve essere annullata, ciò nonostante gli effetti di tale annullamento rimangono limitati al solo ricorrente", chiamando in termini diversi una vera e propria disapplicazione[163].

Ovviamente questo discorso non può essere considerato valido anche per i provvedimenti cosiddetti plurimi, nei quali si trova un provvedimento solo formalmente unitario, mentre da un punto di vista sostanziale esso si scinde in tanti provvedimenti quanti sono i destinatari[164]. In casi del genere, ciascuno degli atti contestuali conserva la propria individualità e non lega la propria sorte a quella degli altri, per cui l’annullamento colpisce soltanto la disposizione che incide sull’interesse del ricorrente, lasciando sopravvivere il provvedimento plurimo in ordine alle altre disposizioni riguardanti soggetti diversi, che non abbiano proposto ricorso[165].

Interessante il rilievo per cui "l’annullamento di un regolamento può giovare ai cointeressati e danneggiare i controinteressati (a volte futuri e quasi sempre non individuabili), ma, mentre l’effetto estintivo è superfluo per i cointeressati, che potrebbero comunque avvalersi dell’autorità del precedente per sostenere in un nuovo giudizio un’interpretazione a loro favorevole, i controinteressati si vedrebbero pregiudicati, senza aver potuto spiegare alcuna difesa. Essi potrebbero oggi…ricorrere all’opposizione di terzo, ma con la probabile conseguenza di lasciare indefinitamente incerta anche la situazione giuridica dell’originario ricorrente, la quale…subirebbe gli effetti negativi di una riforma della decisione di annullamento"[166].

Tale ultimo aspetto, peraltro, ne fa emergere anche un altro, perché in giurisprudenza si afferma che "l’annullamento, disposto da sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato, di atti presupposti, comporta l’annullamento per illegittimità derivata degli atti consequenziali, adottati sulla base di quelli annullati"[167], ovvero che "la sentenza d’annullamento del provvedimento…ha effetto caducante nei confronti di tutti gli atti che in quello annullato trovano il loro antecedente necessario", con la conseguenza che "il ricorrente vittorioso non è tenuto…ad impugnare gli atti consequenziali, né ha l’onere di ricercare tutti i c.d. <controinteressati successivi> – ossia quei soggetti che, per effetto di quegli atti medesimi, vengono a trovarsi in una situazione giuridica di vantaggio – pur se la mancata impugnazione può determinare l’eventuale opposizione di terzo proprio da parte di questi soggetti che non hanno partecipato al giudizio sul provvedimento antecedente e vengono privati del loro vantaggio in virtù dell’annullamento di quest’ultimo (…)"[168].

Certo è che, se non proprio l’automatica caducazione, come sostenuto in giurisprudenza, l’annullamento della disposizione regolamentare, ovvero dell’atto presupposto in generale, deve ritenersi possa comportare, quanto meno, l’invalidità anche degli altri atti di applicazione emanati precedentemente nei confronti di altri soggetti, e da questi non tempestivamente impugnati[169], dimodochè la cerchia di soggetti che vengono ad essere interessati dalla pronuncia di annullamento si allarga ulteriormente, e il problema dei limiti soggettivi di efficacia delle sentenze di questo tipo si intreccia con quello dei limiti oggettivi. È chiaro che l’atto applicativo, anche se non tempestivamente impugnato, non può comunque, in astratto, essere considerato legittimo, in quanto emanato sul presupposto della esistenza di un atto non più esistente[170].

Per chiarire ancora meglio a quali inconvenienti conduce l’annullamento dell’atto presupposto, basta riflettere su alcuni problemi di ordine pratico, ad esempio quello "della sorte degli effetti giuridici già prodotti da fattispecie verificatesi prima dell’annullamento della norma regolamentare"[171]. Fermo restando che il problema potrebbe porsi in termini analoghi anche per fattispecie non ancora esaurite al momento dell’annullamento, perché l’amministrazione potrebbe rifiutarsi di annullare i singoli atti di applicazione della norma nei confronti di quei soggetti rimasti estranei al giudizio, o che si erano visti dichiarare per varie ragioni il ricorso irricevibile o inammissibile. Nei confronti di tali soggetti potrebbe peraltro essere già intervenuto un giudicato che abbia ritenuto legittimo l’atto applicativo che li riguardava.

Un esempio molto illuminante delle possibili disparità di trattamento che il rifiuto di disapplicare comporta, è dato dalla ipotizzabilità di tre ricorsi, uno solo dei quali provvede ad impugnare contestualmente l’atto direttamente lesivo e la disposizione regolamentare, mentre gli altri due si limitano ad impugnare l’atto applicativo. Si supponga che uno di questi due ricorsi venga deciso con una pronuncia di inammissibilità dei motivi che investono la disposizione regolamentare non impugnata, e che il primo (quello rivolto contro entrambi gli atti) venga accolto, essendo stato riscontrato illegittimo l’atto presupposto; l’altro, soltanto perché, nelle more, non ancora deciso per un qualsiasi motivo, verrebbe accolto anch’esso, essendo nel frattempo intervenuto, con efficacia erga omnes, l’annullamento della norma regolamentare[172].

18. – Il presunto trasferimento di competenza, nell’impugnazione contestuale di atti presupposti e applicativi. – C’è poi un ulteriore aspetto, vale a dire quello riguardante la competenza territoriale a conoscere sia l’atto presupposto che quello attuativo, quando il primo sia un atto normativo generale emanato da un organo centrale e il secondo un atto emanato da un organo periferico[173].

Il problema sorge in relazione al contrasto che viene a crearsi tra l’esigenza di una trattazione unitaria della questione e la possibile diversa competenza di altri Tar, poiché, come è noto, il giudizio relativo a ricorsi che siano rivolti ad atti generali, emanati da organi centrali ed efficaci su tutto il territorio nazionale, è devoluto in via esclusiva, ai sensi del 3° comma dell’art. 3 della legge 1034/1971, al Tar del Lazio, mentre l’impugnazione di provvedimenti di organi periferici dello Stato, generali o particolari che siano, ricade nella sfera giurisdizionale del Tar nel cui territorio si trovano gli organi medesimi[174].

In considerazione del fatto che una pronuncia del Tar locale che annullasse anche l’atto presupposto generale esplicherebbe effetti che travalicherebbero l’ambito della propria circoscrizione territoriale – incidendo peraltro nella sfera giuridica di altri soggetti, che risiedono magari in circoscrizioni territoriali di altri Tar, e prospettando così il rischio di eventuali giudicati contraddittori – la giurisprudenza si è orientata a ritenere che "nel caso in cui, impugnati contestualmente due atti, l’uno di portata locale e l’altro ad efficacia ultraregionale, si assuma illegittimo il primo anche per vizio derivato dall’illegittimità dell’atto generale presupposto, la competenza a conoscere dell’intera controversia spetta al Tar del Lazio, non essendo consentito, in sede di regolamento preventivo, nè verificare l’effettiva esistenza del dedotto rapporto di presupposizione tra i due atti con riguardo all’oggetto immediato del giudizio, nè tanto meno sindacare il merito delle censure proposte; situazione identica si verifica quando, attraverso un’impugnazione incidentale, sia portata all’esame del giudice di merito una questione più ampia di quella prospettata coi motivi del ricorso originario, ponendosi in discussione la legittimità di un atto di organo centrale dello Stato che disciplini, in via generale ed astratta, una fase essenziale del procedimento seguìto in sede periferica"[175]. Basta quindi la proposizione di un regolamento di competenza perché il giudice, se da una parte non può stralciare il giudizio di sua competenza relativo agli atti impugnati aventi efficacia nella sua circoscrizione territoriale – perché nell’ipotesi considerata deriverebbero la propria illegittimità dall’atto generale presupposto, e la competenza a conoscere anche di essi sarebbe quindi del Tar del Lazio – dall’altra non può estendere il suo potere di annullamento all’atto presupposto[176].

Emerge allora che, "ove il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla soluzione di una questione di legittimità relativa ad un atto che il ricorrente non poteva impugnare prima dell’emanazione di quello, che forma oggetto dell’impugnazione principale, il giudice amministrativo (anche se la questione pregiudiziale in via principale sarebbe stata di competenza di un giudice diverso) dovrebbe poter decidere incidenter tantum sulla questione stessa"[177], con la conseguenza che "la semplice richiesta di disapplicazione di un atto amministrativo generale, non impugnato, lascia ferma l’ordinaria competenza del Tar competente per territorio"[178].

19. – L’annullamento dell’atto come misura non necessaria per la tutela delle situazioni soggettive: la pretesa del ricorrente e l’assetto di interessi. – La verità è che il tradizionale orientamento giurisprudenziale, che esclude la disapplicazione, non è affatto conforme alla concezione che ormai è comunemente acquisita anche in dottrina circa la natura e la funzione della giurisdizione amministrativa, intesa cioè come posta a tutela degli interessi sostanziali dei ricorrenti. Infatti, "ormai il processo amministrativo è stato pienamente ricostruito come processo di parti, come tale volto a tutelare situazioni giuridiche soggettive parzialmente protette da una norma che disciplina congiuntamente anche le correlate potestà discrezionali dell’amministrazione"[179].

Ritenendo che unico scopo del ricorso sia quello di ottenere l’annullamento dell’atto impugnato, e del processo quello di annullare l’atto, si giunge ad una concezione del giudizio stesso squisitamente formalistica, consentendo alla p.a., spesso, di rinnovare la lesione o di eludere il contenuto effettivo e logico della sentenza. "Senonchè la natura impugnatoria del giudizio non consente deduzioni siffatte, come ormai pacificamente si ammette", tenendo oltretutto presente che "l’articolazione dei rapporti tra le parti, per cui la controversia tra loro si svolge nella forma dell’impugnazione proposta contro la pretesa di una e nel rispetto di un termine di decadenza, non è affatto peculiare al rapporto tra cittadini ed amministrazione", con riferimento, ad esempio, alle delibere assembleari, comprese quelle condominiali, le transazioni, il licenziamento: tutti atti soggetti ad impugnativa entro un breve termine di decadenza.

In tutti questi casi, ciò che formalmente, viene chiesto al giudice, è l’annullamento dell’atto impugnato, ma è chiaro che, dal punto di vista sostanziale, la pretesa del ricorrente va oltre, perché, "attraverso la richiesta di annullamento, viene in realtà invocata una diversa disciplina del rapporto: esattamente del resto come, resistendo a tale domanda, si chiede che venga accertata l’esattezza dei presupposti di fatto e di diritto su cui l’atto impugnato…si fondava, e che venga dunque dichiarato che quella è la regola iuris del rapporto", con la conclusione che "nei confronti dell’amministrazione non accade nulla di diverso". In altri termini, "l’annullamento altro non è che la forma obbligata che assume la sentenza…che accoglie il ricorso del privato….La sentenza, per il fatto stesso di accertare il fondamento o l’illegittimità di una pretesa dell’amministrazione, detta la disciplina dei rapporti tra le parti, nel senso che in ogni caso nessuno può sottrarsi alla statuizione che essa reca. Il vincolo per le parti è identico, sia che si tratti di esercitare nuovamente il potere discrezionale, sia che si tratti di determinare i comportamenti conseguenti al rigetto del ricorso"[180].

Non solo, ma che il processo sia da intendere a tutela di situazioni soggettive è dimostrato da tutta un’evoluzione giurisprudenziale nel modo di concepire una serie di istituti processuali e di problematiche, a cominciare dalla tutela cautelare, all’istruzione, al giudizio di ottemperanza, al sindacato sulla motivazione dei provvedimenti, al riconoscimento di un interesse a ricorrere anche solo morale, ecc. In altri termini, tutta una serie di indici importanti a conferma di una nuova concezione del processo amministrativo, non più come mero processo di impugnazione, ovvero strumento di verifica della legittimità (formale) dell’atto impugnato, ma mezzo di controllo sull’attività discrezionale svolta dalla p.a., previsto per risolvere i conflitti che nascono tra quest’ultima ed i cittadini o, addirittura, tra amministrazioni diverse[181].

Fermo restando, comunque, che la disapplicazione, come strumento processuale, si manifesta indispensabile anche ritenendo il processo amministrativo come puro giudizio impugnatorio. Infatti, ogni provvedimento amministrativo rappresenta l’esercizio di una specifica potestà amministrativa, la quale consiste nel dare un certo assetto all’interesse che la p.a. intende perseguire e agli interessi, pubblici e privati, eventualmente coinvolti. Ed allora, quando un privato ritiene illegittimamente lesa una sua situazione giuridicamente garantita, avente i caratteri dell’interesse legittimo, si ha che "il ricorrente critica l’assetto conferito agli interessi, ne propone un altro, e chiede al giudice di farlo proprio ed imporlo all’amministrazione". In tal modo, il giudizio amministrativo si conferma un giudizio su un conflitto sostanziale di interessi, poiché "la sentenza amministrativa non si limita ad eliminare l’atto, ma necessariamente si pone come attività di identificazione del corretto modo di esercizio del potere (idest, del corretto assetto di interessi) e cioè come regola del comportamento futuro dell’amministrazione"[182]. L’unica conseguenza di tutto questo è che, "divenuto inoppugnabile un provvedimento, non si può chiedere quella tutela che si sarebbe potuto chiedere tempestivamente, poiché, in tal modo, gli interessi avvantaggiati a causa dell’inoppugnabilità risulterebbero messi in discussione"[183].

Ma se la giurisdizione amministrativa è posta a tutela degli interessi soggettivi, questi, oltre a costituire un presupposto essenziale per ricorrere, delimitano anche lo stesso ambito di realizzazione del processo, nel senso che se il giudice amministrativo può intervenire solo quando vi sia stata una lesione di interessi, dovrebbe allo stesso tempo intervenire solo nei limiti di quanto sia necessario al fine di tutelare la specifica situazione soggettiva di cui è stata lamentata la lesione[184]. Infatti, "una volta superata la teoria dell’atto amministrativo come oggetto del giudizio e fatto riferimento al rapporto giuridico controverso o alla pretesa del ricorrente, non si può spingere la regola sull’indicazione dell’atto impugnato fino ad includervi necessariamente a pena di inammissibilità gli atti presupposti, ma è alle questioni proposte che bisogna fare riferimento per mettere le basi di un definitivo regolamento di rapporto con l’amministrazione"[185]. In sostanza, ritenendo necessario annullare anche l’atto presupposto, il giudice amministrativo adotta delle misure non necessarie al fine della tutela della situazione dedotta a base del ricorso, inducendo a concludere che la lesione dell’interesse costituisca solo un presupposto del ricorso, ma non il fondamento della decisione. Vale a dire che l’annullamento della disposizione regolamentare è funzionale ad interessi che non sono quelli del ricorrente, ma, semmai, a quelli di altri soggetti, cui la stessa disposizione potrebbe essere applicata successivamente dall’amministrazione, e, più in generale, all’osservanza del diritto obbiettivo in quanto tale e della legalità degli atti amministrativi[186].

20. – La disapplicazione nelle materie di giurisdizione esclusiva. Gli atti paritetici e l’assenza di termini di decadenza. – A completamento dello studio finora svolto, si rivela necessaria l’analisi di come il problema della disapplicazione si atteggi nelle materie oggetto di giurisdizione esclusiva, per il semplice fatto che anche in questo tipo di fattispecie si riscontrano pronunce secondo le quali "il giudice amministrativo non può…, in mancanza di espressa e rituale impugnativa, disapplicare in via incidentale norme regolamentari ritenute illegittime"[187]. Altrimenti, si precisa che "l’istituto della disapplicazione…è ammissibile solo nell’ipotesi di norma regolamentare in contrasto con una fonte normativa superiore, quando la norma regolamentare stessa e l’atto applicativo risultino lesivi di una posizione di diritto soggettivo"[188].

In sostanza, da una parte si sostiene che il giudice amministrativo non possa disapplicare, dall’altra si precisa talvolta che ciò possa accadere – in forma di eccezione, ma con i limiti di cui si dirà tra breve – quando sia funzionale alla tutela di diritti soggettivi. Ora, se il divieto di disapplicare posto al giudice amministrativo non è compatibile, come si crede di avere finora dimostrato, con le caratteristiche in generale del processo amministrativo, a prescindere cioè dal tipo di giurisdizione esercitata, a maggior ragione tale incompatibilità emerge nei casi di giurisdizione esclusiva. Infatti, poiché ciò che di solito viene sostenuto è che ammettendo la disapplicazione di atti non tempestivamente e ritualmente impugnati si consentirebbe al soggetto di eludere i termini di decadenza per essi previsti, tale preclusione non dovrebbe evidentemente sussistere quando termini per ricorrere non ve ne siano. Fermo restando che la "…concentrazione presso un unico giudice di tutte le controversie concernenti una determinata materia, indipendentemente dalla natura delle situazioni soggettive di cui si invoca la tutela",…non esime il giudice dal verificare se ci si trovi in presenza di diritti o di interessi"[189].

In altri termini, anche quando la giurisdizione sia attribuita in via esclusiva al giudice amministrativo, si dovrà accertare se si sia o meno in presenza di esercizio di qualche forma di discrezionalità – di fronte alla quale vi saranno interessi legittimi, da tutelare nei normali termini di decadenza – oppure se l’amministrazione sia invece del tutto vincolata, in presenza di diritti soggettivi il cui contenuto sia stabilito dalla legge[190].

Il problema diventa allora quello di stabilire se vi siano valide ragioni per le quali il giudice amministrativo debba trovare, nelle materie di giurisdizione esclusiva, gli stessi limiti che gli si attribuiscono di solito nella giurisdizione generale di legittimità, o, addirittura, limiti ulteriori e diversi, strettamente legati al fatto che conosce anche di diritti soggettivi; o non possa, invece, esercitare anch’egli, in una posizione quasi rafforzata proprio dalla previsione stessa dell’esclusività della giurisdizione, il potere di disapplicazione[191].

Infatti, le stesse deroghe che vengono ritenute ammissibili al generale divieto di disapplicare, in relazione alla tutela di diritti soggettivi, vengono poi notevolmente ridimensionate, al momento in cui si afferma che il giudice amministrativo, laddove conosca di diritti soggettivi, debba trovare gli stessi limiti che sarebbero da riconoscere al giudice ordinario: tenendo cioè presente la necessità di accertare l’esistenza, in capo all’amministrazione, del potere di "degradare" diritti soggettivi direttamente attribuiti dalla legge. "In questo caso difatti, ove nella materia non vi fosse l’istituzione di una giurisdizione esclusiva, il giudice ordinario, se adìto per l’accertamento della pretesa del soggetto, dovrebbe declinare la propria giurisdizione…"[192], con la conseguenza di riconoscere a tutti i provvedimenti amministrativi il carattere dell’autoritarietà, e la connessa insorgenza dell’onere di impugnazione a carico del cittadino.

Il fatto è che se si ritiene che sia sufficiente la mera titolarità del potere perché il diritto soggettivo venga degradato, il giudice ordinario, nella normalità dei casi, non sarà neppure competente a conoscerne[193]. Anzi, se si considera che con tale orientamento il giudice ordinario "si limita…a verificare l’esistenza del potere, trattenendo a sè le controversie nelle quali il diritto risulti leso da un atto nullo dell’amministrazione, la disapplicazione si dissolve nella constatazione dell’inesistenza dell’atto amministrativo,…e dunque, se si vuole dar un senso all’istituto, come mera affermazione della giurisdizione"[194], "per il che non occorreva una norma appositamente autorizzativa"[195].

è chiaro quindi che la necessità di distinguere le situazioni giuridiche è accettabile solo ritenendo che il giudice amministrativo non incontri i limiti che si vorrebbero invece affermare, potendosi quindi recepire solo in questo senso l’affermazione secondo la quale il giudice amministrativo, in sede esclusiva, dovrebbe comportarsi "come erede del giudice ordinario, se si tratta di diritti, e come giudice di legittimità, se si tratta di interessi"[196]. Ritenendo invece esistenti quei limiti, il privato godrebbe di una tutela inferiore a quella che sul medesimo diritto sarebbe in grado di fornirgli il giudice ordinario, atteso che di fronte ad esso potrebbe lamentare l’assoluta carenza di potere, mentre nei casi trattati l’atto è ritenuto comunque autoritativo, pur in assenza di termini di decadenza. Ecco perché si è affermato che "quando l’ordinamento ha previsto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo,…è coerente con i principi generali dell’ordinamento stesso assicurare al predetto giudice…l’esercizio di quei poteri che l’art. 5…attribuisce al giudice ordinario"[197].

Anche perché, bisogna dire, dal punto di vista della possibilità giuridica di esercitare il potere di disapplicare non è riscontrabile alcuna differenza tra giurisdizione generale di legittimità e giurisdizione esclusiva, perché entrambe sono semmai accomunate dall’essere esplicazione della funzione giurisdizionale nel suo complesso, e dal principio del rispetto della legge, pur nell’osservanza dei principi tecnico-giuridici che governano il processo amministrativo, secondo i criteri indicati[198]. Nella giurisdizione esclusiva è anzi possibile individuare, come già accennato, degli ulteriori elementi che rafforzano l’esigenza di disapplicare, in relazione al contenuto stesso dei diritti in gioco ed alla natura dei provvedimenti[199].

L’impostazione prospettata, oltretutto, sembra poi avvalorata anche dai più recenti orientamenti legislativi, che valorizzano la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo come momento di sindacato in generale dell’esercizio della discrezionalità amministrativa, anche a prescindere dall’esistenza o meno di un atto. Così, ad esempio, nella disciplina introdotta dagli artt. 33-35 del D. Lgs.vo 80/98, che, nel devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo una serie di materie, in settori nevralgici dell’attività della pubblica amministrazione, precisa che, in talune fattispecie (urbanistica ed edilizia), tale giurisdizione riguarderà "le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche…", e che in tutte le materie previste dai suddetti articoli potrà disporre, " anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto", nonché "l'assunzione dei mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile…". Tutte previsioni, queste, che ovviamente presuppongono un generalizzato potere disapplicativo del giudice amministrativo in quelle materie, considerato che potrebbe dover disapplicare un atto direttamente lesivo di situazioni giuridiche soggettive qualificabili come diritti soggettivi[200].

La disapplicazione, allora, si conferma, nel giudizio ordinario di legittimità così come nella giurisdizione esclusiva, strumento insostituibile di tutela e di realizzazione di giustizia sostanziale, conforme alle regole del processo amministrativo.

Conclusioni. L’esame delle varie e complesse questioni esaminate nel corso del presente lavoro ha fatto emergere una serie di aspetti, strettamente connessi gli uni con gli altri, che consentono a questo punto di delineare un quadro dell’argomento trattato.

L’esistenza di un principio generale della disapplicazione è rilevabile sia come contenuto dell’art. 5 della legge abolitiva, sia come contenuto dell’ordinamento giuridico italiano. Sotto quest’ultimo aspetto, si è visto che tale rilevazione avviene sotto due profili diversi, sebbene connessi: dall’esame dei principi generali dell’ordinamento stesso (significativa anche la riaffermazione del potere di disapplicare del giudice ordinario in materia di controversie di lavoro con pubbliche amministrazioni), e come principio introdotto ed imposto dall’ordinamento comunitario.

Oltretutto, come si è visto, la necessità di riconoscere che la disapplicazione in quanto tale trovi accoglimento come principio generale in ogni tipo di processo deriva, oltre che dalla constatazione del suo significato processuale, in stretto legame con il principio di gerarchia delle fonti, anche dalla rilevazione della sua valenza di carattere sostanziale, con riferimento alla categoria dell’inapplicabilità degli atti amministrativi.

Per quanto riguarda poi più specificamente il processo amministrativo, la necessità della disapplicazione si impone non soltanto da un punto di vista di teoria generale, ma proprio sotto un profilo prettamente tecnico, per le stesse caratteristiche del processo amministrativo, ed imponendosi anzi come un indispensabile strumento di garanzia delle situazioni soggettive, alla cui tutela tale processo è da ritenere finalizzato.

 

 

 

 

[1] Essenziale è prendere spunto dall’opera, tuttora fondamentale, dell’Autore che nel corso del tempo si è occupato più di ogni altro del tema della disapplicazione, vale a dire Cannada-Bartoli, L’inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950, che fornisce degli indispensabili criteri di valutazione sul tema. Come è stato infatti autorevolmente riconosciuto da A. De Roberto, Relazione introduttiva al convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti" (Roma, palazzo Spada, 16 maggio 1997), Torino, 1998, 3, "Cannada-Bartoli…fu il primo, agli albori di questo secondo cinquantennio, a cimentarsi con il complesso tema della disapplicazione, offrendo alla scienza ed alla pratica un contributo che – a distanza di quasi mezzo secolo – resta fondamentale nella materia".

[2] Così, fra le tante, Cons. St., sez. V, 10 luglio 1948, n.500, in questa rivista, 1949, I, 2, 110; Id., sez. V, 28 giugno 1952, n.1032, in Giur. it., 1953, III, 72; Id., sez. V, 12 settembre 1992, n.782, in questa rivista, 1992, 1916; in termini generali, sul fatto che la disapplicazione di atti è "preclusa nel giudizio di legittimità", Id., sez. V, 19 febbraio 1998, n. 1253, in Cons. St., 1998, I, 246. In dottrina v. Del Pozzo, Decorrenza del termine, lesione dell’interesse e disapplicazione dell’atto nel diritto processuale amministrativo (nota a Cons. St. sez. V, 1° marzo 1952, n. 340), in questa rivista, 1952, I, 2, 146. Reputa "insufficiente" l’argomento descritto Domenichelli, Giurisdizione esclusiva e disapplicazione dell’atto amministrativo invalido, in Jus, 1983, 172; l’argomento è criticato anche da R. Alessi, Spunti in tema di pregiudizialità nel processo amministrativo, in Il processo amministrativo, Milano, 1979, 7.

[3] Cfr. Domenichelli, op. cit., 172. In giurisprudenza si è affermato che "la censura diretta a sostenere che detto giudice ha erroneamente disapplicato l’atto amministrativo illegittimo, esercitando un potere conferito soltanto all’autorità giudiziaria ordinaria, attiene non ai limiti esterni delle attribuzioni giurisdizionali, ma alla correttezza dell’esercizio in concreto di tali attribuzioni…": Cass., sez. un., 5 dicembre 1987 n. 9093, in Tar, 1988, II, 1202. Contra, v. L. Piccardi, Sulla disapplicazione degli atti amministrativi, in Riv. amm., 1968, 676, il quale afferma che "la possibilità della disapplicazione dell’atto amministrativo è il presupposto del potere giurisdizionale spettante al giudice".

[4] Già Cons. St., sez. IV, 19 giugno 1897, in Giur. it., 1897, III, 245, affermava che "la IV Sezione, nell’esercizio della sua giurisdizione, può sempre conoscere della legittimità dei regolamenti che è chiamata ad applicare". V. anche Id., sez. IV, 22 maggio 1903, in Giur. it., 1903, III, 391, ove si parla di disposizioni regolamentari inefficaci ed inapplicabili; ancora, Id., sez. V, 22 gennaio 1936, n. 68, in Riv. dir. pubbl., 1936, II, 161, dove è possibile riscontrare un espresso riconoscimento dell’applicabilità anche al giudizio amministrativo dell’art. 5.

[5] In Giur. it., 1942, III, 17, con nota di N. Jaeger, Annullamento e disapplicazione di atti amministrativi illegittimi, ivi, che si avrà occasione di riprendere.

[6] Tuttavia, il dato rilevante è costituito dalla considerazione, contenuta nella stessa sentenza, secondo la quale la regola dell’art.5 l. n. 2248, cit., "debba servire di guida alla funzione giurisdizionale in qualsiasi campo del suo esercizio, e, quindi, non solo nell’esercizio della giurisdizione ordinaria civile o penale, ma anche in quello della giurisdizione speciale amministrativa", in quanto "il principio che gli atti amministrativi ed i regolamenti vanno disapplicati ove siano in contrasto con la legge è esigenza fondamentale di ogni forma di giustizia". In dottrina, sostenevano l’affermabilità di un potere generale – e cioè proprio sia del giudice civile che del giudice amministrativo – di disapplicare gli atti contra legem, Mortara, Commentario al codice e alle leggi di procedura civile, I, Milano, s.d, 303; D’Alessio, Le leggi sulla giustizia amministrativa commentate, Torino, 1938, 75 ss.

[7] Così, ad esempio, A. Lugo, La dichiarazione incidentale d’inefficacia dell’atto amministrativo, in Scritti giuridici in memoria di Piero Calamandrei, V, Padova, 1958, 48.

[8] La deroga viene poi spiegata con il principio della divisione dei poteri, che implica la necessità di evitare interferenze del giudice nell’azione amministrativa. Cfr. Ranelletti, Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, Milano, 1934, 334, nonché Chiovenda, Princìpi di diritto processuale civile, 4, Napoli, 1928, 344 ss. Lo stesso Chiovenda, tuttavia, op. cit., 347, pur ammettendo in generale che la giurisdizione civile incontra dei limiti speciali nei confronti dell’amministrazione, ritiene tuttavia che non sia possibile applicare le regole generali, in tema di condanna dell’amministrazione, ove "un atto autonomo amministrativo abbia dato vita a un nuovo rapporto tra amministrazione e cittadino, tale che per giungere alla prestazione si debba prima rimuovere questo rapporto".

[9] Per Vacchelli, La difesa giurisdizionale dei diritti dei cittadini verso l’autorità amministrativa, in Primo trattato completo di diritto amministrativo a cura di V.E. Orlando, III, Milano, 1901, 356, con riferimento al secolo scorso, "in Italia, dalla metà del secolo a questa parte, il così detto principio liberale ha sempre avuto un deciso sopravvento; esso era elemento necessario e tramite per diffondere le idee della unità nazionale; liberalismo e unitarismo si davano la mano e si sorreggevano a vicenda". Montesano, Processo civile e pubblica amministrazione, in trattato del processo civile, diretto da F. Carnelutti, Milano, 1960, 38 ss., 90, e passim, sostiene che non è affatto vero che la legge abolitiva abbia, derogando alle regole generali, posto una serie di limiti particolari ai poteri del giudice ordinario nei confronti della p. a., perchè "quelli che si sogliono definire limiti della giurisdizione civile riguardo al potere esecutivo" sono, "in realtà, i necessari riflessi processuali della soggezione del cittadino alla potestà sovrana dell’amministrazione e all’imperatività degli atti amministrativi, ancorchè illegittimi". Tuttavia, il fatto che un provvedimento, ancorchè illegittimo, degradi, per il semplice fatto di essere emanazione di una "sovrana potestà", il diritto soggettivo coinvolto, è, di per sè solo, un evidente segno di una privilegiata posizione, che differenzia in tal modo l’amministrazione da qualsiasi altro soggetto privato.

[10] Come ricorda Cannada-Bartoli, op. cit., 3, "l’affermarsi delle tendenze liberali non poteva non coincidere con l’affermazione del principio in esame".

[11] Vacchelli, op. cit., 333, 352, 357, afferma che già agli inizi dell’800, all’epoca napoleonica, "la funzione del giudice ordinario apparve come la naturale difesa del diritto del cittadino", anche perché "Stato di diritto significa amministrazione regolata con norme giuridiche, e quindi diritti tutelati e difesi giudiziariamente, sicchè non solo cresceva l’importanza della funzione del giudice, ma veniva, data tale tendenza, ad estendersi progressivamente la competenza di questo, in materie prima lasciate soltanto all’arbitrio dell’amministratore". Secondo l’Autore, infatti, in quel tempo "in Italia si cercò attuare nel modo più completo l’antico concetto dello stato di diritto".

[12] Vale a dire, che soltanto alcune delle incoerenze riscontrabili sono giustificabili con l’applicazione di tale principio, poiché ve ne sono altre che costituiscono senz’altro un di più, e che si giustificano soltanto in un’ottica tendente a far prevalere i poteri dell’amministrazione. "Tutta la tematica originaria…è dominata da una interpretazione malintesa ed eccessiva del principio della separazione dei poteri": Cerulli Irelli, Il problema del riparto delle giurisdizioni, Pescara, 1979, 21. Come ricorda Vacchelli, op. cit., 432, "a chi si prendesse la cura di riscontrare nelle discussioni parlamentari che prepararono la riforma, nei commenti della legge, nei trattati e nelle motivazioni delle sentenze quale è la ragione per la quale furono ammessi i principii sovra esposti, troverebbe che il motivo comunemente addotto a spiegare perché l’atto amministrativo non può essere annullato dai giudici, perché questi non possono apprezzarne il merito,…si trae dal principio della divisione dei poteri dello Stato". Solo che "l’errore da cui sono derivate in pratica tante incertezze sta nell’aver voluto considerare la divisione dei poteri come un principio giuridico preciso e determinato, anziché, qual è in realtà, un principio politico generale, che per funzionare nell’apparato istituzionale ha bisogno di ulteriori determinazioni e sopratutto di essere inteso nella interpretazione che il processo storico del diritto gli ha attribuita".

[13] Così Nigro, Giustizia amministrativa, 4, a cura di E. Cardi e A. Nigro, Bologna, 1994, 66.

[14] Così Sambataro, L’abolizione del contenzioso nel sistema di giustizia amministrativa, Milano, 1977, 64. Di timidezza del giudice ordinario verso la p. a., con una analisi della giurisprudenza dell’epoca, parla anche Gotti, La legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E, nella giurisprudenza del giudice ordinario, in Le riforme crispine, II, Milano, 1990, passim e pag. 54. Nello stesso senso Nigro, op. cit., 66. Lo stesso Vacchelli, op. cit., 441, nota che, "stante le deviazioni che la pratica indusse nei principii dalla legge stabiliti, l’autorità giudiziaria…, in moltissimi casi,…venne meno all’alto ufficio che le incombeva nell’equilibrio dello Stato costituzionale".

[15] Così, ancora, Sambataro, op. cit., 60. Oltretutto, c’è da dire anche che "i sostenitori della giurisdizione unica, invocando la formula della separazione dei poteri, non si fermavano al profilo di essa, secondo il quale il giudice dovesse essere separato dall’amministrazione, ma mettevano in luce anche il profilo inverso, secondo il quale l’amministrazione dovesse essere <<separata>> dalla giurisdizione e cioè sottratta al controllo di questa": così Nigro, op. cit., 59; l’Autore, poi, a pag. 180, parla della legge del 1865 come di "una legge chiaramente compromissoria e contraddittoria". La spiegazione, non condivisibile, di Vacchelli, op. cit., 353, invece, è che, "siccome era impossibile che tre centri di autorità nello Stato si mantenessero in assoluto equilibrio, così ben presto avvenne che uno si mostrò prevalente". Tuttavia, ammette l’Autore, risultava ovvio e "necessario soprattutto dare prevalenza all’autorità del Governo", perché "se i giudici, come è loro naturale tendenza, si fossero fatti difensori per quanto era possibile delle tradizioni e dei diritti quesiti, gran parte delle innovazioni…non si sarebbero attuate". Del resto, anche chi, come Nigro, op. cit., 61, ritiene che non sia del tutto accettabile la tesi – espressa Sambataro, Tribunali del contenzioso amministrativo e tribunali amministrativi regionali nel sistema di giustizia amministrativa, Roma, 1971 – secondo la quale con l’abolizione dei tribunali del contenzioso amministrativo si operò, sì, una scelta precisa di libertà, ma non di libertà del cittadino verso l’amministrazione, bensì di questa verso gli altri poteri dello Stato e, quindi, verso il cittadino, non ha comunque potuto fare a meno di ammettere che le ragioni dell’amministrazione erano certamente tenute in grande considerazione dalla legge, che determinò "l’inevitabile ampliarsi di una zona d’amministrazione franca da ogni controllo giudiziale". Lo stesso Cammeo, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, s.d., 839, era assolutamente convinto che il legislatore del 1865 fosse partito dal principio di accordare speciali privilegi all’amministrazione rispetto all’azione giudiziaria, in modo che l’esercizio di questa non turbasse la libera esplicazione della volontà amministrativa. V. Cerulli Irelli, Le questioni di giurisdizione nella giurisprudenza della Cassazione di Roma, in Le riforme crispine, II, Milano, 1990, 502. V. anche Nigro, op. cit., 70, il quale precisa che "la struttura del sistema creato dalla legge del 1865 portò, quasi fatalmente, a concepire la nuova giurisdizione come integrazione del sistema precedente, e a stabilirla a tutela delle situazioni non coperte dall’art. 2 della legge…, e cioè come giudice degli interessi". Cfr. anche Di Giovanni, L’iter parlamentare della legge istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato, in Le riforme crispine, II, Milano, 1990, 324. Sintomatica, infine, la non giustiziabilità, fino al 1889, dell’obbligo della p.A. di conformarsi al giudicato del g.o. che avesse riconosciuto la lesione di un diritto del privato, lasciando così alla discrezione-arbitrio dell’amministrazione stessa la scelta di ottemperare o meno. Un altro fattore importante è costituito dal conferimento al Consiglio di Stato del potere di risolvere i conflitti di attribuzione, che ha dato modo a Nigro, op. cit., 159, di rilevare "l’evidente incoerenza politica" del legislatore, e a far dire a Cerulli Irelli, Il problema del riparto, cit., 22, che tale competenza sui conflitti "era cosa certamente assurda e pericolosa,…contraddicendone i princìpi ordinatori". Cannada-Bartoli, Giurisdizione (conflitti di), in Enc. Dir., XIX, Milano, 1970, 295, rileva che "leggendo i lavori preparatori della l. n. 3761,…si trae il convincimento che…fu approvata…non tanto perché…conforme ai principi della l. 20 marzo 1865,…e resa da essi necessaria, ma come una <transazione>, tra l’applicazione rigorosa dei medesimi, che avrebbe portato ai conflitti, e quella parte di ragioni pratiche che avevano…determinato l’istituzione dei conflitti, dei quali giudicava il Consiglio di Stato…". Salandra, La giustizia amministrativa nei governi liberi, Torino, 1904, 545, riferisce che dal 1865 al 1877 il Consiglio di Stato ebbe a pronunciare 500 decisioni per risoluzione di conflitti, di cui la grande maggioranza fu per la competenza amministrativa. Cerulli Irelli, Le questioni di giurisdizione, cit., 498, parla di "disapplicazione giurisdizionale di un sistema legislativo".

[16] Cfr. Cannada-Bartoli, Disapplicazione di atti amministrativi illegittimi e giurisdizione del Consiglio di Stato (nota a Cons. St., sez. V, 28 giugno 1952, n. 1032, cit.), in Giur. it., 1953, III, 73.

[17] In termini tradizionali cfr. Vacchelli, op. cit., 353, secondo cui "le idee generali che si avevano alla fine del secolo scorso sulla libertà civile si manifestarono nei seguenti generali principii: tutti i diritti dei cittadini devono essere riconosciuti e rispettati, secondo i principii di eguaglianza e libertà; le autorità dello Stato devono essere costituite per modo che nessuno possa esercitare un potere assoluto". In altri termini, "ciò che come fatto storico devesi notare è che i principii della divisione, della eguaglianza e della indipendenza dei poteri apparivano come condizioni per il funzionamento regolare dello Stato, e questa fu la idea madre delle opinioni teoriche". Tuttavia, ammette Vacchelli, op. cit., 369, "era necessario impedire che l’autorità giudiziaria rendesse, con le sue sentenze, inefficaci gli atti della pubblica amministrazione; d’altra parte non era nemmeno possibile obbligare l’autorità giudiziaria a osservare qualunque atto amministrativo, solo perché proveniente dall’autorità amministrativa, il che avrebbe resa irrisoria l’azione della difesa giurisdizionale".

[18] Le espressioni sono di Cannada-Bartoli, L’inapplicabilità, cit., 1. Il fatto poi, rilevato dall’Autore, che non possa con sicurezza affermarsi che tale giurisprudenza fosse conforme al diritto positivo del tempo rende l’orientamento stesso ancora più significativo, in un contesto in cui "la percezione, pressochè generalizzata, dell’esistenza di un settore di…attività amministrativa prendente norma esclusivamente dalle puntuali e discrezionali valutazioni dell’amministrazione, e rispetto alle quali non poteva essere data ai privati alcuna garanzia che non consistesse in forme di autocontrollo da parte della stessa amministrazione (ricorsi amministrativi), è tutta una cosa con il rafforzamento dell’azione amministrativa, pur nell’ambito di una struttura statale in cui si facevano sempre più pressanti le richieste di tutela del cittadino": così Nigro, op. cit., 56. Tuttavia, v. Carlassare, Regolamenti dell’esecutivo e principio di legalità, Padova, 1966, 122, la quale, con riferimento all’ordinamento italiano precedente a quello attuale, afferma che "indubbiamente nella prassi il principio di legalità assunse spesso significato soltanto formale".

[19] Cfr. infatti R. Alessi, op. cit., 8, il quale afferma che l’art.5 è una "norma che non rappresenta affatto una <<trovata>> legislativa per creare un contrappeso o un compenso per il cittadino al divieto per il medesimo giudice di annullare gli atti illegittimi: sibbene una applicazione della regola che il principio di legalità non può venire meno nei rapporti tra amministrazione e Autorità giudiziaria"; in modo tale che "appare fondata l’affermazione che il principio della disapplicazione da parte di un giudice dei provvedimenti illegittimi rappresenta un principio generale del nostro ordinamento". Più specificamente Guarino, Profili costituzionali, amministrativi e processuali delle leggi per l’Altopiano silano e sulla riforma agraria e fondiaria, in Foro it., 1952, IV, 89, il quale chiarisce che "fu una saggia misura inserire questa norma nella legge sul contenzioso, ad evitare i sempre possibili dubbi, ma essa in effetti non introduceva una novità e si limitava a riformulare per un caso particolare un principio generale già implicito nel sistema". V. anche Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, in Dig. Disc. Pubbl., VII, 1991, 516: "i divieti dell’art. 4…erano reputati la base del sistema, sì che, rispetto ad essi, l’art. 5 veniva reputato superfluo e, se fu mantenuto, ciò accadde, perché la giurisprudenza anteriore alla legge abolitiva, pur disapplicando gli atti illegittimi,…non era su di questo punto fissa e importava <<anche nel solo dubbio che non sia…, di sancire codesta disposizione a tutela degli interessi e dei diritti civili e politici>>. Il mantenimento dell’art. 5 fu, quasi, una precauzione, dacchè i principi si reputavano stabiliti nell’art. 4". Di "principio contenuto nell’art. 5" parla anche Cons. St., sez. V, 18 agosto 1936 n.820, in questa rivista, 1937, I, 2, 45.

[20] Come rilevato da Cannada-Bartoli, L’inapplicabilità, cit., 2, e, ivi, nota 4, con la citazione di alcune sentenze.

[21] Anche secondo Cammeo, Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, 1898, in Primo trattato completo di diritto amministrativo a cura di V.E. Orlando, III, Milano, 1901, 217, "questo principio, che è per gli Stati costituzionali di ragion comune, tanto che esso erasi affermato nel nostro diritto anche prima di esservi espressamente scritto, è oggimai formulato nell’articolo 5…". Fois, Legalità (principio di), in Enc. Dir., XXIII, Varese, 1973, 666, afferma che norme come quella dell’art. 5 "possono offrire un fondamento alla <<legalità>>", ma con la precisazione che "permettono di fondare la <<legalità>> come mera <<compatibilità>> e non invece anche come <<conformità>>"; intendendosi per compatibilità la non contraddittorietà, e per conformità la previsione o la specifica ammissione degli atti dei quali si discuta la legittimità. In senso parzialmente diverso Cannada-Bartoli, La disapplicazione nel processo amministrativo, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 147, nel senso che è stato "l’art. 5 ad avviare la formulazione di quei principi"; tuttavia, sembra comunque più decisiva la circostanza, rilevata dallo stesso Autore, che "la successiva legislazione, anche costituzionale, avrebbe confermato tali principi, di cui non si può trascurare la genesi storica, che non è limitativa del principio. Con la conseguenza, che oggi, e non soltanto da oggi, l’art. 5 esprime un principio generale di diritto".

[22] Ferrara, I principi generali dell’ordinamento giuridico, in Studi sui principi generali dell’ordinamento giuridico fascista, Pisa, 1943, 313 s.s. V. anche Oppo, I princìpi generali del diritto: l’esperienza privatistica, in Atti del convegno "I principi generali del diritto" (Roma, 27-29 maggio 1991), Atti dei convegni Lincei, 96, Roma, 1992, 220 ss., secondo il quale "vi sono, oltre e prima che princìpi di diritto ricavabili per astrazione, princìpi che sono logicamente e giuridicamente un prius rispetto a quelli, ad essi sovraordinati e che svolgono una funzione non solo interpretativa e integrativa, ma anzitutto direttiva e anche correttiva; nè per gli uni nè per gli altri è da pretendere che siano formulati in proposizioni normative". In termini analoghi Pizzorusso, I principi generali nel diritto: l’esperienza pubblicistica, in Atti dei convegni Lincei, 96, Roma, 1992, 251, 254. Secondo Cotta, I princìpi generali del diritto: considerazioni filosofiche, ivi, 33, la scienza giuridica si occupa dei princìpi generali anche quando tali princìpi "enunciati in modo esplicito mancano del tutto o vi sono in numero inadeguato alle esigenze della comprensione dell’ordinamento"; fattispecie queste in cui "la scienza giuridica procede a scoprirli all’interno stesso dell’ordinamento…, mediante ogni possibile metodo di ragionamento (deduzione, induzione, persino abduzione)…". "In concreto, nel lavoro scientifico del giurista, appaiono imprescindibili entrambi gli approcci metodologici: il procedimento esegetico, che pone in rapporto il giurista con le norme, ed il procedimento sistematico, che lo pone in rapporto con i princìpi. Se il procedimento sistematico, con il suo ufficio integrativo, presuppone l’esaurimento del procedimento esegetico, esso vale nello stesso tempo a definire, e se del caso ridefinire, alla luce dell’intero sistema del diritto positivo, il significato deontico della proposizione normativa": così Falzea, Relazione introduttiva al Convegno dell’Accademia Nazionale dei Lincei "I princìpi generali del diritto", in Atti dei Convegni Lincei, 96, Roma, 1992, 24.

[23] Nel senso che "la norma...sta al principio come la regola di specie sta alla regola di genere, e perciò in presenza della norma non vi è spazio per il principio se non sotto il profilo indiretto, di una superiore ricerca ermeneutica che voglia enucleare nella norma una ratio più autentica ed essenziale": cfr. Falzea, op. ult. cit., 18.

[24] Così Cotta, op. cit., 34 ss.

[25] Così Pizzorusso, op. cit., 254. V. anche Morbidelli, La disapplicazione dei regolamenti nella giurisdizione amministrativa, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 52, il quale precisa come "è infatti ormai acquisito il carattere precettivo dei principi". Anche Crisafulli, Per la determinazione dei principi generali del diritto, in Riv. Int. Fil. Dir., 1944, 180, afferma che tali principi, come tutte le altre, sono "regole di condotta imperative, bilaterali e coercibili".

[26] Cfr. Nigro, op. cit., 184. Cannada-Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino verso la pubblica amministrazione, II, Milano, 1964, 18, ha così notato che "la nostra Costituzione presuppone il diritto comune...come applicabile normalmente, e non in via di eccezione, all’autorità amministrativa; e ciò, beninteso, non limitatamente all’attività di gestione"; dall’esame di diverse norme costituzionali – riguardanti, direttamente e non, la p.a., come gli artt. 28, 24, 113, 2, 52 – è possibile trarre poi dei veri e propri princìpi generali, i quali, come precisato da Cannada-Bartoli, op. ult. cit., 24, impongono "la piena rivalutazione dell’individuo, che non può essere dissolto senza residui nell’amministrazione". Dello stesso Autore v. anche Spunti esegetici contro la degradazione dei diritti dei cittadini (nota a Cass. sez. un., 18 giugno 1962 n. 1530), in questa rivista, 1963, II, 74, ove si precisa che "la degradazione…appare contraria ai principi democratici del nostro ordinamento".

[27] Cfr. Levi, Legittimità, in Enc. Dir., XXIV, Varese, 1974, 131, il quale chiarisce che "accanto alle disposizioni scritte, esistono poi princìpi e norme non scritte, essenziali nell’ordinamento amministrativo più che in ogni altro settore. Il valore della legittimità si rivolge dunque…anche agli operatori giuridici, che danno vita o quanto meno, se si preferisce, esprimono le regole di questa specie". Fois, op. cit., 668 ss., 683, e passim, una volta affermato che "l’art. 5…può offrire il fondamento di una mera <<compatibilità>>, e quindi esso non può rappresentare elemento utile per indurre l’esistenza di un principio (di legalità) qualitativamente ben diverso, quale quello della conformità sostanziale", ed esclusa la possibilità di rilevare una consuetudine costituzionale a fondamento della legalità, sostiene che resta "un’unica possibilità, e cioè quella di fare riferimento essenzialmente (anche se non esclusivamente) all’art. 101 cost. quando, nel comma 2, afferma che <<I giudici sono soggetti soltanto alla legge>>. Una simile disposizione sembra che effettivamente possa offrire il suddetto fondamento".

[28] In questi termini Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, 190 ss. Dello stesso Autore, v. anche Natura, funzione ed effetti delle pronunce della Corte Costituzionale sulla legittimità delle leggi, in Studi in onore di E. Betti, V, Milano, 1962, 555. Molto significative, poi, le osservazioni di La Valle, Cognizione principale ed incidentale dei regolamenti nel giudizio amministrativo, in Jus, 1967, 147, laddove si osserva, con riferimento alle esclusive competenze della Corte Costituzionale, che, considerata la ratio dell’istituto della disapplicazione, "la positiva vigenza d’esso principio non è contraddetta, ma anzi confermata, dal fatto che l’ordinamento espressamente sottragga alcune (ma non tutte le) categorie di norme alla cognizione incidentale diffusa, per attribuirle alla cognizione principale di uno speciale organo giurisdizionale". Nello stesso senso di La Valle, ma prima di lui, Cannada-Bartoli – Disapplicazione di regolamenti da parte del Consiglio di Stato (nota a Cons. St., sez. VI, 30 dicembre 1958 n. 1017), in Giur. Cost., 1959, 520 – che partendo dalla necessità di verificare se ed in quali limiti il principio iura novit curia sia vigente nel nostro ordinamento, nel quale appunto il controllo sulla validità delle leggi è devoluto ad apposito organo, distinto dal complesso dei giudici ordinari e speciali, giunge alla conclusione per cui "sembra, peraltro, che la competenza del giudice a quo circa la manifesta infondatezza consenta di ritenere vigente il suddetto principio".

[29] Così A. Romano, Osservazioni sull’impugnativa dei regolamenti della pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1955, 870. Guarino, op. cit., 89, precisa che "il principio della disapplicazione giudiziale degli atti illegittimi segue come un corollario necessario l’adozione degli altri due principi della piena legalità di tutti gli atti statali e del pieno controllo giudiziario dei loro vizi, principi che, a loro volta, nell’ordinamento statutario come in quello attuale, avevano ed hanno positiva vigenza". A conclusioni analoghe giunge Abbamonte – Disapplicazione del giudice amministrativo. Gerarchia delle fonti e coerenza dell’ordinamento, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 252 – "per la coerenza stessa dell’ordinamento giuridico nel suo insieme". Sempre Guarino, Abrogazione e disapplicazione delle leggi illegittime, in Jus, 1951, 363 s.s., afferma che "è…evidente che manca una disposizione generale sul modo di attuazione della tutela perché tale tutela…deve esplicarsi e non può non esplicarsi, in via generale, che a mezzo della disapplicazione". Contra Stella Richter, L’inoppugnabilità, Milano, 1970, 62, per cui "la disciplina dei modi e dei tempi di esplicazione di tale tutela…resta invece pur sempre affidata alle leggi ordinarie…". Tuttavia, già in un periodo in cui non esisteva la Corte Costituzionale, né fosse imminente la sua istituzione, si era in dottrina ammessa la possibilità di un sindacato sostanziale del giudice sulla validità delle leggi, e ammessa la disapplicazione della legge riscontrata invalida: v. Esposito, La validità delle leggi, Padova, 1934, 28. Lo stesso Sandulli, op. ult. cit., 555, osservava che, "pur mancando espresse disposizioni in tal senso, già prima della Costituzione vigente erano ammessi…il sindacato e la disapplicazione delle leggi illegittime da parte dei giudici".

[30] Infatti, precisa sul punto Levi, op. cit., 126, è chiaro che un valore come quello della legittimità "viva nella cultura giuridica prima e più ancora che nei testi normativi", e "per questo esso opera anche quando risulta recepito e sanzionato come principio in un testo, legislativo o costituzionale, quanto meno nell’attività di interpretazione ed integrazione delle disposizioni scritte". Infatti, continua l’Autore, 134, "non è stato…necessario giungere alla Costituzione per vedere affermato con rigore che l’autorità amministrativa è titolare dei soli poteri che la legge conferisce o, con altra formula, che ogni provvedimento amministrativo deve essere previsto dalla legge. In questo senso si parla comunemente di principio di legalità o di nominatività o di tipicità, che dunque rappresenta il nucleo originario della problematica della legittimità ma…non ne esaurisce affatto la portata". Inoltre, Levi critica il fatto che "di alcuni parametri del giudizio di legittimità non si assume più che siano immanenti alla legge o al sistema giuridico: si tende a dire, invece, che sono l’espressione di determinati princìpi costituzionali. …Canoni già ritenuti interni al valore della legittimità si pongono sul suo stesso piano".

[31] Vale a dire che la risposta che il giurista "è chiamato a dare al problema pratico…non può non essere definita in armonia con la totalità degli interessi giuridici, sicchè…non deve perdere di vista l’unità del sistema…. A questa unità può pervenire soltanto risalendo la scala dei princìpi…": Falzea, op. cit., 24. In termini analoghi Morbidelli, op. cit., 40, secondo cui "è fuori discussione il fatto che il principio della disapplicazione degli atti illegittimi…rappresenta un principio generale del nostro ordinamento", per cui, "in quanto principio generale, il potere-dovere di disapplicazione compete ad ogni giudice, ordinario o speciale che sia". Come già precisava Cammeo, op. ult. cit., 220, la funzione giurisdizionale va considerata "una ed unica nella sua essenza, sebbene sia opportuno scinderla in varie competenze per ragion di materia". V. anche Morbidelli, op. cit., 40 ss., per il quale non vi sono preclusioni "alla estensione al giudice amministrativo di talune norme dettate per l’autorità giudiziaria ordinaria, tantopiù se trattasi di norme espressive del principio di legalità, se non altro perché sono organi che esercitano entrambi funzioni giurisdizionali". Cannada-Bartoli, La disapplicazione nel processo amministrativo, cit., 149, chiarisce che "l’unità della giurisdizione è nell’applicazione dei principi generali dell’ordinamento, a negare i quali, pur riconoscendoli, il giudice compromette tale unità", e che, "se giurisdizione è attuazione delle norme giuridiche e dei principi generali…, il principio generale desumibile dall’art. 5 non può essere rifiutato dal giudice". V. R. Alessi, Osservazioni intorno ai limiti soggettivi di efficacia del giudicato amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1954, 68. Del resto, come è stato notato da Cannada-Bartoli, Disapplicazione di atti amministrativi illegittimi, cit., 73, in base al rilievo che comunque si tratta di organi che esercitano funzioni giurisdizionali, "la constatazione di questa basilare identità ha rappresentato la giustificazione remota per estendere alle pronunce del giudice amministrativo il dovere della pubblica amministrazione di conformarsi al giudicato e l’esperibilità del relativo ricorso".

[32] V., tra gli altri, A. Romano, op. cit., 943 e passim. In giurisprudenza, v. Tar Umbria, 23 aprile 1996 n. 176, in Tar, 1996, I, 2573, ove si afferma che "il principio sancito dall’art. 5…, riferito notoriamente alla sfera di giurisdizione del giudice ordinario, è da ritenere oggi estensivamente applicabile anche nella sfera di giurisdizione del giudice amministrativo…". Lo stesso Cannada-Bartoli, La disapplicazione nel processo amministrativo, cit., 151, non sembra avere del tutto abbandonato la posizione descritta, affermando che "la qualifica di <<autorità giudiziarie>> nel testo dell’art. 5 non esclude il giudice amministrativo, non ancora istituito, perché riguarda la giurisdizione, tanto più che l’ambito della disapplicazione prevista <<in ogni altro caso>> supera i limiti dell’art. 2, richiamati nel comma 1 dell’art. 4 della legge abolitiva". Altri precisano che una indagine sul tema della disapplicazione "deve essere diretta ad accertare se l’art.5…possa considerarsi espressione di un principio generale valido per tutte le autorità giurisdizionali o, comunque, possa essere esteso per analogia ad altri giudizi…e in particolare.....al giudizio che si svolge dinanzi al Consiglio di Stato": così Stella Richter, op. cit., 59, il quale, comunque, poi giunge alla conclusione (v. pag. 73) che "il Consiglio di Stato deve esaminare la validità dell’atto amministrativo solo principaliter, e quindi al fine di un suo eventuale annullamento, e non anche incidenter tantum e quindi altresì al fine di un’eventuale sua mera disapplicazione".

[33] Cfr. L’inapplicabilità, cit., 17 ss. V. ora l’art. 68, 2° comma, D. Lgs.vo 29/93, sui poteri del giudice ordinario in materia di rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni. In Recenti interpretazioni dell’art. 5 della legge sul contenzioso amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 336, Cannada-Bartoli riteneva "necessario che l’ordinamento disciplini finalità e modalità del sindacato, giacchè la competenza del giudice potrebbe sussistere per il limitato fine della pronuncia sui danni, senza che l’atto statale possa essere comunque rimosso in sè o nei propri effetti". Per Arezzo Di Trifiletti, Natura, condizione e casi di inoppugnabilità e disapplicazione degli atti amministrativi, in Nuova rassegna, 1987, 2449, "il potere di disapplicazione deve, ovviamente, trovare nella legge il proprio fondamento".

[34] V. La Valle, op. cit., 143, il quale rileva che "trattasi di soluzione richiesta dalla stessa natura e funzione della giurisdizione, dacchè sarebbe evidentemente assurdo pensare che proprio il giudice, al quale è affidata la fedele interpretazione ed applicazione del diritto obiettivo, venga a sanzionare, con l’applicare la subordinata norma illegittima e con il lasciare pertanto inapplicata la (legittima) norma sovraordinata, il factum contra jus perpetrato con l’emanazione della prima". Come ha rilevato Guarino, op. ult. cit., 364, in un ordinamento che, come il nostro, accolga i due principi della legalità degli atti statali e della assenza di limiti alla sindacabilità giurisdizionale dei loro vizi, la disapplicazione diventa necessariamente "la forma di tutela generale della illegittimità, e non ha bisogno di essere espressamente prevista, mentre tutti gli altri (…) sono rimedi speciali, che in tanto vigono, in quanto in relazione alle concrete esigenze siano espressamente previsti dalle norme positive". La conclusione, quindi, non può che essere che la facoltà di disapplicare va considerata "un’ordinaria e indefettibile manifestazione del potere giurisdizionale": L. Piccardi, op. cit., 589.

[35] V. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 516, secondo cui "il mantenimento dell’art. 5 fu, quasi, una precauzione, dacchè i principi si reputavano stabiliti nell’art. 4".

[36] Cfr. Cannada-Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino, cit., 186; A. Romano, La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice civile, in Dir. proc. amm., 1983, 47.

[37] Contra Montesano, op. cit., 45 ss., per il quale "se...dichiarare la lesione del diritto significasse accertare l’illegittimità dell’atto lesivo, questo dovrebbe essere disapplicato: il che è impossibile…". Lo stesso Autore, op. cit., 46, fa proprio un pensiero, già espresso da Mantellini – Lo Stato e il codice civile, III, Firenze, 1882, 215 – secondo cui "…giudizio, e però decisione, non possono cadere se non sull’effetto dell’atto, e non mai sull’atto in sé stesso". Nello stesso progetto della Commissione, durante l’iter parlamentare di approvazione della legge abolitiva, l’art. 4 prevedeva però che "…l’autorità giudiziaria dovrà limitarsi a dichiarare se e quali conseguenze giuridiche l’atto stesso sia per produrre…". E come ricorda Vacchelli, op. cit., 445, nella stesura definitiva dell’articolo 4 "la parola effetti venne…usata…per limitare la competenza al caso in questione", e non certo per evitare che il giudice conoscesse della legittimità dell’atto.

[38] Così A. Romano, op. ult. cit., 47. V. Cass. civ., sez. un., 3 giugno 1997 n. 4955, in Cons. St., 1997, II, 1561. Cass., sez. Lav., 7 gennaio 1981 n. 94, in Foro it., 1982, I, 794, fa riferimento al potere di disapplicazione del giudice ordinario "sia nella forma della disapplicazione principale che in quella…incidenter tantum". Sull’argomento v. Cannada-Bartoli, L’inapplicabilità, cit., 160-161, nonché Nota a Cass., sez. un., 11 luglio 1955 n. 2194, in questa rivista, 1956, II, 1,18, per il fatto che "…l’art.5 ha un ambito più esteso dell’art.4, e perciò dell’art.2". In termini analoghi Mazzarolli, Ragioni e peculiarità del sistema italiano di giustizia amministrativa, in Diritto amministrativo, a cura di Mazzarolli, pericu, a. romano, roversi monaco, scoca, Bologna, 1998, 1757; g.m. berruti, La disapplicazione dell’atto amministrativo nel giudizio civile, Milano, 1991, 20; Menestrina, La pregiudiciale nel processo civile, rist., Milano, 1963, 154. Per un esame della giurisprudenza sulla c.d. doppia tutela v. Falcone, L’edilizia, in Il diritto amministrativo nella giurisprudenza, a cura di Falcone e Pozzi, Torino, II, 1998, 622. Per la possibilità che nelle controversie tra privati il giudice civile conosca di interessi legittimi, v. Giannini e Piras, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 293 s.s.; Cassarino, Atti amministrativi discrezionali e disapplicazione in giudizio (nota a Cass., sez. un., 21 gennaio 1956 n. 184), in questa rivista, 1956, II, 1, 161; Cannada-Bartoli, In tema di competenza dell’a.g.o. e di disapplicazione di atti amministrativi (nota a Cass., sez. un., 21 gennaio 1956 n. 184), in questa rivista, 1956, II, 1, 171, nonché Recenti interpretazioni dell’art. 5, cit., 342. Da ultimo, Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 1998 n. 1789, in Tar, 1998, II, 1104. Contra, la giurisprudenza prevalente, tra cui Cass. sez. lav., 14 febbraio 1997 n. 1345, in Lavoro nella giur., 1997, 956.

[39] Secondo Cannada-Bartoli, L’inapplicabilità, cit., 165, nei casi di competenza principale "imporre al giudice il dovere di disapplicare ex officio gli atti illeciti non ha senso, perché è proprio questa disapplicazione che forma l’oggetto della domanda del privato…". Inoltre, secondo Cass. civ., sez. I, 14 maggio 1998 n. 4854, in Giust. Civ., 1999, I, 200, "nel giudizio per il risarcimento danni intrapreso dal privato per l'illegittima compressione di un diritto che ha avuto piena espansione per effetto di un provvedimento amministrativo, non può compiersi la disapplicazione di questo, su richiesta dell'amministrazione che vi ha dato causa". Cannada-Bartoli, La tutela giudiziaria, cit., 182, rilevava che "può essere disapplicato anche il rifiuto di compiere un atto vincolato, giacchè, dal punto di vista giuridico, non v’è alcuna apprezzabile differenza fra il considerare non avvenuto ciò che è effettivamente accaduto e il reputare che abbia avuto luogo ciò che in realtà non è avvenuto, ma doveva avvenire; in entrambi i casi si considera irrilevante un comportamento che giuridicamente esiste…". Cfr. Cass. civ., sez. un., 15 gennaio 1992 n. 402, in Discipl. Comm., 1992, 201. V. A. Romano, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 1992, 82, a proposito del fatto che "mentre la norma dell’art.5 presuppone l’esistenza di un atto amministrativo…la norma dell’art. 4…può prescindere dall’esistenza dell’atto, in quanto la contestazione sul diritto soggettivo leso può derivare da una condotta o da una operazione materiale dell’amministrazione". Ora, a meno che non si rinvenga nel comportamento omissivo della p.a. un atto negativo implicito, da potere, artificiosamente, disapplicare, il fondamento di un intervento del giudice è da rinvenire nel normale esplicarsi della sua funzione di fronte al dispiegarsi illegittimo dell’azione amministrativa, si sia questa realizzata o meno in un atto. Se anche l’art.5 non ci fosse, quindi, tutta la disciplina dell’attività del giudice sarebbe rinvenibile nel combinato disposto dei due commi dell’art. 4. Una limitazione può essere data da una decisione del giudice amministrativo che si sia pronunciato sullo stesso atto, in un giudizio con le stesse parti. V. Cannada-Bartoli, In tema di giurisdizione e disapplicazione (nota a Cass., sez. un., 2 ottobre 1975 n. 3099), in questa rivista, 1976, 2610; Cass., sez. I, 3 febbraio 1997 n. 982, in Tar, 1997, II, 928. Assumono importanza, però, i vizi ritenuti inesistenti dal giudice amministrativo, potendo il ricorso essere rigettato anche per motivi diversi dalla legittimità dell’atto, dovendo oltretutto l’esame essere limitato ai vizi sollevati, per cui il giudice civile può accertare vizi non rilevati dinanzi al giudice amministrativo. V. Cass. civ., sez. un., 6 maggio 1998 n. 4573, in Giust. Civ., 1999, 211, circa la possibilità di dedurre comunque, davanti al giudice ordinario, la radicale inesistenza del potere, ove tale questione non sia stata prospettata innanzi al giudice amministrativo.

[40] Cfr. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 516. Sul punto v. anche Dell’Orco, Potestà di disapplicazione e provvedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1965, 686 s.s. Come precisato da Cannada-Bartoli, La disapplicazione nel processo amministrativo, cit., 146, dalla avvenuta disapplicazione "ne risulta un impedimento alla produzione dell’effetto, non l’estinzione dell’efficacia dell’atto". In altri termini, "poiché la misura e i limiti della decisione sugli effetti risultano dal sec. co. dell’art. 4 e...anche dall’art. 5, consegue che è ammesso solo quel <<conoscere>> dell’atto che non contrasti con quel <<conoscere>> sugli effetti, disciplinato da tali norme, ossia che il giudice ordinario può decidere anche dell’atto, purchè una siffatta decisione non violi i limiti posti al decidere sugli effetti": cfr. La tutela giudiziaria, cit., 156. V. Cass. civ., sez. I, 8 maggio 1998 n. 4683, in Rep. Gen. Giur. It., 1998, Competenza e giurisd. civ., 530; Id., sez. un., 4 novembre 1994 n. 9129, in questa rivista, 1996, 801. Poco persuasivo, pertanto, che "dal lato funzionale l’art. 5…, pur essendo come l’art. 4 norma di disciplina del potere del giudice ordinario, si trova con esso in rapporto di dissociazione, in quanto pone la questione della rilevanza dell’atto in rapporto di conformità-non conformità alla legge, definendo un potere sindacatorio senza i limiti costitutivi del divieto di annullamento e di revoca degli atti amministrativi di cui all’art. 4, 2° co.": Verrienti, Giurisdizione ordinaria e pubblica amministrazione, in Dig. Disc. Pubbl., VII, 1991, 477. V. Cass. civ., sez. I, 22 ottobre 1979 n. 5481, in Giust. civ. Mass., 1979, a proposito della possibilità di una disapplicazione parziale, nei soli confronti di uno od alcuni dei destinatari del provvedimento.

[41] V., tra le tante, Cass., Sez. III, 11 marzo 1994, n. 514, in Cass. Pen., 1995, fasc. 2, 373. Se la legge del 1865 è ispirata alla necessità di evitare un intervento del g.o., civile o penale, nella sfera del potere amministrativo, tale ratio non sembra infatti ricorrere nei confronti del giudice penale, visto che la sua cognizione dell’atto amministrativo non presenta mai il pericolo di un intervento nella sfera del potere amministrativo, per lo meno nel senso fissato dall’art.4, 2° c., poiché si tratta sempre di una cognizione che non sfocia in una pronuncia costitutiva inerente all’atto stesso, bensì in una pronuncia dichiarativa, emanata incidenter tantum, allo scopo esclusivo di accertare l’esistenza o meno di un reato. Cfr. R. Venditti, Il sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1965, 35. Contra, nel senso che gli effetti del giudizio di disapplicazione si risolvono in una retroattività in malam partem della norma penale, R. Bajno, La tutela penale del governo del territorio, Milano, 1980, 93.

[42] Cfr. Contento, Giudice penale e pubblica amministrazione, Roma-Bari, 1979, 48. V. anche Cannada-Bartoli, Ente pubblico e immunità: discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale (nota a Corte Appello Roma, 4 febbraio 1966), in questa rivista, 1967, 25 ss.: "i limiti della cognizione penale debbono trarsi…dalla previsione normativa dei reati di cui il giudice, di volta in volta, conosca, estendendo l’attività di accertamento fino a quel punto che consenta di decidere". Villata, Disapplicazione dei provvedimenti amministrativi e processo penale, Milano, 1980, 146, esclude invece del tutto il potere di sindacato sul provvedimento da parte del giudice penale, che deve limitarsi ad accertare la sussistenza dell’ipotesi di reato contenuta nella norma incriminatrice. V. tutta quella giurisprudenza che ha ammesso la disapplicazione di concessioni edilizie: fra le tante, Cass., sez. III, 7 marzo 1998, in Riv. urbanistica e appalti, 11/98, 1255; Corte Cost., 18 luglio 1996 n. 256, in Cons. St., 1996, II, 1208. Cfr. anche Albamonte, Rilevanza penale della illegittimità della concessione edilizia alla luce della legge 28 febbraio 1985 n. 47, in Cass. Pen., 1985, 2095; d. Trebastoni, Disapplicazione delle concessioni edilizie illegittime e responsabilità del pubblico amministratore come pubblico ufficiale, nei diversi orientamenti giurisprudenziali (nota a Cass. pen., sez. III, 20 settembre 1988), in Giur. it., 1991, II, 357. Contra, tuttavia, numerose pronunce, tra cui Cass. pen., sez. III, 11 gennaio 1996, in Cass. Pen., 1996, 3450; Id., sez. un., 17 febbraio 1987 n. 3, in Cass. pen., 1987, 878.

[43] Così, in caso di rigetto di una domanda di concessione edilizia, se l’accertamento della illegittimità di siffatto rigetto è utile alla eventuale configurazione del reato previsto dall’art.323 c.p., ciò non comporterà l’esclusione della responsabilità penale dell’autore dei lavori eseguiti nonostante il rigetto della domanda. Cfr. Albamonte, Atti amministrativi illegittimi e fattispecie penale: poteri del giudice nella tutela penale del territorio, in Cass. pen., 1983, 1867. In giurisprudenza v., tra le altre, Cass., sez. III, 13 marzo 1996, in Cass. Pen., 1997, 1487. Per l’analisi dei modi in cui può rilevare un provvedimento amministrativo in fattispecie penali e, in particolare, in casi di abuso, v. Alibrandi, La sindacabilità del provvedimento amministrativo nel processo penale, Napoli, 1969, 31 s.s.

[44] V. ad esempio, nel senso del testo, Cass. Pen., sez. I, 27 settembre 1993, in Cass. Pen., 1994, 3104, in materia di contravvenzione al provvedimento di diffida del questore. Contra, Id., sez. I, 9 dicembre 1996 n. 337, in Cass. Pen., 1997, 1877. Cannada-Bartoli, L’inapplicabilità, cit., 205 s.s., in particolare pag. 243, indica la necessità di non confondere l’inosservanza del provvedimento illegittimo "e la c.d. resistenza attiva, la quale è sempre reato, anche se diretta contro l’esecuzione di un atto illegittimo, a meno che l’arbitrarietà dell’atto non escluda il riferimento alla pubblica amministrazione". Tuttavia, cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., Sez. Giurisd., 22 luglio 1998, n. 452, in Cons. St., 1998, I, 1226, secondo cui "l’esecutorietà dei provvedimenti amministrativi…non consente la disapplicazione o inosservanza da parte dei soggetti destinatari…". Franchini, Aspetti del sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi, Milano, 1957, 336 s.s., sostiene che, nel caso previsto dall’art. 650 c.p., il giudice deve accertare la legalità del provvedimento, inosservato dall’imputato, in quanto elemento della fattispecie del reato, ma non ai fini dell’eventuale disapplicazione. In altri termini, allorchè il giudice accerta che l’ordine non fu legalmente dato, non dichiarerebbe la sua inefficacia e quindi non libererebbe il destinatario dall’obbligo di osservarlo, ma si limiterebbe a dichiarare che la sua inosservanza non costituisce reato. Contra Cass., sez. I, 8 luglio 1996, in Cass. Pen., 1997, 2230, che, per tali ipotesi, parla espressamente di disapplicazione. V. inoltre Cass. civ., sez. III, 3 febbraio 1998 n. 1087, in Dir. e giur. agr., 1998, 336, circa un’attività estrattiva giudicata lecita anche in assenza di concessione edilizia, prevista illegittimamente da un regolamento comunale.

[45] Artt.2, 1° comma, e 4, 2° comma, del D.Lgs.vo 29/93, come modificato dal D.Lgs.vo 80/98.

[46] V. Sassani, Giurisdizione ordinaria, poteri del giudice ed esecuzione della sentenza nelle controversie di lavoro con la pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, 2, 415, il quale precisa che "la devoluzione al giudice ordinario…significa eliminazione sicura della necessità di distinguere tra interessi legittimi e diritti soggettivi…". V. Cass., sez. lav., 7 aprile 1999 n. 3373, in questa rivista, 1999, 2038, circa l’inerenza della materia degli atti gestionali in questione a situazioni di diritto soggettivo, e non di interesse legittimo. Contra, Cons. St., Ad. Gen., 10 giugno 1999 n. 9, in questa rivista, 1999, 2160, secondo cui tali atti gestionali vanno intesi come atti amministrativi, in quanto soggettivamente provenienti dalla p.a.

[47] Cfr. D’Antona, Contratto collettivo, sindacati e processo del lavoro dopo la <<seconda privatizzazione>> del pubblico impiego", in Foro it., 1999, 2, I, 629. V. anche Sassani, op. cit., 416 ss.

[48] In tal senso Torchia, Giudice amministrativo e pubblico impiego dopo il D.Lsg.vo n. 80 del 1998, in Lavoro nella p.a., 1998, 1055. D’accordo D’Antona, op. cit., 629, nonché B. Caruso, Il giudice del lavoro ed il pubblico impiego, Relazione al Convegno organizzato dall’Unione Giuristi Cattolici, Siracusa, 23.01.99, in www.diritto.it. Tuttavia, sembra di potere affermare che, in alcuni casi, il dipendente potrebbe avere titolo giuridico per impugnare provvedimenti organizzativi di carattere generale, qualora lesivi immediatamente e direttamente di sue situazioni giuridiche, che siano qualificabili in termini di interessi legittimi.

[49] Come modificato dall’art. 29 del D.Lgs.vo 80/98, nonché dall’art. 18 del successivo D.Lgs.vo 387/98.

[50] V. Apicella, La disciplina transitoria del trasferimento al giudice ordinario della giurisdizione sulle controversie di lavoro con la pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, 6, 555. Per Baccarini, La giurisdizione ordinaria sui rapporti di pubblico impiego, in Dir. proc. amm., 1999, 2, 596, in questa materia "il conflitto di interessi tra prestatore e datore di lavoro deve essere valutato sulla base anche e soprattutto di interessi superiori indisponibili, definiti secondo i princìpi costituzionali, che possono e spesso devono condurre il giudicante, al di là degli atti emanati e delle posizioni processuali assunte dalle parti, verso una terza tesi".

[51] Anche il D.Lgs.vo 31.12.92, n. 546, all’art. 7, comma 5, ha disposto che "le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all'oggetto dedotto in giudizio…".

[52] In altri termini, Cannada-Bartoli chiama invalido ciò che è chiamato annullabile dal resto della dottrina, e stabilisce, in termini diversi, l’antitesi nullità-invalidità. In dottrina la tesi è seguita, ad esempio, da A. Romano, La disapplicazione del provvedimento amministrativo, cit., passim. Dello stesso Autore v. anche il Commentario breve, cit., 87 ss.

[53] L’Autore, op. cit., 38 s.s., evidenzia come il concetto della disapplicazione non sia riferibile agli atti nulli, in quanto "un atto per essere disapplicato dovrebbe essere applicabile", e "l’atto nullo, in quanto è intrinsecamente inefficace, non tanto è disapplicabile, quanto, per definizione, non può essere applicabile". Una diretta conseguenza è che "l’accertamento della nullità di un atto non richiede l’attribuzione di uno speciale potere di sindacato", nè, tantomeno, di disapplicazione. D’accordo sul fatto che in casi del genere "non c’è da disapplicare un bel niente" Giacchetti, Disapplicazione? No grazie, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 196, il quale però parte dal presupposto che si debba parlare di "fantasma di atto amministrativo", e che pertanto "ci si limita a constatare la sua inesistenza come entità reale".

[54] Cannada-Bartoli, op. ult. cit., 43.

[55] Contra si è schierato L. Piccardi, op. cit., 597, secondo il quale, "non si può replicare che una cosa è l’annullamento, altra cosa la disapplicazione, perché, almeno in certi casi...la disapplicazione produce gli stessi effetti dell’annullamento, o una parte di tali effetti, e contraddice quindi alla irrevocabilità dell’atto". Analogamente, A. Romano, Osservazioni sull’impugnativa dei regolamenti, cit., 945. Riprende la teoria dell’inapplicabilità, da ultimo, Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Varese, 1999, 658.

[56] Tale dato sembra eliminare la contraddizione che A. Romano – La pregiudizialità nel processo amministrativo, Milano, 1958, 476 – ha ritenuto di rilevare, affermando che "se l’inapplicabilità costituisse una caratteristica normale dell’atto illegittimo-annullabile, si dovrebbe conciliare tale caratteristica, con la comune affermazione....per cui l’atto annullabile, finchè non è annullato, dispiega normalmente i suoi effetti: ossia, è applicabile…". Infatti, l’inapplicabilità potrà rilevare soltanto nel caso in cui sorga contestazione sull’obbligo della osservanza dell’atto, o venga lamentata una lesione da esso causata. L’irrilevanza degli effetti, in particolare, non è equiparabile all’inapplicabilità dell’atto, perché non ne costituisce una qualità, ma è, semmai, una sua conseguenza. Critico Nigro, op. cit., 197, il quale rileva che "la disapplicazione non comporta o produce alcuna conseguenza ulteriore sulla sopravvivenza dell’atto", con la relativa "impossibilità di dedurre da essa l’esistenza di uno stato sostanziale dell’atto amministrativo, denominabile <<inapplicabilità>>". In giurisprudenza è talvolta possibile riscontrare qualche riferimento ad atti "inapplicabili": v., ad es., Tar Toscana, sez. I Firenze, 18 febbraio 1998 n. 60, in Tar, 1998, I, 1410; Cons. St., sez. V, 26 febbraio 1992 n. 154, in Giur. it., 1993, III, 653; Id., sez. IV, 22 maggio 1903, in Giur. it., 1903, III, 391.

[57] Interessante il caso deciso da Cass. Civ., sez. I, 9 aprile 1994 n. 3341, in Giust. Civ., 1994, 459, che ha confermato la decisione di merito che aveva riconosciuto legittima la disapplicazione, da parte dell’assemblea di una s.p.a., di un provvedimento del Tribunale, ritenuto illegittimo.

[58] "L’atto amministrativo...continua ad essere efficace ed a vincolare sia l’autorità emanante che i suoi destinatari, finchè non venga rimosso, d’ufficio o su ricorso…, non essendo l’amministrazione legittimata a disapplicare l’atto che essa stessa ha posto in essere": Cons. St., sez. IV, 17 giugno 1993 n. 620, in questa rivista, 1993, 1251. In questi termini la giurisprudenza è pacifica. V., per tutte, Cons. St., sez. V, 11 maggio 1998 n. 224, in questa rivista, 1998, 1403.

[59] In questo senso Cons. St., sez. V, 13 gennaio 1954 n. 51, in questa rivista, 1954, I, 2, 190; v. Tar Puglia, sez. Lecce, 23 novembre 1984 n. 653, in Tar, 1985, I, 2504, in materia di disapplicazione di bando di concorso da parte della commissione giudicatrice. Contra Tar Umbria, 22 marzo 1996 n. 112, in questa rivista, 1996, 3003; Cons. St., sez. V, 26 gennaio 2000, n. 330, in Cons. St., 2000, I, 107. In materia di bandi di gara è contraria la giurisprudenza prevalente: v. Cons. St., sez. VI, 3 marzo 1999 n.265, in questa rivista, 3, 754; Id., sez. VI, 4 marzo 1998 n. 241, in questa rivista, 1998, 749; Cons. St., sez. V, 8 marzo 1993 n. 344, in Cons. St., 1993, I, 349. V. tuttavia Tar Lombardia, Milano, sez. III, 12 gennaio 1999 n. 109, in Tar, 1999, I, 880, con una indicazione sul principio civilistico dell’inserzione automatica di clausole ex art. 1339 c.c., nonché sull’art. 1419, circa la nullità di singole clausole. V. inoltre Cons. St., sez. IV, 10 aprile 1998 n. 582, in questa rivista, 1998, 1021, secondo cui "anche dopo la pubblicazione del bando non può escludersi la possibilità per l’amministrazione, in sede di esame delle domande di partecipazione al concorso, di non dare applicazione a clausole del bando illegittime…". V. poi quella giurisprudenza che esclude l’esistenza di un potere di disapplicazione in capo agli organi di controllo: fra le tante, Cons. St., sez. IV, 4 ottobre 1996 n. 1083, in Riv. Corte Conti, 1996, 6, 256. Contra, tuttavia, Cons. St., sez. V, 22 giugno 1996 n. 786, in Cons. St., 1996, I, 934, secondo cui "l’illegittimità di un provvedimento non diventa irrilevante per il sol fatto che abbia superato il visto tutorio…".

[60] Così Corte di Giustizia CE, 9 marzo 1978, in Giur. It., 1978, I, 1153. La Corte di Giustizia ha peraltro ribadito tale orientamento in numerose altre pronunce. V., fra tutte, 19 giugno 1990 n. 213/89, in Giur. It., 1991, I, 1, 1122; Id., 11 luglio 1991 n. 87/90, in Giur. It., 1993, I, 1, 1361; Id., 24 marzo 1992 n. 381/89, in Giust. Civ., 1994, I, 847; Id., 2 agosto 1993 n. 158/91, in Dir. Lav., 1993, II, 449; Id., sez. I, 13 marzo 1997 n. 358 (Morellato c. Usl n. 11 Pordenone), in Informazione Prev., 1997, 249; Id., 5 marzo 1998 n. 347 (Soc. Solred c. Administracion General del Estado), in Cons. St., 1998, II, 1327.

[61] V. anche Corte Cost., 26 marzo 1993 n. 115, in Regioni, 1993, 1761, che afferma anzi che "la diretta applicabilità delle norme comunitarie rende inammissibile la questione di legittimità costituzionale della norma nazionale che si sospetti in contrasto…". Per Corte Cost., 10 novembre 1994 n. 384, in Riv. It. Dir. Pubbl. Comunit., 1995, 147, 469, le "norme contrarie al diritto comunitario…dovrebbero comunque essere disapplicate dai giudici e dalla p.a.". Cfr. pure Corte Cost., 16 giugno 1995 n. 249, in Dir. lav., 1995, II, 364. Per un certo periodo, l’orientamento della Corte di Giustizia non è stato condiviso dalla Corte Costituzionale, la quale, pur concordando sulla necessità di applicare le norme comunitarie, risolveva il contrasto tra queste e norme interne affermando l’equiparazione tra i due tipi di norme e la necessità di fare ricorso al criterio cronologico per risolvere tale antinomia, consentendo però così una deroga sistematica al diritto comunitario in base alla mera posteriorità temporale: cfr. Corte Cost., 24 febbraio 1964 n.14, in Giur. It., 1964, I, 1, 1311. Vista la posizione assunta dalla Corte di Giustizia, che affermava l’incondizionato primato del diritto comunitario (v. già Corte Giust., 2 luglio 1964 n. 6/64, in Foro it., 1964, IV, 137), la Corte Costituzionale cambiava in parte la propria posizione, riconoscendo la prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno (cfr. Corte Cost., 27 dicembre 1973 n.183, in Giur. It., 1974, I, 1, 513), e precisando che la norma comunitaria, se successiva, abroga implicitamente la legge interna previgente ed incompatibile mentre, se precedente, rende incostituzionale la norma interna, che dovrà così essere denunciata alla Corte Costituzionale: in questo senso v. Corte Cost., 30 ottobre 1975 n.232, in Giur. Cost., 1975, I, 2211; Cass. Civ., sez. I, 15 novembre 1979 n. 5946, in Giur. It., 1980, I, 1, 46; Tar Veneto, 21 novembre 1980 n. 845, in Riv. Amm., 1981, 602; Cass. Civ., sez. I, 9 dicembre 1982 n. 6705, in Rass. Avv. Stato, 1983, I, 55. Affermando così l’obbligo per il giudice interno di sollevare la questione di costituzionalità, ma senza la possibilità di disapplicare la normativa interna, partendo dal presupposto che la dichiarazione di incostituzionalità non soltanto non ostacola, ma facilita anzi la diretta applicabilità del diritto comunitario, a causa dell’effetto erga omnes e dell’efficacia ex tunc di tali dichiarazioni. La stessa Corte Cost. ha superato poi (8 giugno 1984 n. 170, in Giur. It., 1984, I, 1521) anche tale posizione, adottando una soluzione intermedia, e affermando che i due ambiti del diritto comunitario e del diritto nazionale sono autonomi, per cui la disciplina comunitaria opera nella sfera di sua competenza, e prevale nel caso di conflitto con una legge interna, perché "il giudice italiano accerta che la normativa comunitaria regola il caso sottoposto al suo esame e ne applica le disposizioni", tenendo presente che "le eventuali confliggenti statuizioni della legge interna non possono costituire ostacolo al riconoscimento della forza e valore che ciascun trattato conferisce al regolamento comunitario". Fuori degli ambiti di competenza dei Trattati, quindi, "la regola nazionale serba intatto il proprio valore e spiega la sua efficacia, e cioè soggiace al regime previsto per l’atto del legislatore ordinario, ivi incluso il controllo di costituzionalità". Tale indirizzo è stato ribadito dalla Corte, che ha riconosciuto la diretta applicabilità anche delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia (v. Corte Cost., 23 aprile 1985 n.113, in Giur. It., 1986, I, 1, 30; cfr. anche Cass. Civ., sez. I, 6 novembre 1992 n. 12024, in Giust. Civ., 1992) e delle sentenze di condanna emanate dalla stessa Corte di Giustizia (cfr. Corte Cost., 11 luglio 1989 n.389, in Giur. It., 1991, I, 1, 524). Dopo avere ammesso la diretta applicabilità dei regolamenti e delle sentenze, Corte Cost., 18 aprile 1991 n. 168, in Giur. It., 1992, I, 1652, ha affermato l’applicabilità diretta anche delle direttive comunitarie. In sostanza, la Corte escludeva tendenzialmente, da un punto di vista concettuale, la possibilità per il giudice nazionale di disapplicare in senso proprio la norma interna contrastante con quella comunitaria, principalmente in base alla ritenuta separazione dei due ordinamenti, preferendo parlare di "effetto di non applicazione, piuttosto che di disapplicazione, che evoca vizi della norma in realtà non sussistenti, in ragione proprio dell’autonomia dei due ordinamenti".

[62] Per i profili esposti cfr. Greco, Rapporti tra ordinamento comunitario e nazionale, in trattato di diritto amministrativo europeo, parte gen., Milano, 1997, 411, 420 ss. Anche Caranta, Tutela giurisdizionale (italiana, sotto l’influenza comunitaria), in trattato di diritto amministrativo europeo, parte gen., Milano, 1997, 656, ricorda come "il diritto comunitario impone ai giudici nazionali di sollevare ex officio il motivo dell’incompatibilità del provvedimento impugnato con disposizioni di fonte europea". Cass. Civ., sez. I, 29 agosto 1996 n. 7952, in Giust. Civ. mass., 1996, 1234, ha affermato l’obbligo per il giudice, in un caso in cui una norma nazionale si poneva in contrasto con una norma comunitaria, di disapplicare la prima, "anche d’ufficio, nella controversia inerente a pretesa dalla amministrazione finanziaria fondata sulla relativa norma". V. tuttavia Corte Cost., 7 novembre 1995 n. 482, in Riv. It. Dir. Pubbl. Comunitario, 1996, 749, secondo cui "Il rapporto tra le due fonti è di competenza e non di gerarchia o di successione nel tempo, con l'effetto che la norma nazionale diviene non applicabile se e nei limiti in cui contrasti con le disposizioni comunitarie precedenti o sopravvenute". V. anche Corte Giustizia, sez. IV, 26 settembre 1996 n. 168 (Commissione CE c. Arcaro), in Riv. Giur. ambiente, 1997, 249, ove si afferma che "il diritto comunitario non consente al giudice nazionale di disapplicare le disposizioni di diritto interno contrastanti con una disposizione di una direttiva non trasposta, qualora tale disposizione sia fatta valere dinanzi al giudice nazionale nei confronti di un singolo". Sembra tuttavia che la sentenza concernesse un caso di direttiva contenente norme non vincolanti.

[63] Così Tar Lombardia, sez. I Milano, 4 ottobre 1991 n. 629, in Tar, 1991, I, 4250. Come è stato chiarito, "la normativa comunitaria è direttamente applicabile all’ordinamento degli Stati membri, con conseguente disapplicazione delle norme nazionali con essa contrastanti, quando la direttiva comunitaria rechi disposizioni puntuali che non consentano allo Stato membro alcun apprezzamento discrezionale applicativo": Cons. St., sez. VI, 20 giugno 1996 n. 843, in Cons. St., 1996, I, 1015. Analogamente Cass., sez. lav., 3 febbraio 1995 n. 1271, in Riv. It. Dir. pubbl. comunit., 1996, 1021. V. anche, fra le tante, Cons. St., sez. IV, 5 giugno 1998 n. 918, in Cons. St., 1998, I, 806; Cass., sez. lav., 7 marzo 1997 n. 2065, in Tar, 1997, II, 1216; Id., sez. un., 12 aprile 1996 n. 3457, in Corriere trib., 1996, 2031; Cons. St., sez. IV, 18 gennaio 1996 n. 54, in questa rivista, 1996, 1, I, 78.

[64] Infatti, come afferma La Valle, Cognizione principale ed incidentale dei regolamenti nel giudizio amministrativo, cit., 145, "il dovere di disapplicazione della norma soccombente da parte del giudice non è che il riflesso processuale di siffatta norma sulla gerarchia delle fonti", oltre che – come precisato da Tar Toscana, sez. I Firenze, 18 febbraio 1998 n. 60, in Tar, 1998, I, 1410 – dell’inapplicabilità della norma illegittima: "nel caso di conflitto tra norme comunitarie e nazionali, le prime, in quanto di rango superiore, prevalgono su quelle nazionali e, seppure non determinino effetti estintivi della norma interna,…tuttavia comportano l’inapplicabilità…della norma stessa …". Per Giacchetti, Profili problematici della cosiddetta illegittimità comunitaria, in Giur. Amm. sic., 1992, 879 ss., "la disapplicazione dovrebbe far saltare il normale sistema delle impugnazioni".

[65] V. poi Greco, Incidenza del Diritto Comunitario sugli atti amministrativi italiani, in trattato di diritto amministrativo europeo, parte gen., Milano, 1997, 571, il quale rileva che, oltre alle disposizioni immediatamente applicabili, "anche le direttive non ancora attuate, né immediatamente applicabili, possono comunque costituire parametro di legittimità del singolo provvedimento amministrativo, restringendone la discrezionalità. La relativa violazione, infatti, se non rileva sotto il profilo della violazione di legge, può pur sempre essere idonea a configurare gli estremi dell’eccesso di potere". Effetto analogo, rileva l’Autore, op. cit., 575 s.s., è da attribuire alla violazione di comunicazioni della Commissione, di raccomandazioni e pareri, "non già, necessariamente, nel senso che detti atti (non essendo vincolanti) limitino l’ambito di scelta discrezionale; ma quanto meno – conformemente ai pareri non vincolanti, di origine nazionale – nel senso che agli stessi debba essere dato rilievo in sede di motivazione, esplicitando in particolare le ragioni per le quali la singola amministrazione reputi eventualmente di discostarsene". Contra, a proposito delle comunicazioni, Corte di Giustizia, 27 novembre 1991 n. 199/90, in Riv. It. Dir. Pubbl. com., 1992, 1040; Id., 16 giugno 1993 n. 325 (Repubblica francese c. Commissione CE), ivi, 1993, 858.

[66] C’è da dire, inoltre, conformemente a quanto si dirà in generale per il processo amministrativo di legittimità, che una conseguenza dell’impostazione chiarita è che l’illegittimità comunitaria di un provvedimento amministrativo non dovrebbe necessariamente costituire oggetto di uno specifico, tempestivo e rituale motivo di censura, ma dovrebbe poter essere liberamente dedotta in qualsiasi momento ed essere rilevata d’ufficio dal giudice. Cfr., in questi termini, Giacchetti, loc. cit.

[67] Cannada-Bartoli, La disapplicazione nel processo amministrativo, cit., 153. In termini analoghi Giacchetti, loc. cit., che sembra però limitare l’equiparazione tra vizi c.d. di legittimità comunitaria e vizi di legittimità nazionale ai "vizi derivanti dalla violazione di norme interne che recepiscono direttive o decisioni comunitarie". Oltretutto, come rilevato da Greco, op. ult. cit., 561, "l’atto amministrativo, allorchè risulti inficiato da un vizio scaturente dalla inapplicabilità di una legge nazionale", per contrasto di quest’ultima con un atto normativo comunitario direttamente applicabile, "presenta una patologia valutabile alla stregua dei comuni canoni della illegittimità-annullabilità, così come si reputa che avvenga nel caso di applicazione di una legge incostituzionale. Il tutto con le ovvie implicazioni del caso: onere di tempestiva impugnazione, onere di deduzione di specifici motivi del ricorso, inoppugnabilità, ecc". V. invece Tar Umbria 23 aprile 1996 n. 176, in Tar, 1996, I, 2573: "…il giudice amministrativo ha il potere di disapplicare i regolamenti e le altre fonti normative secondarie contrastanti con la legge…", poiché, "diversamente, a fronte del potere dei giudici di provocare il giudizio di legittimità costituzionale…, il giudice amministrativo dovrebbe invece irrefutabilmente applicare le norme regolamentari illegittime". Lo stesso Greco, op. ult. cit., 598, pur dopo avere affermato che gli "atti normativi a regime amministrativo,…pur essendo censurabili senza limiti di tempo, non sono tuttavia disapplicabili d’ufficio, dato che devono pur sempre essere impugnati, congiuntamente al provvedimento applicativo", rileva però che "l’unica eccezione, che si può registrare nel giudizio amministrativo, è quella relativa alla disapplicabilità degli atti di normazione secondaria, ove questi incidano su posizioni di diritti soggettivi e non di interessi legittimi", e che "non è da escludere che, proprio per il varco aperto da tale eccezione, si possa sostenere una disapplicabilità generale degli atti normativi secondari, inficiati da illegittimità comunitaria".

[68] Tanto da fare affermare che "sembra difficile, invero, scalzare un simile ragionamento": così A. Romano, Osservazioni sull’impugnativa dei regolamenti della pubblica amministrazione, cit., 944. V. poi, fra le tante pronunce, Cass., sez, lav., 14 febbraio 1997 n. 1345, in Lavoro nella giur., 1997, 956; Cons. St., sez. V, 24 maggio 1996 n. 597, in questa rivista, 1996, 5, I, 1560.

[69] L’atto amministrativo inoppugnabile ed i limiti dell’esame del giudice civile, in Studi in onore di Federico Cammeo, I, Padova, 1933, 149 s.s.

[70] Fermo restando che "il riesame di un provvedimento ormai inoppugnabile non costituisce un dovere per l'amministrazione, che può procedervi solo qualora ritenga che ciò soddisfi ad un interesse pubblico, la cui valutazione è rimessa al suo apprezzamento discrezionale…": Cons. St., sez. VI, 10 giugno 1991 n. 356, in Cons. St., 1991, I, 1034.

[71] Si tratta, precisa Bracci, op. cit., 152, di "determinare la posizione dell’atto amministrativo secondo che tutte, o solo alcune, oppure nessuna di queste varie possibilità, possano ancora verificarsi; e successivamente sorge il problema di quale influenza può avere il fatto che alcune di tali possibilità di modificazione siano esaurite, sulla facoltà di far luogo alle altre, e quali limiti può incontrare l’esame dell’atto…in una data sede, per la circostanza che esso è divenuto in altra sede irretrattabile".

[72] Op. cit., 152 ss. Bracci chiarisce il suo pensiero facendo l’esempio di una sentenza di appello che, una volta passata in giudicato, non è più suscettibile di ricorso per cassazione ed è, quindi, definitiva come accertamento. Il fatto poi che la sentenza sia ancora suscettibile di revocazione e di opposizione di terzo, non impedisce di considerarla ugualmente come definitiva, "perché quando è decorso il termine per ricorrere in Cassazione è chiusa la possibilità di ulteriori stadi del rapporto processuale".

[73] "In quelle materie in cui l’ordinamento prevede dei ricorsi amministrativi (…), le relative procedure assolvono alla funzione di porre l’amministrazione in condizione di pronunciare, in contraddittorio con gli interessati, una sua parola giustiziale definitiva": Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XV, Napoli, 1989, 1206.

[74] Tali atti, precisa Bracci, sono ad esempio quelli che "hanno costituito l’esercizio di un potere provvisorio che poi è venuto a mancare, oppure quelli che hanno dato luogo a diritti soggettivi perfetti".

[75] Op. cit., 154-155.

[76] In questi termini Giannini, Atto amministrativo, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 189. V. Lugo, La dichiarazione incidentale d’inefficacia dell’atto amministrativo, cit., 59, nonché Zanobini, Corso di diritto amministrativo, I, Milano, 1958, 330, a proposito di un presunto consolidamento dell’atto. Cfr. anche Piccardi, Sulla disapplicazione degli atti amministrativi, cit., 684. V. poi anche Jaeger, Annullamento e disapplicazione di atti amministrativi illegittimi, cit., 22, secondo cui "in questo caso, l’acquiescenza dell’interessato fa…venir meno la rilevabilità del vizio dell’atto, o meglio neutralizza questo vizio", con la conseguenza "di rendere l’atto conforme alla volontà della legge". A parte il fatto che un atto illegittimo non può certo diventare "conforme alla volontà della legge" semplicemente a seguito di un inutile decorso di termini, c’è da dire, come precisa Sandulli, op. ult. cit., 710, che l’acquiescenza "consiste in manifestazioni espresse o tacite che rivelano, in chi potrebbe essere interessato alla caducazione dell’atto invalido, l’accettazione volontaria e spontanea delle conseguenze dell’atto", operando cioè, a differenza dell’inoppugnabilità, "sia sul piano sostanziale che su quello giustiziale". Sul punto cfr. anche Domenichelli, Il processo amministrativo, in Diritto amministrativo, a cura di Mazzarolli ed Altri, Bologna, 1998, 1859, il quale precisa che "l’acquiescenza è invero una rinuncia preventiva al ricorso", ravvisabile esclusivamente in presenza di comportamenti che rivelino in modo certo e univoco la volontà dell’interessato di accettare il contenuto del provvedimento a lui sfavorevole. Al contrario dell’acquiescenza, quindi, l’inoppugnabilità non preclude l’esperibilità di altri rimedi, come ad esempio il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Per Stella Richter, L’inoppugnabilità, cit., 20, il considerare l’inoppugnabilità come una caratteristica direttamente attribuibile all’atto come tale è da considerare assolutamente inammissibile. Da Jaeger, lc. cit., è stata posta un’analogia tra inoppugnabilità e cosa giudicata, perché l’atto inoppugnabile, "che avrebbe potuto essere impugnato come illegittimo, deve essere considerato come (già giudicato) legittimo". Tale analogia è stata prospettata anche da Stella Richter, op. cit., 35, il quale chiarisce però in nota che "il riferimento…alla cosa giudicata sostanziale va inteso solo come parallelo, per chiarire che l’indagine dovrà essere orientata non più verso l’irrevocabilità dell’atto, ma…verso l’incontestabilità degli effetti dello stesso". E ciò per la dovuta ammissione che non può ulteriormente essere posto in discussione "che il concetto della cosa giudicata sia caratteristico ed esclusivo della giurisdizione, e non applicabile agli atti amministrativi".

[77] "In questo senso deve essere intesa la affermazione comune che la esecutorietà degli atti amministrativi si fonda su una presunzione di legittimità: questa presunzione è soltanto uno dei motivi per cui il legislatore ha senz’altro attribuito alla volontà dell’amministrazione la forza di produrre certi effetti. Ma tale forza deriva dalla legge, la quale...soddisfa una necessità dell’azione amministrativa": così Bracci, op. cit., 156. Analogamente Treves, La presunzione di legittimità degli atti amministrativi, Padova, 1936, 155, 82, e passim. Cfr. anche Stella Richter, op. cit., 19.

[78] Cannada-Bartoli, L’inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, 24. Analoghe considerazioni in La tutela giudiziaria del cittadino verso la pubblica amministrazione, cit., 180, dove però l’inoppugnabilità viene definita "una qualità estrinseca dell’atto". In sostanza, la decadenza consolida l’atto solo in quanto ne impedisce l’annullamento a seguito di ricorso, ma "non aggiunge però nulla alla preesistente produttività di effetti, nè trasforma in presunzione juris et de jure di legittimità una presunzione juris tantum, che come presunzione in concreto neppure esiste, essendo solo un motivo che ha determinato il legislatore ad attribuire questa forza agli atti amministrativi, e che giustifica il privilegio di cui essi godono": così Bracci, op. cit., 156. Analogamente Domenichelli, Giurisdizione esclusiva e disapplicazione dell’atto amministrativo invalido, in Jus, 1983, 171.

[79] Cfr. Treves, op. cit., 193. L’effetto immediato della presunzione di legittimità "può consistere piuttosto in una dispensa dall’azione in giudizio, in una inversione dell’onere dell’azione, se si considera in relazione a quanto avviene in diritto privato, dove, non presumendosi, di regola, legittima la pretesa, è necessario il ricorso al magistrato di chi la formula": Id., op. cit., 164. In sostanza, a carico del privato non c’è una inversione dell’onere della prova, perché normalmente "il privato è attore e, come avviene per ogni attore in via d’annullamento,…deve dimostrare la presenza di un vizio dell’atto amministrativo", con la conseguenza che "la presunta legittimità non ha allora nessun riflesso sulla prova in giudizio". Anzi, "in questo la situazione dell’atto amministrativo è…peggiore di quella dell’atto privato, poiché…il giudice può a volte prendere in considerazione anche d’ufficio i vizi che cagionano l’annullabilità del primo, mentre non ha lo stesso potere nei confronti del secondo".

[80] V. Cannada-Bartoli, op. ult. cit., 24 s.s., nonché R. Alessi, Spunti in tema di pregiudizialità nel processo amministrativo, cit., 7, e Domenichelli, op. ult. cit., 170 ss. Se non si ammette la disapplicazione dell’atto inoppugnabile "si è costretti…a subordinare l’esperibilità dell’azione giudiziaria al termine per ricorrere al Consiglio di Stato, conseguenza palesemente errata": Cannada-Bartoli, La tutela giudiziaria, cit., 180. Oltretutto, come nota Stella Richter, op. cit., 65, l’unica norma che prevede la disapplicazione "non distingue affatto tra atti ancora impugnabili ed atti non più impugnabili". Contra, Cass., sez. un., 11 luglio 1955 n. 2194, in questa rivista, 1956, II, 1,18. Per quanto riguarda poi il secondo dato, si può verificare l’esplicazione del potere di autoannullamento da parte della stessa autorità emanante – o ad opera di autorità gerarchicamente superiori – oppure quello previsto dall’art.6 del T.U. L. com. e prov. del 1934 (r.d. 3 marzo 1934, n. 383). Chi invece distingue i due poteri, è indotto a chiedersi se anche l’annullamento d’ufficio possa concernere, come quello governativo, atti inoppugnabili: Cannada-Bartoli, Annullabilità e annullamento, in Enc. dir., II, Varese, 1958, 491 ss.

[81] Così Bracci, op. cit., 156.

[82] Così Cannada-Bartoli, L’inoppugnabilità, cit., 26. A dimostrazione ulteriore, basta rilevare il dato per cui anche una sentenza del giudice amministrativo che abbia respinto, nel merito, un ricorso teso all’annullamento di un atto, non contiene alcun accertamento assoluto della legittimità dell’atto stesso, rispetto al quale i poteri di autotutela dell’Autorità amministrativa non risultano comunque limitati, se non sotto il profilo della impossibilità di annullare l’atto per i vizi specificamente riconosciuti inesistenti. V. Cannada-Bartoli, Annullamento di ufficio ed inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi (nota a Cons. St., sez. VI, 30 settembre 1964, n. 654), in questa rivista, 1964, 143 ss. Dello stesso Autore v. anche Disapplicazione di provvedimento inoppugnabile e giurisdizione della Corte dei Conti (nota a Corte dei Conti, sez. IV, pens.mil., 4 dicembre 1963 n.16979), in questa rivista, 1964, II, 232, ove si ribadisce che l’inoppugnabilità si forma per il decorso dei termini per l’impugnativa, e di conseguenza vale per il privato, non per l’amministrazione.

[83] Cfr. Bracci, op. cit., 156.

[84] Così Sandulli, op. ult. cit., 710. Pertanto, "il ricorso contro un atto inoppugnabile deve essere dichiarato irricevibile per l’avvenuta decorrenza del termine e non inammissibile, argomentando in base ad una supposta qualità dell’atto": Cannada-Bartoli, L’inoppugnabilità, cit., 33. Tale discorso, peraltro, richiama l’altro problema, strettamente connesso, della formazione progressiva dell’inoppugnabilità, perché "fra i soggetti passivi…occorrerebbe distinguere coloro che sono decaduti dall’impugnativa e per i quali il provvedimento è divenuto inoppugnabile, da coloro che ancora possono ricorrere": cfr. Cannada-Bartoli, op. ult. cit., 27 ss. Come rilevato da Sandulli, lc. cit., "poiché il termine per l’impugnazione…non comincia…a decorrere se non dal momento in cui chi vi abbia interesse abbia avuto conoscenza dell’atto, può talvolta accadere che l’effetto dell’inoppugnabilità non si produca". Analogamente Cerulli Irelli, Corso di Diritto Amministrativo, Torino, 1997, 628, il quale ritiene però che, una volta scaduto il termine di decadenza, ulteriori vizi di illegittimità, anche se conosciuti solo in seguito, possano essere dedotti soltanto con motivi aggiunti. V. anche Cannada-Bartoli, La difesa del controinteressato e la disapplicazione dei provvedimenti amministrativi, in Scritti in memoria di A. Giuffrè, III, Milano, 1967, 193, che sottolinea come gli errori della giurisprudenza siano frutto della "erronea convinzione che l’inoppugnabilità…prescinda dall’interesse all’impugnativa o dalla conoscenza dell’atto".

[85] Cfr. Sandulli, lc. cit. V. Tar Marche, 7 febbraio 1997 n. 72, in Tar, 1997, I, 1407; Cons. St., sez. V, 22 novembre 1996 n. 1393, in questa rivista, 1996, 3281. Nel processo civile, invece, "l’interesse ad agire con l’azione di mero accertamento non implica necessariamente l’attuale verificarsi della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva sull’esistenza di un rapporto giuridico e sull’esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti, costituendo la rimozione della detta incertezza un risultato utile e giuridicamente rilevante…": Cass., sez. lav., 28 giugno 1997 n. 5819, in Nuova giur. civ., 1998, I, 716. V. anche P. Virga, Diritto amministrativo, Atti e ricorsi, II, Milano, 1997, 313, in riferimento alla prova di resistenza che deve essere superata, ad esempio, nel caso di ricorsi diretti ad ottenere l’annullamento di una graduatoria di pubblico concorso. Per l’esame di un’ampia casistica giurisprudenziale v. Silvestri, Le parti del processo amministrativo, in Il diritto amministrativo nella giurisprudenza, a cura di Falcone e Pozzi, 2, Torino, II, 1998, 840 s.s.

[86] A proposito degli atti sottoposti a controllo v. Federici, Atto e provvedimento lesivo, conoscenza legale e piena conoscenza in riferimento all’inizio della decorrenza dei termini per ricorrere contro provvedimenti, delle Regioni ordinarie e degli Enti locali, sottoposti a controllo preventivo (nota a Cons. St., Ad. pl., 22 ottobre 1985 n.20), in Dir. proc. amm., 1986, 605. V. poi Cannada-Bartoli, Dubbi sui controlli, in questa rivista, 1991, 61, a proposito degli atti eseguiti anticipatamente, e quindi da impugnare. Pifferi, Sulla impugnativa degli atti soggetti a controllo (nota a Cons. St., sez. V, 21 febbraio 1987 n.111), in Riv. amm., 1988, III, 1388, osserva che "per la presentazione del gravame è, quindi, sufficiente la conoscenza dell’esistenza dell’atto e della sua lesività". Pugliatti, Pubblicità, pubblicazione, conoscenza effettiva e presunzione di conoscenza (nota a Cons. St., sez. IV, 8 aprile 1960 n.344), in questa rivista, 1960, I, 807, esclude la vigenza di un onere di conoscenza a carico del privato del realizzarsi della condizione di efficacia dell’atto. V. Cons. St., sez. IV, 29 gennaio 1998 n. 112, in Cons. St., 1998, I, 39, a proposito della possibilità di disapplicare circolari.

[87] In questo senso la giurisprudenza è costante. Fra le tante, v. Tar Piemonte, sez. II, 21 dicembre 1996 n. 649, in questa rivista, 1997, 840; Cons. St., sez. VI, 22 ottobre 1983 n.748, in Quaderni reg., 1983, 1515. Id., sez. V, 21 maggio 1984 n.374, in Cons. St., 1984, I, 553, precisa che "è inammissibile per carenza di interesse il ricorso giurisdizionale volto contro un atto consequenziale di altro presupposto non impugnato, dato che l’annullamento del primo non varrebbe a rimuovere la situazione sfavorevole già determinata dal secondo". Per la possibilità di impugnare l’atto consequenziale per vizi propri v. Cons. St., sez. VI, 5 maggio 1986 n.357, in Cons. St., 1986, I, 698. Qualora l’atto presupposto sia stato impugnato, si ritiene che a carico dell’interessato sorga l’onere di impugnare anche l’atto consequenziale in senso stretto, al fine di evitare l’improcedibilità del primo ricorso per sopravvenuta carenza di interesse: cfr. Cons. St., sez.V, 6 marzo 1991 n.210, in questa rivista, 1991, 695. Contra Id., sez. VI, 28 giugno 1995 n. 635, in Cons. St., 1995, 920. Sugli atti esecutivi cfr. Cons. St., sez. V, 19 febbraio 1997 n. 170, in questa rivista, 1997, 469. Sugli atti confermativi v. Cannada-Bartoli, Conferma, in Enc. Dir., VIII, Varese, 1961, 858. In giurisprudenza v., da ultimo, Cons. St., sez. IV, 12 febbraio 1997 n. 103, in questa rivista, 1997, 438.

[88] Come nel caso tipico di un regolamento di cui il provvedimento lesivo sia applicazione. Tuttavia, talvolta, si precisa più attentamente che "ai fini dell’onere di diretta impugnazione del regolamento immediatamente lesivo, il requisito dell’attualità della lesione dell’interesse dedotto in giudizio va accertato in concreto, con riferimento, cioè, all’entità e alle modalità dell’incidenza effettuale, e non semplicemente ipotetica ed eventuale, dell’atto regolamentare nella sfera giuridica dei ricorrenti": Cons. St., sez. IV, 19 ottobre 1993 n. 897, in Cons. St., 1993, I, 1216.

[89] V., fra le tante, Cons. St., sez. V, 18 agosto 1997 n. 918, in Cons. St., 1997, I, 1061; Id., sez. V, 28 giugno 1952 n.1032, in Giur. it., 1953, III, 72. In altri casi, invece, ciò non viene ritenuto sufficiente, perché si afferma che "in tanto è possibile conseguire l’annullamento dell’atto applicativo viziato di invalidità derivata, in quanto sia previamente intervenuto, con effetto di giudicato, l’annullamento dell’atto presupposto": Cons. St., sez. V, 16 gennaio 1981 n. 3, in questa rivista, 1981, I, 1, 44.

[90] Oltretutto, come affermato da Baccarini, La parabola della non disapplicabilità dei regolamenti amministrativi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 162, "se non c’è onere di impugnazione, non c’è nemmeno ragione di escludere la disapplicazione". Domenichelli, op. ult. cit., 170 ss., afferma che non può essere precluso al giudice amministrativo "di accertare l’illegittimità e quindi di non applicare l’atto amministrativo che non potè essere impugnato per difetto di interesse,…e che peraltro rilevi in quanto presupposto dell’atto impugnato con il ricorso". I rilievi di Domenichelli sono peraltro interessanti, perché prendono in considerazione l’ipotesi che un atto possa diventare invalido successivamente alla sua emanazione. Curioso notare che può anche succedere che un atto applicativo da impugnare non esista neppure, come nel caso deciso da Tar Marche, 12 febbraio 1980 n. 228, in Giur. cost., 1980, II, 763, in cui si rilevava che la concreta inosservanza dell’art.9, comma 2, l. n.1034/1971, secondo cui presso ciascun T.A.R. devono essere nominati non meno di cinque magistrati, comporti l’illegittimità di ogni decreto presidenziale di composizione che contempli un numero inferiore di magistrati. Il Tribunale, trovandosi in una situazione di organico inferiore a quella prevista dalla legge, avrebbe dovuto decidere con una composizione del collegio illegittima, a causa dell’incompatibilità in cui si trovavano due dei giudici (impugnazione di provvedimento di Comitato regionale di controllo, composto anche da due giudici proprio dello stesso Tar). Unica alternativa avrebbe potuto essere, come precisa il collegio, la possibilità di disapplicare il decreto presidenziale che stabiliva la composizione del Tribunale, con la possibilità di procedere a designazioni sostitutive utilizzando magistrati appartenenti ad uffici giudiziari finitimi. Ma poiché il Tribunale esclude di potere disapplicare, non ha altra possibilità se non quella di sollevare la questione di costituzionalità riguardante, tra l’altro, l’art.26 della legge n.1034 del 1971, nella parte in cui non prevede la disapplicazione incidenter tantum di un atto amministrativo, rilevando come questo "sarebbe dotato di una forza di resistenza superiore alla legge". Oltretutto il collegio afferma che "il termine perentorio di impugnazione matura automaticamente anche se l’interesse sopraggiunga successivamente". Ora, al di là del fatto che il caso in questione possa essere considerato un caso limite, e di come la questione di costituzionalità avrebbe potuto essere decisa (la questione non è stata decisa nel merito, visto che Corte Cost., 23 gennaio 1985 n. 12, in Giur. Cost., 1985, 36, ha restituito gli atti al giudice a quo, perché riesaminasse la questione alla luce della sopravvenuta L. 27 aprile 1982, n. 187), è comunque importante rilevare che in assenza di una legittimazione a ricorrere, e di un interesse qualificato ad agire, il termine di decadenza non poteva cominciare a decorrere.

[91] Va considerato "un errore l’affermare…che l’atto non impugnato perché al momento della sua emanazione non produceva alcuna lesione di interessi, diventi impugnabile quando tale lesione, in un momento successivo, venga a verificarsi, con decorrenza del termine per l’impugnativa dalla data appunto in cui essa si verifica": Piccardi, op. cit., 684. L’Autore precisa però che "se il regolamento può essere impugnato congiuntamente all’atto che ne fa applicazione, ciò non è perché soltanto con l’applicazione si determini la lesione di interessi", ma perché gli effetti giuridici degli atti regolamentari sono condizionati all’emanazione di altri atti, per cui "manca oggettivamente una possibilità di lesione di interessi". C’è da dire, però, che la produzione degli effetti giuridici dell’atto presupposto non è "condizionata" all’emanazione di altri atti, bensì, più semplicemente, ad essi "rinviata". L’impostazione del testo, tra l’altro, diverge da quella di Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, cit., 193, secondo il quale un problema di disapplicazione non può essere posto per qualsiasi atto presupposto – come nel caso in cui il primo atto si atteggi soltanto come precedente (e, quindi, come mero presupposto di fatto) del secondo – ma soltanto in relazione agli atti legati a quello direttamente impugnato da un rapporto di "preordinazione funzionale". Dagli esempi proposti (regolamento ed atti applicativi, autorizzazione ed atto autorizzato) è dato ricavare che per tali atti vanno intesi quelli che attribuiscono un potere o ne regolano l’esercizio, e che pertanto non producono immediatamente effetti giuridici – capaci di incidere su interessi di altri soggetti – ma costituiscono il presupposto giuridico di altri atti, dai quali soltanto tali effetti derivano. Di conseguenza, un problema di disapplicazione potrebbe essere posto solo in quei casi in cui l’atto lesivo sia stato emanato in applicazione o in osservanza dell’atto che a suo tempo non era impugnabile. Ora, se si può essere d’accordo con tale posizione per ciò che concerne gli atti preparatori, esecutivi e simili, per quanto riguarda invece quegli atti che fungono spesso da semplice precedente di successivi atti, Sandulli dà per scontato che gli atti presupposti in questione siano necessariamente atti che l’interessato avrebbe potuto impugnare e non ha invece impugnato, incorrendo perciò nella decadenza dei termini. Infatti, "la nozione di atto presupposto implica, in riferimento ad atti di un unico procedimento amministrativo, ovvero anche ad atti autonomi, l’esistenza di un collegamento fra gli atti stessi così stretto nel contenuto e nel modo di operare, da far ritenere che quelli successivi siano emanazione di quelli precedenti, nel senso che vi sia uno stretto rapporto di derivazione tra essi tale che i primi siano in concreto tanto condizionati dai secondi nella statuizione e nelle conseguenze da non potersene discostare": così Cons. St., sez. V, 15 ottobre 1986 n.544, in Cons. St., 1986, I, 1530.

[92] V. Guicciardi, Sul termine per l’impugnativa dei provvedimenti "in corso" (nota a Cons. St., sez. IV, 30 dicembre 1949 n. 435), in Giur. it., 1950, III, 131, a proposito del fatto che l’art.36 del T.U. sul Consiglio di Stato "fa decorrere il termine per l’impugnativa dalla conoscenza dell’atto, e non dell’intenzione di emanarlo, anche se già attuata fino ad un certo punto". V. anche Cassarino, L’impugnabilità degli atti amministrativi in corso di perfezionamento, in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, 839.

[93] Emblematico il caso deciso da Cons. St., sez. VI, 22 ottobre 1983 n.748, cit., ivi, in cui l’affermazione di illegittimità del provvedimento da parte dell’appellante si fondava anche sul fatto che il parere reso nell’ambito del procedimento amministrativo fosse da considerare illegittimo, in quanto illegittima era la composizione della Commissione che lo aveva rilasciato. Il collegio, confermando quanto già sostenuto da Tar Puglia, 29 settembre 1982 n. 346, in Giur. agr. it., 1984, 370, afferma che "i vizi attinenti alla nomina dei membri della Commissione per l’assegnazione di terre incolte avrebbero dovuti esser fatti valere con l’impugnazione del provvedimento di nomina, che il giudice amministrativo non può disapplicare nel corso del giudizio concernente un atto diverso (nella specie il parere reso dalla Commissione)". Ora, a parte il fatto che il giudizio concerneva il provvedimento conclusivo del procedimento, e non il parere reso dalla commissione, sembra più che evidente che la ricorrente non avrebbe mai potuto impugnare, per assoluta carenza di interesse, il suddetto decreto di nomina. Altrimenti si sarebbe dovuto ipotizzare che al momento della nomina della Commissione fossero già noti i casi per i quali la Commissione avrebbe dato parere favorevole, e anche in questo caso la nomina non sarebbe stata impugnabile, perché lesiva soltanto potenzialmente. Ma il dato più rilevante è costituito dalla constatazione che la nomina non avrebbe avuto motivo di essere impugnata neanche al momento dell’impugnazione del provvedimento conclusivo, cioè al momento dell’effettiva lesione degli interessi sostanziali della ricorrente. Infatti, non era dalla nomina della Commissione che alla ricorrente derivava una lesione dei suoi interessi, ma, eventualmente, dal "parere" da essa reso, che concretamente la riguardava. V. anche Tar Lazio, sez. I, 10 giugno 1988 n. 864, in questa rivista, 1989, 259, in un caso di negata disapplicazione di atto applicativo di regolamento, illegittimo perché emanato in assenza del previsto parere di altro organo.

[94] La Valle, op. cit., 154-157. Similmente Baccarini, Il Consiglio di Stato folgorato sulla via della disapplicazione dei regolamenti, in Dir. proc. amm., 1994, 573. Contra Benvenuti, L’impugnazione dei regolamenti, in questa rivista, 1982, II, 539. Per Amorth, Impugnabilità e disapplicazione dei regolamenti e degli atti generali, in Problemi del processo amministrativo, Milano, 1964, 565, la lesione deriva sempre dalla disposizione regolamentare, "sia che questa disposizione sia già in grado di produrla direttamente, sia che occorra un provvedimento applicativo". Di conseguenza, andrebbero impugnati entrambi gli atti, essendo la lesione da essi "comprodotta". Analogamente Volpe, La disapplicazione dei regolamenti nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 178 ss. Amorth, tuttavia, op. cit., 571, cerca poi una soluzione di compromesso, avanzando l’ipotesi che sia possibile rinvenire nel ricorso "una impugnazione implicita della disposizione regolamentare, allorchè vi sia una impugnazione formalmente ineccepibile del provvedimento applicativo, e quella relativa alla disposizione regolamentare non risulti invece enunciata, ma la pretesa lesione del ricorrente sia fatta risalire ad entrambi". V. però Vacirca, Appunti sulla disapplicazione dei regolamenti illegittimi nel giudizio amministrativo, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 245, secondo cui "se si considera l’invalidazione del regolamento come un’impugnazione, soggetta a un termine di decadenza,…si finisce col negare tutela agli interessi legittimi lesi dagli ulteriori atti applicativi".

[95] In questi termini Baccarini, La parabola della non disapplicabilità dei regolamenti, cit., 162. Sembra quindi tutta da dimostrare l’affermazione, di Tar Lazio, sez. Latina, 20 gennaio 1983 n. 11, in Tar, 1983, I, 461, secondo la quale "il giudice amministrativo non può accertare incidenter tantum la legittimità di un atto presupposto di quello impugnato,…in quanto tale censura si risolve nella inammissibile richiesta di disapplicazione di un atto estraneo al thema decidendum".

[96] La distinzione è di A. Romano, op. ult. cit., 894, per il quale la prima categoria di norme corrisponde a quelle che egli definisce volizioni-azioni, mentre la seconda alle volizioni preliminari, per cui l’unico modo per accertare che un atto costituisce una volizione preliminare consiste nel rilevare la necessità di un successivo provvedimento, per raggiungere l’effetto giuridico desiderato; così come, viceversa, l’unico modo per accertare che una volizione è concreta ed efficace consiste nel rilevare che essa raggiunge immediatamente l’effetto giuridico voluto. V. in proposito Medugno, La disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo da parte del giudice ordinario e la non applicazione della norma contenuta nel regolamento contrario alla legge da parte del giudice amministrativo, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 171, secondo cui "poco persuasivo" appare il riferimento ad una tale distinzione, in quanto, sebbene un atto regolamentare possa atteggiarsi, in astratto, come volizione preliminare, nel momento in cui vi è stato l’effettivo esercizio del potere, ed è sorta questione sulla legittimità dell’atto direttamente impugnato, "la norma di regolamento controversa ha assunto…una concreta attitudine lesiva: tale da imporre…la proposizione di gravame incidentale allo scopo di paralizzarne gli effetti". Secondo lo stesso Romano, comunque, questa stessa distinzione può essere considerata relativa, nel senso che "un determinato atto, che rispetto a un certo effetto giuridico si pone come volizione-azione,…rispetto a un altro effetto giuridico può essere considerata come una volizione preliminare…" (come nel caso del bando di concorso). Contra v. Meregazzi, L’annullamento giurisdizionale dei regolamenti, in Scritti in memoria di A. Giuffrè, 1967, 595, secondo il quale "la duplice qualificazione è possibile anche per raggiungere l’identico effetto giuridico, attesa la diversa situazione dei soggetti appartenenti alla medesima categoria che la norma contempla". Viene fatto in tal senso l’esempio di una norma di un regolamento organico che preveda l’applicazione di una certa disciplina nei confronti di tutti coloro che si trovino in una certa situazione: per i soggetti che si trovino già nella situazione prevista la norma sarà immediatamente lesiva, e quindi impugnabile, e dal momento della sua emanazione decorrerà il termine di decadenza, mentre per gli altri soggetti, già dipendenti, la norma, sempre in ordine allo stesso effetto giuridico, si porrà soltanto come regola futura per l’amministrazione, senza perciò che decorra alcun termine. Tuttavia, precisa Baccarini, Il Consiglio di Stato folgorato, cit., 572, "quel che rileva nella relazione tra atto regolamentare ed atto applicativo è soltanto l’effetto in base al quale si determina la lesione, ed a nulla conta che l’atto regolamentare presupposto sia produttivo di altri effetti, che non vengono in considerazione…".

[97] Vale a dire che "non è sufficiente una mera minaccia, per quanto imminente, o anche una certezza che questa modificazione si verificherà in un momento futuro più o meno determinato": cfr. A. Romano, op. ult. cit., 883. Vale a dire che "il concetto di ricorso suppone quello di interesse che si sostiene già leso", e che "la semplice possibilità di futura violazione non è sufficiente": così già Cons. St., sez. IV, 4 febbraio 1910, in Foro it., 1910, III, 65, con nota adesiva di U. Forti, ivi. V. però Tar Lombardia, Milano, 31 dicembre 1982 n.1370, in Riv. Giur. Turismo, 1984, IV, 18, secondo cui "ai fini della proposizione dell’impugnativa sussiste l’interesse immediato ad agire allorché il pregiudizio per l’interesse del ricorrente, anche se non si è già verificato al momento dell’adozione del provvedimento, certamente si verificherà in futuro; in questo caso, infatti, l’interesse processuale a rimuovere la causa attuale del pregiudizio futuro sorge immediatamente, perché anche in questo caso la lesione deriva immediatamente e direttamente dall’atto". L’anomalia della posizione, peraltro, deriva anche dal fatto che la stessa sentenza ammette che il pregiudizio è, comunque, futuro. Qualche Autore, comunque, seppure non di recente, ha ammesso il ricorso contro il regolamento, anche se possa solo eventualmente pregiudicare l’interesse del ricorrente, perché la giurisdizione del Consiglio di Stato avrebbe natura obbiettiva: così Ragnisco, Sull’interesse a ricorrere contro le disposizioni regolamentari, in La legge, 1908, 697. Si sono inoltre registrate delle opinioni che ritengono comunque legittimato a ricorrere contro un regolamento illegittimo qualsiasi soggetto possa poi trovarsi nella condizione di proporre ricorso contro l’atto speciale che lo applichi: così, infatti, De Marchi, La giurisprudenza della IV Sezione del Consiglio di Stato contro i regolamenti illegittimi ed il cosiddetto interesse a ricorrere, in Riv. dir. pubbl., 1915, 305 s.s., e Franzi, Interesse a ricorrere e rapporti tra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa, in Dir. giur., 1952, 37. Anzi, secondo De Marchi, op. cit., 340, Il ricorso contro l’atto applicativo non solo non è precluso dalla omissione del ricorso tempestivo contro il regolamento, ma neanche dalla "sussistenza di una decisione in un senso o nell’altro che sopra il regolamento avesse pronunciata il Consiglio di Stato".

[98] V. in quest’ottica Cons. St., sez. IV, 10 aprile 1998 n. 582, in questa rivista, 1998, 1021, secondo cui "gli aspiranti ad un concorso non subiscono alcuna immediata e attuale lesione dal bando che fissa determinati requisiti di partecipazione di cui detti aspiranti non sono in possesso; la lesione immediata e attuale discende solo dallo specifico provvedimento di esclusione". Interessanti i rilievi di La Valle, op. ult. cit., 151, il quale osserva che "l’ordinamento non ignora ipotesi in cui…una parte, cui fosse attribuito il potere di impugnare direttamente un atto normativo, e che sia incorsa in decadenza per non avere esercitato entro il termine perentorio tale potere, è ammessa a sollevare, in un processo davanti al medesimo giudice cui poteva essere presentata l’impugnativa diretta, la questione pregiudiziale di legittimità dell’atto normativo ormai inoppugnabile". Infatti, i Trattati istitutivi delle Comunità europee dispongono che ciascuna parte di una controversia davanti alla Corte europea in cui venga fatta valere un’azione, la cui decisione presupponga l’applicazione di un regolamento comunitario invalido sotto uno dei profili rilevanti ai fini della impugnativa diretta, può, anche se non ne abbia a suo tempo proposto l’impugnativa entro il termine perentorio, invocarne l’inapplicabilità, ed ottenerne la disapplicazione nel caso di specie. La valle richiama Corte Cost., 9 aprile 1960 n. 22, in Giur. cost., 1960, 210, la quale – sul presupposto che il non avere agito in tempo utile a tutela del proprio ordinamento, mediante l’impugnativa in via principale di una legge altrui lesiva di esso, non può precludere, rispettivamente allo Stato ed alle Regioni, la possibilità di difendere in giudizio le posizioni giuridiche loro spettanti – ha affermato che nessuna preclusione può derivare alla possibilità di sollevare in via incidentale, in un giudizio innanzi alla Corte per conflitto di attribuzione, una questione relativa alla legittimità costituzionale di una legge, dal fatto che il giudizio verta tra gli stessi enti – Stato e Regione – l’uno dei quali avrebbe potuto sollevare, e non sollevò a suo tempo, in via principale, mediante ricorso contro la legge dell’altro, la questione di cui trattasi.

[99] Non sembra decisiva la circostanza che, al raggiungimento dell’età prevista, normalmente si avrà comunque un atto dell’amministrazione che formalizzerà il collocamento a riposo, perché sarà un atto di natura accertativa dell’effetto costitutivo realizzato dalla disposizione regolamentare. Inoltre, se l’impugnazione dovrà essere proposta tempestivamente, cioè dalla conoscenza dell’atto, nel caso in cui l’effetto si produca "automaticamente", al realizzarsi delle condizioni previste, a maggior ragione ciò dovrà avvenire qualora l’effetto si produca invece "immediatamente". Così, appunto, nel caso deciso da Cons. St. sez. V, 18 agosto 1942 n.490, in questa rivista, 1942, I, 2, 275, secondo cui "la deliberazione di un ente pubblico che, in seguito a modifiche apportate al regolamento organico, dispone in modo tassativo il licenziamento degli impiegati addetti ai posti di cui trattasi lede direttamente, immediatamente e concretamente l’interesse degli impiegati stessi e pertanto è da essi impugnabile".

[100] Per tale ultima distinzione v. A. Romano, Disapplicabilità di norme regolamentari (sfaccettature di un problema)?, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 116. Rappresentativo il caso trattato da Cons. St., sez. IV, 11 giugno 1909, in Giur. it., 1909, III, 310, in cui si discuteva di un provvedimento di collocamento a riposo d’ufficio adottato nei confronti di un dipendente, il quale, ricorrendo, affermava l’illegittimità delle norme regolamentari che costituivano il fondamento dell’atto. Il collegio esclude però la possibilità di "discutere" della legittimità degli atti presupposti, affermando che, al momento della conoscenza di quella disposizione, i dipendenti "…avrebbero dovuto tempestivamente impugnarla". La Valle, op. cit., 155, osserva che, in tali casi, "il regolamento difetta di propria lesività, onde l’impugnazione d’esso è formalmente inammissibile". Una fattispecie del tutto analoga si riscontra in Cons. St., sez. V, 14 febbraio 1941 n.93, in Giur. It., 1942, III, 17, in cui il collegio afferma però la necessità di accertare se il regolamento che modificava i requisiti per il collocamento a riposo fosse o no immediatamente lesivo e quindi desse luogo al decorso dei termini per l’impugnativa, con conseguente impossibilità di impugnare il conseguente provvedimento applicativo: salvo poi lasciare il quesito irrisolto, in relazione al fatto che la disposizione regolamentare era stata impugnata con ricorso straordinario al Re, e perciò il collegio sospende la pronuncia. Si è così affermato che "il termine per impugnare un regolamento decorre dalla pubblicazione soltanto se le norme in esso contenute producano una lesione immediata e diretta dell’interesse di singoli soggetti…": così Cons. St., sez. V, 29 luglio 1949 n.755, in Riv. amm., 1949, II, 721. Lesione che è stata esclusa, trattandosi di un regolamento comunale che, imponendo ai cittadini un contributo a titolo di partecipazione alle spese di costruzione delle fognature, necessitava però di una successiva individuazione discrezionale, da parte del Comune, dei soggetti da considerare effettivamente tenuti alla corresponsione del contributo. Negli stessi termini Tar Piemonte, 9 giugno 1981 n. 422, in Comm. trib. centr., 1981, II, 1276, secondo cui "non sussiste la legittimazione ad impugnare il regolamento comunale che fissa la disciplina generale per l’applicazione della tassa per la raccolta ed il trasporto dei rifiuti solidi urbani, finchè non intervengano appositi atti di attuazione di quella disciplina, contro i quali soltanto i contribuenti incisi potranno esperire i rimedi giurisdizionali ammessi…". Ora, se è vero che esiste una differenza concettuale tra i casi in cui l’amministrazione sia obbligata ad agire in un certo modo, con una precisa individuazione dei soggetti coinvolti, e quelli in cui conservi invece una certa discrezionalità, tuttavia sembra che la conclusione non cambi, in relazione al fatto che, comunque, la modificazione delle situazioni giuridiche è affidata agli atti applicativi.

[101] Secondo Cons. St., sez. V, 18 agosto 1936 n.820, in questa rivista, 1937, I, 2, 45, anche qualora "si tratti di regolamenti immediatamente impugnabili, non può ritenersi, senza violare il…principio contenuto nell’art.5…, che la omissione della impugnativa immediata e diretta precluda la impugnativa indiretta proposta insieme con quella contro i successivi provvedimenti di concreta applicazione". È evidente quindi che, con il richiamo all’art.5, per impugnativa indiretta il collegio si riferisca alla richiesta di disapplicazione, sebbene poi non spieghi come ciò possa avvenire nonostante "si tratti di regolamenti immediatamente impugnabili". Talvolta si è anche affermato che l’impugnativa della norma regolamentare lesiva va considerata "una mera facoltà del cittadino, che, ove non sia esercitata, non pregiudica la sua potestà d’impugnare il provvedimento che ne faccia concreta applicazione e di far valere in tale sede la illegittimità del regolamento,…perché tale norma, finchè non è tradotta in atto, può anche rimanere allo stato di precetto astratto…": Cons. St., sez. V, 23 dicembre 1941 n.802, in Riv. dir. pubbl., 1942, II, 81. Il fatto è, però, che una norma regolamentare o è lesiva, o non lo è, per cui non è affatto possibile che un atto sia, con riferimento ad uno stesso soggetto, lesivo ed allo stesso tempo "precetto astratto". Ciò perché è astratto quell’atto che "non raggiunge immediatamente quell’effetto giuridico che costituisce lo scopo del soggetto agente, ma, al contrario, fissa i criteri secondo i quali deve essere posto in essere un successivo atto che produca tale effetto": così Romano, Osservazioni, cit., 881. Come precisato da Meregazzi, op. cit., 600, il problema non è quello della natura del regolamento, "ma soltanto l’idoneità del regolamento a ledere direttamente o meno l’interesse del soggetto". Nel caso citato, comunque, contro la disposizione in esame non avrebbe neanche potuto essere presentato ricorso, proprio perché non lesiva. Oltretutto, bisogna anche dire che l’impugnazione di una norma regolamentare immediatamente lesiva non può essere considerata affatto una mera facoltà, perché è dal momento in cui l’interesse sostanziale viene leso che decorrono i termini di decadenza, e non è quindi possibile ritenere che se questi siano stati lasciati decorrere inutilmente sia poi possibile denunciare l’illegittimità di un successivo atto che, ledendo gli stessi interessi, derivi i propri vizi dall’atto non impugnato. In ogni caso, inoltre, c’è da rilevare l’incongruenza di ritenere che una norma regolamentare immediatamente lesiva abbia poi bisogno di un atto applicativo per esplicare i propri effetti. A proposito dell’astrattezza e generalità dei regolamenti V. Cass. Civ., sez. un., 28 novembre 1994 n. 10124, in Corr. Giur., 1995, 619; Cons. St., Ad Gen., 11 maggio 1992 n. 67, in Cons. St., 1993, I, 1731.

[102] Cfr. Cammeo, Nota a Cons. St., sez. IV, 11 giugno 1909, in Giur. It., 1909, III, 310.

[103] Amorth, op. cit., 559, ha notato che "se si concede che, in questa ipotesi, l’impugnazione possa venire ritardata al momento della effettiva sensibilità della lesione, compare una disparità di trattamento con altri soggetti presenti nel rapporto quando la disposizione illegittima viene introdotta, cui si fa carico della impugnazione immediata, ancorchè la lesione non sia ancora stata avvertita dall’interessato; il che non appare conforme a giustizia". Le osservazioni di Amorth hanno però un senso soltanto se dirette a criticare il tradizionale orientamento, visto che comunque, nell’affermare che la lesione viene comprodotta dal regolamento e dal provvedimento applicativo, non tiene conto del fatto che l’atto presupposto che, seppure illegittimo, sia però non lesivo, resta tale in ogni caso. Ecco perché si è affermato che "non sembra interdetto al giudice amministrativo il sindacato in via incidentale in ordine alla legittimità od illegittimità della norma regolamentare costituente il supporto normativo del provvedimento impugnato, senza che occorra una diretta ed autonoma impugnativa della stessa": in questi termini Alessi, op. cit., 8 ss. Nello stesso senso La Valle, op. cit., 155, secondo il quale "poiché evidentemente non può negarsi la tutela avverso il provvedimento la cui illegittimità – ma non la lesività – derivi da quella del regolamento, allorchè il provvedimento è ritualmente impugnato dall’interessato, il giudice non può esimersi dall’accertare l’illegittimità del regolamento, da cui quella del provvedimento dipende". Come precisato da Abbamonte, Disapplicazione del giudice amministrativo, cit., 253, "…il termine per ricorrere non riguarda gli atti presupposti bensì gli atti direttamente e concretamente lesivi, secondo un collegamento causale immediato, che non può essere derogato senza arrivare alla indefinibilità dell’oggetto stesso del giudizio amministrativo…". Secondo Baccarini, La parabola della non disapplicabilità dei regolamenti, cit., 161, "l’impressione è che sul punto la petizione di principio abbia avuto la meglio sul dibattito".

[104] L’interessato ha cioè l’onere di impugnare l’atto sin dal momento in cui ne abbia acquisito non la semplice notizia, ma una esatta cognizione nei suoi "elementi essenziali". E tale situazione non si verifica con l’apprensione del testo integrale del provvedimento, bensì quando si conoscono l’autorità emanante, gli estremi di identificazione e il contenuto dell’atto. Fra le tante, Cons. St., sez. V, 21 gennaio 1997 n. 68, in questa rivista, 1997, 150. Cfr. anche Cons. St., sez. V, 4 agosto 1986 n.386, in Cons. St., 1986, I, 1151. Comunque, "la conoscenza che l’interessato abbia del provvedimento impugnato può valere come equipollente della notifica solo ove non dia luogo a dubbi sulla sua esattezza e completezza": Cons. St., sez. V, 28 aprile 1934, in Foro it., 1934, III, 387.

[105] Cfr. Cons. St., sez. VI, 16 maggio 1996 n. 679, in Cons. St., 1996, I, 967. Id., sez. V, 24 marzo 1998 n. 356, in Cons. St., 1998, I, 400, parla proprio di "possibilità di rendersi conto della concreta lesività del provvedimento". Per Cons. St., sez. V, 7 marzo 1997 n. 214, in Cons. St., 1997, I, 358, "la piena conoscenza di un provvedimento…si verifica con la conoscenza della sua esistenza e della sua lesività".

[106] Così, fra le tante, Cons. St., sez. V, 2 marzo 1994 n.134, in Giur. It., 1994, III, 456. Id., sez. VI, 11 gennaio 1961 n.3, in questa rivista, 1961, I, 1085, precisa che "il termine per la proposizione del ricorso giurisdizionale decorre dalla lesione di un interesse protetto e non già dalla conoscenza dei vizi dell’atto".

[107] V. da ultimo Cons. St., sez. V, 24 marzo 1998 n. 356, cit., ivi.

[108] Cfr. Cannada-Bartoli, Decorrenza dei termini e possibilità di conoscenza dei vizi (nota a Cons. St., sez. VI, 11 gennaio 1961), in questa rivista, 1961, I, 1085, secondo cui, a proposito dell’atto, "è infatti chiaro che questo in tanto è lesivo in quanto sia illegittimo, poiché se la lesione è inferta jure ricorre lo schema del sacrificio e non della lesione". Così si è affermato che "la piena conoscenza del provvedimento ai fini della decorrenza dei termini di impugnazione presuppone la consapevolezza dei vizi che lo rendono non soltanto incidente nella propria sfera giuridica ma anche lesivo della stessa, con la conseguenza che la mancata osservanza dell'obbligo di portare la motivazione, anche per relationem, del provvedimento amministrativo nella sfera di conoscibilità legale del destinatario ha come effetto che quest'ultimo non acquisisce la conoscenza della lesività e che il termine di impugnazione non inizia a decorrere": Cons. St., sez. VI, 16 gennaio 1998 n. 80, in Cons. St., 1998, I, 81. Cfr. anche Id., sez. V, 28 maggio 1926 n.165, in questa rivista, 1926, I, 2, 196.

[109] Così Cannada-Bartoli, op. ult. cit., 1086. V. Cons. St., 28 aprile 1950 n.509, in questa rivista, 1950, I, 2, 319, in un caso di licenziamento di alcune unità, motivato con l’esigenza di riduzione di personale, in cui gli interessati ricorrevano contro il provvedimento solo quando l’amministrazione procedeva ad assumere nuovo personale al posto delle unità licenziate: manifestando così il fatto che la motivazione del provvedimento era del tutto falsa. La sentenza, escludendo la possibilità di impugnare l’atto di licenziamento in quel momento, ritenuto tardivo, afferma che "il termine d’impugnativa di un atto amministrativo decorre dalla conoscenza dell’atto e non dalla scoperta del vizio che rende l’atto impugnabile". Interessanti, mutatis mutandis, le osservazioni di C. Consolo, Oggetto del giudicato e principio dispositivo, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1991, 588, il quale afferma che l’omessa "contestazione" del licenziamento esonera semplicemente il datore di lavoro dall’onere di provare la giusta causa, ma "non perciò solo… quel recesso diviene fondato e quindi efficace, nel caso che in origine tale non fosse: il rapporto di lavoro, in ipotesi immodificato da un recesso infondato ed inefficace, almeno in un primo tempo dunque perdura intatto sul piano sostanziale pur dopo la decadenza del lavoratore licenziato dal potere di azione per inerzia…". Tuttavia, precisa l’Autore, op. cit., 590 ss., "la decadenza…dovrebbe continuare a riferirsi…alla sola tutela giurisdizionale", perché dalla incontestabilità della efficacia del licenziamento "il rapporto potrà essere tratto solo per effetto di una spontanea scelta ad opera del datore di lavoro, tale da rendere ininfluente quella decadenza…".

[110] Così, in fattispecie del tutto analoga, Cons. St., sez. V, 8 giugno 1935 n.300, in questa rivista, 1935, I, 2, 276, ha ritenuto invece il ricorso ammissibile, riconoscendo ad un funzionario l’interesse a ricorrere contro la nomina di altro impiegato al posto che egli prima ricopriva e che, dopo essere stato soppresso, era stato ricostituito. Allo stesso modo, si è precisato che "nel caso in cui l’interesse processuale si radichi in un momento successivo a quello della piena conoscenza del provvedimento lesivo, è solo da questo momento…che deve farsi decorrere il tempo per l’impugnazione; pertanto, la decorrenza del termine può aversi soltanto quando sussistano entrambi i presupposti della piena conoscenza e della lesione, giacchè non è da ritenersi costituzionalmente ammissibile che l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale sia sottoposto ad un termine tale da rendere assolutamente impossibile, nel caso concreto, l’esercizio stesso": Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 26 febbraio 1987 n.61, in Cons. St., 1987, I, 249. Negli stessi termini, tra le altre, Tar Puglia, sez. II Bari, 25 febbraio 1997 n. 208, in Tar, 1997, I, 1493; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 22 dicembre 1995 n. 388, in Cons. St., 1995, I, 1726.

[111] Per quanto, anche sotto questo particolare profilo, è possibile rilevare che un vizio come quello prospettato, emerso solo in un secondo momento, non può essere, evidentemente, deducibile.

[112] Ciò, a maggior ragione, nel caso in cui l’atto, della cui disapplicabilità si discute, accogliesse un’istanza dell’interessato. Così nel caso deciso da Cons. St., sez. V, 17 marzo 1936, in Foro it., 1936, III, 89, in cui un impiegato comunale era stato, dietro sua domanda, collocato a riposo per motivi di salute. Un anno dopo, a seguito di nuova visita medica collegiale che accertava la cessazione dello stato di malattia, il soggetto chiedeva di essere riassunto in servizio, venendogli però comunicato che a ciò ostava la deliberazione di collocamento a riposo, che diventava incompatibile, secondo il Comune, anche con la modificazione della situazione di fatto che lo riguardava. La dichiarazione di irricevibilità del ricorso da parte della stessa G.P.A. veniva però dichiarata ingiustificata dal collegio in grado di appello (sebbene il ricorso venisse poi ritenuto infondato nel merito), perché, giustamente, si rilevava "la sussistenza di un nuovo evento, che ha fatto sorgere...l’interesse ad impugnare quella deliberazione, che non poteva, certo, impugnare quando venne adottata e gli venne comunicata, perché...prima che si verificasse tale evento nuovo, bel lungi dal ledere i suoi interessi, venendo ad accogliere una sua domanda, a questi interessi pienamente aderiva".

[113] Nel caso in cui, successivamente alla conoscenza dell’atto, emergano vizi ulteriori, potranno essere proposti motivi aggiunti nel ricorso già proposto: cfr. Tar Sardegna, 21 ottobre 1994 n. 1850, in Tar, 1994, I, 4715. La giurisprudenza è, come rilevato, generalmente contraria alla soluzione prospettata. Una soluzione diversa potrebbe essere costituita dal ritenere che l’interesse al ricorso sorge soltanto nei confronti dell’atto successivo (nell’esempio di prima, l’assunzione di nuovo personale), dal quale emerge la lesione e l’illegittimità dell’atto a suo tempo non impugnato, il quale, pur essendo inoppugnabile, resta comunque illegittimo, visto che l’intento originario non era evidentemente quello di procedere ad una riduzione di personale, e quindi potrà essere disapplicato dal giudice amministrativo. Ciò che rende però tale soluzione inconcludente è il fatto che la cognizione della legittimità dell’atto da disapplicare avverrà incidenter tantum, cioè in un modo tale che tale accertamento non passerà in giudicato. Dimodochè ciò che il ricorrente potrà ottenere, ad esempio nel caso del licenziamento, sarà al massimo l’annullamento dell’assunzione successiva, ma non certo la propria riassunzione, in quanto l’amministrazione non sarà in questo senso obbligata a provvedere all’autoannullamento dell’atto disapplicato. Altrimenti si dovrebbe potere configurare una doppia impugnazione, dell’atto non impugnato e di quello successivo, ma in questo caso si ricade nell’ipotesi oggetto di critica. Con riferimento al giudizio civile Consolo, op. cit., 244 ss., si dichiara contrario ad "ammettere che vengano fatti valere a fondamento del diritto litigioso solo alcuni dei profili o titoli costitutivi (…), con riserva di addurre in altro processo gli altri, ove nel primo l’attore risulti soccombente". Infatti, l’attore "potrà efficacemente svolgere in via graduata le sue allegazioni costitutive, ove preferisca giustificatamente di vedere accolta la sua domanda in base ad un certo titolo anziché in base ad un altro". Tale posizione è conforme a quanto finora sostenuto, visto che lo stesso Consolo, op. cit., 283, chiarisce meglio il suo pensiero, precisando, nell’ottica in cui un processo vi sia comunque stato, che "il mancato impiego del potere modificativo in occasione del primo processo non è suscettibile, di per sé solo, di precluderne l’efficace esercizio in via di azione dopo il giudicato. Né basta, in contrario,…rilevare l’imputabilità dell’inerzia cosciente al convenuto, la sua potenziale incompatibilità rispetto all’accertamento (…) od ipotizzare…una rinuncia implicita al potere operante proprio sul piano sostanziale così in capo all’attore che non faccia valere cumulativamente tutti i diritti potestativi di cui disponga e a lui noti, come in capo al convenuto che non se ne avvalga difensivamente".

[114] Interessante l’esposizione di Cannada-Bartoli, op. ult. cit., 1087, il quale osserva che la soluzione consiste nel fare leva sull’istituto della piena conoscenza "e ritenere che il ricorrente, il quale proponga ricorso oltre i sessanta giorni, debba soltanto provare che entro i noti termini i vizi dedotti non erano conoscibili, incombendo all’amministrazione convenuta dimostrare il contrario". Cfr. tutta quella giurisprudenza secondo cui "l’onere della prova dell’avvenuta piena conoscenza del provvedimento impugnato dev’essere fornita dalla parte che eccepisce la tardività del ricorso giurisdizionale, mediante mezzi probatori univoci e chiari…irrilevanti appalesandosi al riguardo le notizie riportate dagli organi d’informazione, o la generica presunzione di notorietà del fatto": così, tra le tante, Cons. St., sez. V, 10 marzo 1997 n. 242, in Cons. St., 1997, I, 363.

[115] Così Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 26 febbraio 1987 n.61, cit., ivi. Id., 4 novembre 1995 n. 343, in Cons. St., 1995, I, 1610, precisa che "i nuovi provvedimenti…successivamente conosciuti debbano essere collegati al provvedimento impugnato originariamente", distinguendo i motivi aggiunti "relativi a doglianze nuove dedotte a seguito dell’acquisizione di conoscenze nuove", dai motivi nuovi, "relativi a doglianze dedotte sulla base delle conoscenze originarie; i primi…costituiscono un nuovo ricorso accessorio nella forma, ma autonomo nella sostanza, e sono azionabili in un termine di decadenza successivo a quello proprio del ricorso originario, mentre i secondi costituiscono semplicemente un’ulteriore manifestazione del potere di ricorso originario e sono, quindi, deducibili solo entro il termine decadenziale originario". Cons. St., sez. V, 23 marzo 1993 n.398, in Giur. it., 1994, III, 356, afferma che "la proposizione di motivi aggiunti, con i quali si contesta la legittimità di atti diversi da quello impugnato, può essere considerata, in forza del generale principio della conversione degli atti nulli (art.1424 c.c. e art.159 c.p.c.) come nuovo ricorso, da riunire a quello originario". E come è stato osservato da Cannada-Bartoli, Motivi aggiunti e ricorso aggiunto (nota a Cons. St., sez. V, 23 marzo 1993 n.398), in Giur. it., 1994, III, 355, "l’argomentazione del giudice amministrativo appare corretta, se si ammette che la res in iudicium deducta è la situazione soggettiva lesa, che rimane identica ed identicamente lesa" dal primo e dal secondo atto, nel senso che occorre riferire la ragione dedotta in giudizio "alla situazione che si tutela e non, restringendola, alla illegittimità di un atto, necessario ed esclusivo argomento della illegittimità denunziata". Qualche sentenza ha ammesso motivi aggiunti contro atti che, pur essendo diversi, erano però atti presupposti endoprocedimentali: v. ad esempio Cons. St., sez. IV, 16 ottobre 1990 n.788, in Cons. St., 1990, I, 1203. Contra, Id., sez. V, 14 novembre 1996 n. 1366, in questa rivista, 1996, 3269. Contraria alla presentazione di motivi aggiunti che non si limitino a dedurre nuovi vizi del provvedimento originariamente impugnato, ma estendono il gravame ad altri atti, Id., sez. IV, 13 luglio 1998 n. 1088, in Cons. St., 1998, I, 1121.

[116] Con riferimento al processo civile, Consolo, op. cit., 284, afferma che "il conseguimento dell’accertamento…non significa infatti ancora attribuzione, da parte del relativo giudicato, di alcun bene della vita ad una delle parti; e neppure assicura del fatto che il contratto,…sia un contratto esente da vizi formativi e/o da disfunzioni esecutive ed al riparo quindi da vicende di invalidazione o risolutive… Il detto accertamento…attiene solo alla esistenza o meno, nel momento presente, dell’effetto fondamentale del contratto e non costituisce così direttamente, né può darvi luogo per la via della preclusione del deducibile, un accertamento negativo riassuntivo sulla fondatezza della varie azioni di impugnativa negoziale". Anche perché, poi, "la possibilità…di una ripetizione di vicende giurisdizionali sullo (recte: orientate verso) lo stesso rapporto giuridico sostanziale…può dare luogo ad una maggiore duttilità e padroneggiabilità dei rimedi di repressione delle patologie…".

[117] Come ricordato da Romano, La pregiudizialità nel processo amministrativo, cit., 258-259, se il giudice amministrativo rigetta un ricorso per ragioni esclusivamente processuali, non può formarsi nessun giudicato sulla legittimità dell’atto, tanto è vero che restano intatte le possibilità di revoca e di annullamento dell’atto impugnato da parte della p.a.

[118] Tar Sicilia, sez. I Catania, 11 dicembre 1990 n. 969, in Tar, 1991, I, 784.

[119] È stato notato che, in tal modo, "l’efficacia preclusiva del giudicato rende inammissibile l’azione successivamente proposta, in presenza non soltanto di azioni identiche, ma anche di domande concernenti diritti incompatibili; la preclusione opera cioè in una duplice direzione, poiché investe, oltre alle azioni relative allo stesso diritto già accertato, anche quelle riguardanti situazioni soggettive che, pur manifestamente diverse, finiscono col rimettere in discussione il bene della vita attribuito al vincitore dalla precedente statuizione, divenuta ormai incontestabile": Menchini, Il giudicato civile, Torino, 1988, 73. L’Autore rileva inoltre, op. cit., 119, che la giurisprudenza civile "ritiene precluse le azioni relative a diritti, pur diversi da quello accertato, deducibili però in via di eccezione o di domanda riconvenzionale nel primo processo, aventi efficacia impeditiva, modificativa od estintiva rispetto alla situazione soggettiva fatta valere. In ossequio al principio della intangibilità del giudicato sostanziale, si sostiene cioè che la successiva domanda concernente situazioni soggettive incompatibili, pur oggettivamente diversa da quella decisa, risulta preclusa…". A proposito dell’impugnazione in tempi diversi di atti tra i quali sussista connessione per pregiudizialità per vincolo di presupposizione o preordinazione, si afferma poi che "l’efficacia del giudicato previamente formatosi sull’accertamento dell’invalidità dell’uno si ripercuote in via riflessa sull’accertamento della legittimità di altro provvedimento che con il primo concorre alla costituzione di una stessa situazione di fatto e di diritto": Cons. St., Ad. Pl., 22 dicembre 1982 n.19, in Giur. It., 1983, III, 1, 262.

[120] Così Cons. St., sez. IV, 14 settembre 1984 n. 678, in Cons. St., 1984, I, 1022.

[121] Tar Puglia, sez. I Bari, 4 febbraio 1992 n. 22, in Tar, 1992, I, 1629. V. anche Cons. St., sez. IV, 13 settembre 1995 n. 692, in Giust. Civ., 1996, I, 275; Cass., sez. lav., 16 marzo 1996 n. 2205, in Giust. Civ. mass., 1996, 369.

[122] Trib. Sup. Acque, 7 febbraio 1996 n. 11, in Cons. St., 1996, II, 288. V. anche Cons. St., sez. V, 8 luglio 1995 n. 1041, in Cons. St., 1995, I, 1073: "…il relativo giudicato si forma…esclusivamente sui motivi di ricorso e sui vizi con esso formulati, dovendosi escludere che esso copra il dedotto ed il deducibile". Il problema diventa allora quello dell’identità oggettiva delle controversie, perché "…pacifico è che, ai fini dell’operatività della preclusione, assume un ruolo di primo piano l’identità degli episodi, o del complesso di circostanze unitariamente considerate, che integrano la lesione…; perciò, l’asserzione di un fatto lesivo non dedotto nel precedente processo provoca, pur restando immutata la situazione soggettiva fatta valere, la novità della domanda ed esclude, quindi, la valenza della preclusione (…)". Con la conseguenza, rilevata per il processo civile ma altrettanto valida per quello amministrativo, che, "pur restando invariato il petitum, ossia il provvedimento chiesto…in ordine al bene della vita, il mutamento del diritto soggettivo affermato provoca la diversità di oggetto del processo ed esclude che la seconda azione possa considerarsi preclusa dal giudicato…". Nel senso che "le azioni devono considerarsi diverse e l’efficacia del giudicato non ostativa alla proposizione di una nuova domanda, quando con questa l’attore faccia valere quale fatto lesivo…un comportamento diverso da quello dedotto nel precedente giudizio; il mutamento del fatto integrativo della violazione fa nascere, in capo al titolare, un nuovo bisogno di tutela giurisdizionale e legittima l’esercizio di una nuova azione". In altri termini, "l’allegazione di un diverso fatto storico, dal quale far derivare il diritto al mutamento", è sufficiente alla concretizzazione di una diversa causa petendi: così Menchini, op. cit., 78, 82, 114. Lo stesso Autore, però, op. cit., 204, giunge a conclusioni diverse da quelle finora prospettate, affermando che non vi sia dubbio "sulla deducibilità di fatti costitutivi, modificativi o estintivi intervenuti posteriormente al giudicato, stante la loro idoneità a produrre efficacia giuridica sulla situazione soggettiva accertata", ma con la fondamentale precisazione che, "naturalmente, si deve trattare di fatti verificatisi successivamente al precedente giudicato, a nulla rilevando, ove si tratti di fatti anteriori, che essi non fossero conosciuti dalle parti al tempo del primo processo". C’è da dire, a parte le considerazioni già espresse, che Menchini prende in considerazione esclusivamente i casi in cui vi sia stato un giudicato, mentre nel testo viene considerata anche l’ipotesi in cui non vi sia stata alcuna pronuncia, né alcun ricorso, e l’interesse sorga direttamente solo in un secondo momento.

[123] Si fa riferimento all’opera, già citata, La pregiudizialità nel processo amministrativo.

[124] Menestrina, La pregiudiciale nel processo civile, cit., 110. Lo stesso Autore, op. cit., 100, 103, distingue poi tra pregiudizialità logica e giuridica, precisando che "la dipendenza logica tra due giudizi non è ancora la pregiudicialità; essa è soltanto un presupposto della pregiudicialità. …La pregiudicialità giuridica nasce dall’unirsi di un nuovo elemento alla pregiudicialità logica: e il nuovo elemento è l’eguale natura del giudizio pregiudiciale e del finale. Da ciò segue che tutto quello che è giuridicamente pregiudiciale è tale anche logicamente, ma non viceversa". Per una analoga distinzione "tra pregiudizialità meramente logica e pregiudizialità giuridica" v. Montesano, Questioni e cause pregiudiziali nella cognizione ordinaria del codice di procedura civile, in Riv. dir. proc., 1988, 303 ss.

[125] Cfr. ult. op. cit., 289, 333, 354. Lo stesso Romano, Disapplicazione e sindacato incidentale di legittimità dell’atto non impugnato (nota a Cons. St., Ad. Pl., 8 gennaio 1966 n.1), in Foro it., 1966, III, 75, afferma che l’applicazione, in molti casi, del principio consolidato, che esclude la disapplicazione nel processo amministrativo, è frutto "della confusione…tra disapplicazione di un atto amministrativo non impugnato e sindacato incidentale della sua legittimità; se la prima implica il secondo, perché non è possibile, ovviamente, disapplicare un atto se prima non se ne accerta la illegittimità, non vale l’affermazione inversa, perché l’accertamento della illegittimità di un atto può essere utilizzato anche ai fini diversi dalla sua disapplicazione". Nel senso che vi possono essere dei casi in cui l’accertamento incidenter tantum di illegittimità dell’atto non è finalizzato alla sua disapplicazione, ma semplicemente "costituisce la decisione di una tipica questione pregiudiziale" nel processo amministrativo "che, ove non fosse impostata come causa autonoma, sarebbe di competenza del medesimo giudice". Secondo Romano, La pregiudizialità, cit., 482 ss., "le vere questioni pregiudiziali che sorgono nel corso del processo amministrativo,…sono relativamente rare: esse si possono rinvenire solo in quei casi in cui la valutazione della legittimità di un atto, diverso da quello impugnato, non è compiuta al fine della sua disapplicazione". V. Verde, Brevi considerazioni su cognizione incidentale e pregiudizialità, in Riv. dir. proc., 1989, 179, secondo cui "c’è anche da valutare con attenzione dove finisca…l’oggetto del giudizio e dove cominci la pregiudizialità (anche perché il tema si collega a quello, assai delicato, del giudicato implicito)". Dello stesso Autore, v. anche Rimozione degli atti amministrativi ed effettività della tutela, in Riv. dir. proc., 1984, 48: "le incertezze derivano dall’inesistenza di un metro obiettivo in base al quale possiamo stabilire dove è che finisce il merito della controversia e dove ha inizio la serie dei punti o delle questioni pregiudiziali".

[126] V. tuttavia Tar Calabria, sez. Catanzaro, 12 novembre 1981 n. 285, in questa rivista, 1982, I, 267, secondo cui, "una volta che la sentenza sia passata in giudicato, l’autorità della statuizione…riflette i suoi effetti non solo sul provvedimento oggetto del giudizio, ma anche su tutto ciò che ne abbia costituito l’antecedente logico-giuridico". V. inoltre Jaeger, op. cit., 17, secondo cui deve intendersi per "questione" ogni punto dubbio, di fatto o di diritto, "la cui soluzione (…) costituisce un antecedente logico della decisione della controversia", con effetti limitati entro il corso del processo in cui sorge. Menestrina, invece, op. cit., 139, distingue tra "punti" e "questioni" pregiudiciali, precisando, in nota 4, di ritenere "un controsenso parlare di una decisione del punto pregiudiciale", perché "il punto pregiudiciale è…il precedente logico su cui le parti non sollevano una controversia…o su cui la controversia è già stata risolta". Mentre invece "unico scopo della questione pregiudiciale è di fissare entro la cerchia del pendente processo un punto pregiudiciale, su cui le parti sono discordi; essa presuppone dunque la contestazione d’un punto pregiudiciale che è stato proposto da una parte al ragionamento del giudice. Da ciò deriva che la questione non può sorgere che posteriormente al sorgere del processo (donde l’appellativo di incidentale)…". V. anche F. Francario, Regolamento di competenza e tutela cautelare nel processo amministrativo, Napoli, 1990, 15, secondo il quale "si potrebbe parlare…di <questione incidentale> in un senso più ristretto dell’espressione, volto ad individuare questioni che cadono tra la domanda e la pronuncia giurisdizionale, non riconducibili nel genus delle questioni pregiudiziali o di quelle preliminari. Positivamente, tali questioni sarebbero caratterizzate, oltre che dalla possibilità di sorgere solo nel corso del processo (e dal non poter quindi costituire oggetto di giudizio autonomo), dal carattere meramente eventuale, connesso al nascere direttamente come questione, e non già per trasformazione di un punto, che deve essere necessariamente affrontato prima di giungere alla decisione finale, in questione".

[127] Il problema è che la giurisprudenza non tiene conto che il giudice amministrativo "non possa annullare ogni e qualsiasi atto amministrativo, la cui legittimità acquisti rilevanza, comunque, nel processo amministrativo, ma che, al contrario, il potere di annullamento possa essere esercitato solo in relazione a quegli atti, i quali incidano direttamente nella sfera giuridica del ricorrente", con la conseguenza che "gli atti i quali non hanno questa incidenza, ma, unicamente, condizionano la legittimità dell’atto impugnato, possano essere disapplicati; e, anzi, possano essere solo disapplicati": Romano, La pregiudizialità, cit., 466, secondo cui nei casi descritti "la legittimità o la illegittimità dell’atto non impugnato acquista rilevanza, per così dire, solo come fatto storico, senza che entri per nulla l’istituto della disapplicazione". Tenendo presente infatti che disapplicare significa considerare l’atto in questione tamquam non esset, se è necessario fare ricorso a questa operazione significa che sono gli effetti dell’atto, diverso da quello impugnato, che incidono sulla legittimità di quello impugnato, nel senso che non la legittimità, ma la stessa esistenza del primo, condiziona la legittimità del secondo. Un esempio, considerato da Romano, è costituito dall’impugnazione di un provvedimento di annullamento d’ufficio di altro atto amministrativo, in cui tale annullamento venga denunciato dal ricorrente come illegittimo per carenza di presupposto, in quanto l’atto annullato sarebbe stato legittimo. In questo caso, è evidente che l’illegittimità dell’atto annullato costituisca condizione di legittimità del provvedimento di annullamento, e tale accertamento costituisca una tipica questione pregiudiziale, nell’effettuare il quale il giudice amministrativo non dovrebbe incontrare nessun tipo di preclusioni, a meno che la legittimità dell’atto pregiudicante non abbia già formato oggetto di un autonomo giudizio, conclusosi con una sentenza passata in giudicato.

[128] V. Montesano, op. ult. cit., 302. Sempre Montesano – In tema di accertamento incidentale e di limiti del giudicato, in Riv. Dir. proc., 1951, 335 ss., 340 ss. – ha contestato che l’accertamento sull’esistenza del rapporto giuridico che si pone in contrasto con quello per cui è sorto il processo possa acquistare autorità di giudicato, solo perché l’esistenza di una tale situazione abbia formato oggetto di controversia tra le parti, essendo necessario non soltanto che "l’accertamento del rapporto controverso venga dedotto espressamente nelle conclusioni", ma anche che la contestazione corrisponda "ad una pretesa diversa da quella originariamente fatta valere dall’attore". Per un esempio specifico v., dello stesso Autore, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Trattato di diritto civile italiano, XIV, 4, Torino, 1994, 135. V. poi Menestrina, op. cit., 198, in nota 117: "anche la riconvenzione che si riferisce a un rapporto giuridico da cui dipende logicamente la pretesa fatta valere col processo principale, è una pregiudiciale incidentale. Ma ciò non toglie che il legislatore possa dar vita a un altro istituto, cioè a una azione incidentale per eccellenza, che in quanto è messa a disposizione del convenuto concorre di solito con la riconvenzione, ma che – nei suoi presupposti, come nello svolgimento – ha costantemente di mira la pregiudicialità, la quale invece nella riconvenzione è cosa fortuita". Cfr. inoltre Cass. Civ., sez. II, 11 marzo 1997 n. 2175, in Riv. arbitrato, 1997, 547: "l’accertamento meramente incidentale è solo quello che si riferisce ad un punto o ad una questione pregiudiziale costituente esclusivamente un presupposto logico della decisione della controversia, da verificare ed accertare senza efficacia di giudicato ed in nessun caso, quindi, può essere considerato tale quando verte su una questione che, per quanto logicamente strumentale alla decisione di una domanda, sia stata anche oggetto di una domanda autonomamente proposta per il soddisfacimento di uno specifico e diverso interesse di parte e sulla quale, quindi, per il principio dell’art. 112 c.p.c., il giudice aveva, comunque, il dovere di pronunciarsi". Importante precisazione in Cons. St., Ad. Pl., 24 gennaio 2000 n. 1, in Cons. St., 2000, I, 1: "nell’attuale disciplina del processo amministrativo, fondato sul principio del contraddittorio, l’espressione <rilevare d’ufficio> una questione preliminare (…) significa <indicare d’ufficio alle parti>, in quanto la rilevabilità d’ufficio di una questione da parte del giudice non significa (argomentando dagli 183 e 184 cod. proc. civ.) che, per ciò stesso, tale questione possa essere decisa d’ufficio senza essere sottoposta al contraddittorio delle parti".

[129] Così Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, II, rist., Napoli, 1945, 359. Anche da un punto di vista più generale, "se il giudice deve prender posizione in una pregiudiciale per la cui decisione in via principale egli non è competente e se in questo caso la norma positiva non gli impone né che debba soprassedere per attendere la decisione di altro magistrato né che debba rinviare a questo la decisione dell’intera causa, è chiaro che la sentenza di quel giudice abbia un’autorità limitata ai soli diritti che formarono l’oggetto della dimanda principale": Menestrina, op. cit., 130. Secondo Montesano, op. ult. cit., 306, una cognizione incidenter delle questioni pregiudiziali sarebbe una soluzione di dubbia costituzionalità, perché limiterebbe il diritto alla difesa dei soggetti che siano parti del giudizio principale, con la conseguenza concettuale che "questione pregiudiziale <trasformabile> in accertamento incidentale" si avrebbe ogniqualvolta "la fattispecie, che ne è oggetto, produce un effetto condizionante o concorrente a condizionare,…quello dedotto con l’originaria domanda". Ciò che rende però tale impostazione contraddittoria è il ritenere che la soluzione della questione pregiudiziale passi in giudicato, quando nella stessa pagina si afferma invece che le questioni pregiudiziali sono decise di regola senza effetti di cosa giudicata. Consolo, op. cit., 236, concorda appieno con la valutazione di Montesano, "sempre se intesa nel senso che la garanzia costituzionale del diritto di azione…riguardi l’azione volta a dedurre gli altri diritti nascenti dal rapporto fondamentale; non già l’<<azione>> relativa a quest’ultimo, che effetto giuridico non può ritenersi (…) e che soggiace…al principio dispositivo nella sola accezione processuale, ex art. 112 c.p.c., non già anche, e prima, nella sua accezione sostanziale sostanziale-costituzionale di garanzia dell’azione ex artt. 2908 c.c. e 24 Cost.". C’è da dire tra l’altro che se si accogliesse la tesi per cui l’accertamento incidenter tantum è superficiale ed approssimato, mentre solo la cognizione principaliter è piena, definitiva ed esauriente, "dovremmo pervenire alla conclusione che le parti hanno il diritto di trasformare tutte le questioni incidentali in accertamenti autonomi", mentre invece "tra la cognizione incidentale e quella principaliter non vi è una differenza qualitativa", essendo entrambe "esaustive sul piano del diritto di difesa costituzionalmente protetto", e "l’unica differenza è sul piano degli effetti, giacché soltanto la cognizione in via principale è in grado di sfociare in un provvedimento suscettibile di passare in giudicato (sostanziale)": così Verde, op. cit., 175 ss. Sullo stesso argomento, in termini generali, anche Giacchetti, Disapplicazione? No, grazie, cit., 198 ss., secondo cui si fanno rientrare nell’area della disapplicazione situazioni che possono costituire una formula di equilibrio tra i vari ordini giurisdizionali, "non necessaria, in quanto potrebbe essere sostituita da una causa su questione pregiudiziale dinanzi al giudice competente per quest’ultima…".

[130] Cannada-Bartoli, La disapplicazione nel processo amministrativo, cit., 151. Vale a dire che, "ove manchi o sia respinta per difetto di interesse o dichiarata inammissibile per tardività la domanda di autonomo accertamento, le questioni pregiudiziali sono risolte…incidenter tantum, cioè solo come punto fermo per il giudice della causa nell’iter verso la decisione di merito, dopo il cui passaggio in giudicato non potranno più essere sollevate solo in quanto ciò contraddica alla tutela da quella decisione concessa o negata": così Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., 137. Con la conseguenza che "quando principaliter fu data una risposta negativa solo per riguardo alla sfera d’interessi che il giudicante è chiamato a tutelare, si rende chiaro che essa non può legare un altro giudicante che agisce sotto lo stimolo di interessi diversi…": cfr. Menestrina, op. cit., 158.

[131] Cfr. Menestrina, op. cit., 103.

[132] Fra le tante, v., da ultimo, Cons. St., sez. VI, 9 giugno 1994 n.957, in Giur. It., 1994, III, 780, ove si precisa che "va annullata la sentenza del giudice amministrativo nella parte in cui eccede i limiti della domanda del ricorrente". Diverso invece il caso considerato da Tar Puglia, sez. Bari, 30 settembre 1982 n. 410, in questa rivista, 1983, I, 2455, secondo cui "ancorchè gli atti amministrativi…non vengano travolti dalla cessazione di efficacia della legge, sulla quale si fondano, dovuta a dichiarazione di illegittimità costituzionale, il giudice amministrativo ha il potere di rilevare, anche d’ufficio, i vizi riflessi derivanti all’atto impugnato dalla norma dichiarata incostituzionale, anche quando l’eccezione di costituzionalità non sia stata sollevata dalla parte interessata nel corso del giudizio".

[133] V. le osservazioni di Giacchetti, op. ult. cit., 202, secondo cui sarebbe "più prudente e più coerente subordinare l’eventuale disapplicazione ad una domanda dell’interessato…".

[134] V. Morbidelli, La disapplicazione dei regolamenti nella giurisdizione amministrativa, cit., 69. Non a caso Baccarini, La parabola della non disapplicabilità dei regolamenti, cit., 161, osserva che con l’inversione di indirizzo, rispetto a quello che nei primi decenni del secolo ammetteva la disapplicazione, "la giurisprudenza…ha di fatto accentuato il carattere dispositivo del processo in una materia, quella degli atti normativi, in cui invece vige il principio jura novit curia e che costituisce oggetto tipico di accertamento d’ufficio". Cfr. anche Vacirca, op. cit., 245, 247: "la concezione corrente dell’impugnazione del regolamento unitamente all’atto applicativo limita, poi, ingiustificatamente i poteri d’ufficio del giudice amministrativo nella ricostruzione della disciplina da applicare, giacchè lo vincola ai motivi dedotti dal ricorrente". Anche perchè, "può accadere, così, che un regolamento palesemente illegittimo debba essere applicato perché favorevole al ricorrente e non impugnato tempestivamente in via incidentale dall’amministrazione resistente o dal controinteressato. Può anche avvenire che il ricorso incidentale dell’amministrazione resistente avverso un proprio regolamento non sia proposto per ragioni di coerenza o sia dichiarato inammissibile e che, in mancanza di controinteressati, sia impedito al giudice di rilevare l’illegittimità della norma". Non sembra quindi condivisibile l’affermazione di Cons. St., sez. V, 30 giugno 1997 n. 753, in questa rivista, 1997, 1671: "il regolamento, inoppugnato o non rimosso,…non può neppure costituire oggetto di spontaneo sindacato da parte del giudice amministrativo, neanche qualora la p.a. emanante ne chieda la disapplicazione". Importante rilevare un altro problema sollevato da Romano, Disapplicabilità di norme regolamentari, cit., 121 ss.: "se l’amministrazione resistente, cui la disapplicazione della disposizione regolamentare gioverebbe, abbia la legittimazione a impugnare il <<suo>> regolamento. Ebbene, nell’ipotesi in cui l’organo che ha emanato il provvedimento appartenga ad ente diverso da quello che ha emanato il regolamento (ad es. un provvedimento comunale in contrasto con un regolamento governativo), sembra da riconoscere all’ente emanante il provvedimento la legittimazione a ricorrere. E, allora, la posizione dell’amministrazione resistente, in astratto legittimata ad impugnare la disposizione regolamentare da disapplicare, andrebbe vista in termini analoghi a quella dell’eventuale controinteressato: che questa legittimazione, sempre in astratto, sicuramente ha". Infatti, "l’amministrazione che non per sua omissione non poteva impugnare la disposizione regolamentare, il controinteressato in analoga situazione, debbono poterne chiedere la disapplicazione. O sollecitare il giudice a disporla".

[135] Così Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, 62. Interessanti le osservazioni di Montesano, In tema di accertamento incidentale, cit., 335, il quale precisa che non si può "pretendere…che la parte dia l’esatta definizione tecnico-giuridica dell’oggetto delle proprie domande, mentre spetta al giudice, in virtù del principio jura novit curia, trarre le conseguenze giuridiche dalle domande di parte, ben individuando i limiti fissati dal petitum e dalla causa petendi". La conseguenza, è che "la richiesta debba formare oggetto di una conclusione specifica", nel senso che "…non basta che un rapporto sia stato oggetto di contestazione nell’uno o nell’altro momento della causa, ma occorre che l’accertamento del rapporto controverso venga dedotto espressamente nelle conclusioni". Inoltre, come precisato da La Valle, In tema di ricorso incidentale avverso atto regolamentare presupposto, in questa rivista, 1967, II, 68, "il vincolo del giudice amministrativo ai motivi di parte, quale specificazione…del principio di dovuta corrispondenza tra domanda e pronuncia, esclude…che il giudice possa prendere in considerazione d’ufficio motivi non addotti dalla parte e quindi norme facenti capo a motivi non addotti. Ma nell’ambito del profilo d’illegittimità ritualmente dedotto a motivo di ricorso, il giudice può e deve, in virtù del principio iura novit curia, ricercare d’ufficio, a prescindere dalle prospettazioni e richieste delle parti, se e quale norma, eppertanto se la norma invocata dal ricorrente, od altra, sia applicabile all’aspetto del comportamento dell’amministrazione, censurato dal ricorrente stesso".

[136] In questi termini Nigro, Giustizia amministrativa, 4, a cura di E. Cardi e A. Nigro, Bologna, 1994, 284. Vale a dire che "il motivo si individua…in base alla fattispecie normativa che si assume violata da un comportamento della pubblica amministrazione": Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, 142. Nel senso, però, che "la causa petendi non è rappresentata dalla norma di legge invocata dalla parte, sotto la quale cade, a suo dire, il complesso dei fatti allegati (…)":Menchini, op. cit., 99. V. anche Romano, La pregiudizialità, cit., 339, per la precisazione che "la disformità dal paradigma legislativo del singolo aspetto del comportamento della pubblica amministrazione, risulta, evidentemente, dal combinarsi di due elementi…: la norma di legge, che è violata, e l’aspetto del comportamento…che la vìola". Cfr. anche Chiovenda, Identificazione delle azioni. Sulla regola <ne eat iudex ultra petita partium>, in La legge, 1903, ora in Saggi di diritto processuale civile (1894-1937), I, Milano, 1993, 157 ss.: "ciò che la regola <ne ultra petita> vieta…è…la sostituzione di fatti costitutivi tali da individuare una nuova azione, a quelli fatti valere dalla parte. L’azione si individua per il fatto e non per la norma di legge… è…dovere del giudice esaminare d’ufficio la domanda sotto ogni possibile aspetto giuridico". Chiovenda, op. ult. cit., 175 ss., precisa però che il giudice "deve di regola astenersi dal rilevare fatti non allegati dalle parti", anche in relazione a "fatti non affermati dalla parte, che risultano agli atti". Tuttavia v. Cass., sez. un., 3 febbraio 1998 n. 1099, in Foro it., 1998, I, 764, secondo cui la regola generale è quella del "rilievo ex officio di fattispecie modificative, impeditive o estintive, risultanti dal materiale istruttorio legittimamente acquisito".

[137] Nigro, op. cit., 284 ss.: "insieme con questa opera di interpretazione,…il giudice deve procedere alla ricostruzione integrale della fattispecie…, nel senso della integrazione della norma dedotta con tutti quegli <<elementi>> o <<frammenti>> di norma o con quelle altre norme…da considerare parti di un’unica fattispecie normativa". Cfr. Cons. St., sez. IV, 10 novembre 1981 n. 866, in Giur. it., 1982, III, 1, 65, secondo cui "la sinteticità del motivo di ricorso non determina la inammissibilità di quest'ultimo quando non abbia nella specie impedito al giudice e alle parti resistenti di coglierne il contenuto". Secondo Cons. St., sez. V, 4 agosto 1986 n. 400, in Cons. St., 1986, I, 1166, "la specificazione di cui occorre siano muniti i motivi posti a base dei ricorsi giurisdizionali deve concretarsi nell'individuazione di precisi capi di doglianza dai quali si possano evincere con sufficiente determinazione gli elementi che comportino l'invalidità dell'atto impugnato e delimitino di conseguenza l'oggetto della lite; pertanto, qualora si denunci in una determinata fattispecie il richiamo da parte della p. a. a norme non pertinenti, lo scopo suddetto è raggiunto, e non occorre altresì l'indicazione delle norme che si sarebbero dovute applicare". Diverso problema, poi, è quello per cui "se, da un lato, è vero che il giudice non è vincolato alle prospettazioni delle parti, onde ben può diversamente qualificare l’atto impugnato, dall’altro, è altrettanto vero che egli non può, sulla base di tale diversa qualificazione, accogliere il ricorso per un motivo non dedotto dal ricorrente e deducibile in ragione della diversa qualificazione dell’atto": Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 1° agosto 1991 n. 340, in Giur. amm. Sic., 1991, 522. Anche nel giudizio civile, "se in una controversia tra privati una parte chiede al giudice ordinario di accertare incidenter tantum l’illegittimità di un atto amministrativo, onde disapplicarlo…, ma non specifica i motivi del vizio dedotto, la genericità della censura la rende inammissibile": Cass. Civ., sez. III, 15 maggio 1997 n. 4274, in Tar, 1997, II, 1386.

[138] Clarich, op. cit., 149. Cfr. anche Romano, Disapplicabilità di norme regolamentari, cit., 124: "spetta comunque al giudice individuare quale sia la norma alla stregua della quale giudicare della res…: purchè sia applicabile a questa res, entro i limiti nei quali le parti la hanno circoscritta".

[139] Così Morbidelli, op. cit., 71. V. Tar Lombardia, sez. III Milano, 27 settembre 1996 n. 1448, in Giust. Civ., 1997, I, 556: "nel caso di norma regolamentare che violi…norme primarie, il giudice amministrativo può disapplicarla, anche in difetto di una puntuale impugnazione della norma stessa (c.d. disapplicazione normativa)". Analogamente Tar Umbria, 23 aprile 1996 n. 176, cit., ivi, "pur in difetto di specifica doglianza di parte"; Cons. St., sez. VI, 26 gennaio 1999 n. 59, in questa rivista, 1999, 111; Id., sez. IV, 24 marzo 1998 n. 498, in Cons. St., 1998, I, 373. Non sembra pertanto condivisibile la posizione di Verde, Disapplicazione del giudice ordinario e del giudice amministrativo, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 261, per cui "la tesi della disapplicazione…subordina…la valutazione del giudice alla corretta e tempestiva impugnazione (o domanda) della parte e apre la strada ad una giustizia del caso per caso, non potendo evitare soluzioni contraddittorie". Altro problema, poi, è quello legato al dato di fatto che, nella prassi forense, anche per pura cautela, normalmente al giudice viene chiesto l’annullamento dell’atto presupposto, con la conseguenza, dedotta in Tar Friuli-Venezia Giulia, 6 febbraio 1997 n. 56, in Tar, 1997, I, 1350, che "la disapplicazione di un regolamento da parte del giudice amministrativo può intervenire solo nel caso in cui lo stesso regolamento non sia stato direttamente impugnato, posto che in tale ultima ipotesi deve ritenersi operante il solo potere di annullamento degli atti amministrativi…".

[140] Così Nigro, op. cit., 285. V. ad esempio Cons. St., sez. V, 30 settembre 1988 n. 521, in Cons. St., 1988, I, 1078, secondo cui "la sentenza del giudice amministrativo non incorre nel vizio di ultrapetizione se è motivata con argomentazioni non prospettate dal ricorrente, non essendo al giudice precluso, nell'ambito dell'esame di motivi dedotti, motivare la pronuncia con argomentazioni proprie". Il fatto è, come rilevato da Morbidelli, op. cit., 68, limitatamente al principio di gerarchia delle fonti, che al momento in cui il giudice disapplica, o, se si preferisce, non applica la normativa regolamentare per applicare invece la legge, con la quale era in contrasto anche il provvedimento impugnato, si ha che "le regole del giudizio di impugnazione non vengono così alterate: il provvedimento sarà annullato sempre per una violazione di legge ritualmente introdotta (…). …il giudice amministrativo…deve fare riferimento alle questioni davanti a lui proposte, tra cui v’è quella del contrasto legge-provvedimento".

[141] Cfr. op. cit., 255. Inoltre, l’Autore osserva che, "nell’esame dei motivi dedotti, il giudice risolve le questioni proposte dal ricorrente e non compie solo l’accertamento sulla fondatezza o meno di esse", ed inoltre come sia importante la connessione tra gli elementi posti all’esame del giudice e l’obbligo per l’amministrazione di conformarsi al giudicato, attenendosi a quanto deciso dal giudice secondo i fatti, i motivi e le conclusioni avanzate dal ricorrente.

[142] Così è avvenuto in Cons. St., sez. IV, 29 febbraio 1996 n. 222, in questa rivista, 1998, 2, 381, ove il ricorrente, nell’impugnare una concessione edilizia in deroga, rilasciata in applicazione di una norma del P.R.G., rilevava che la legge non consentiva quel tipo di deroghe, affermando di conseguenza l’illegittimità del provvedimento concessorio, e dello stesso atto normativo presupposto, chiedendo pertanto la disapplicazione di quest’ultimo. I giudici hanno accolto il ricorso proprio secondo lo schema descritto, pur con una distinzione non condivisibile tra casi di pregiudizialità, i soli in cui secondo il collegio si avrebbe disapplicazione, ed invalidazione di atti presupposti. La teoria a cui fa riferimento la sentenza – affermando che "l’atto presupposto,…se ne viene accertata l’illegittimità, viene considerato invalido nel caso deciso e come tale invalidante per trasmissione l’atto che lo presuppone, che viene, esso sì, annullato" – è di Sandulli, Questioni recenti in tema di discriminazione delle competenze tra giudice ordinario e giudice amministrativo (nota a Cass., sez. un., 9 giugno 1951 n.1471), in Foro it., 1952, I, 1073. La sicurezza del riferimento è data anche dalla circostanza che l’estensore della sentenza, Baccarini, Il Consiglio di Stato folgorato, cit., 573, aveva richiamato in quel senso Sandulli. La stessa teoria è accolta da Morbidelli, op. cit., 41 ss. La risposta è stata fornita da Cannada-Bartoli, Disapplicazione di atti amministrativi illegittimi e giurisdizione del Consiglio di Stato, cit., 75, il quale rileva l’equivocità dei termini "trasmissione di invalidità", "trasmissione di un difetto" e simili, in relazione al fatto che nelle fattispecie in esame "non si trasmettono né la natura del vizio dell’atto presupposto, né la conseguenza, che l’ordinamento collega a quel vizio". La differenza di impostazione concettuale è data quindi dal considerare che "non è...che l’atto precedente trasmetta alcunché all’atto successivo, ma è quest’ultimo che si fonda su una situazione illegittima ed è, per tale motivo, illegittimo anch’esso". Perciò, poiché l’atto presupposto deve necessariamente essere disapplicato, e questo significherà che esso venga considerato come non esistente, "l’atto successivo non può non essere dichiarato illegittimo, per difetto del presupposto (che è stato ritenuto mediante la disapplicazione) mancante, senza che sia tecnicamente necessario configurare alcuna invalidità per trasmissione". Tra l’altro, il collegio non spiega in che cosa "l’accertare la trasmissione del vizio dall’atto presupposto all’atto applicativo" si differenzi in concreto dai casi di disapplicazione vera e propria, che sarebbero, secondo il collegio, soltanto quelli legati alla pregiudizialità. Sulla sentenza citata sia consentito rinviare comunque a D. Trebastoni, La disapplicazione nel processo amministrativo: il falso problema della pregiudizialità, in questa rivista, 1998, 2, 381. Sebbene si ritenga che tale sentenza sia la prima ad avere utilizzato la disapplicazione nei termini descritti, tuttavia sembra potersene rintracciare un precedente, altrettanto importante, in fattispecie del tutto analoga, in Cons. St., sez. V, 15 marzo 1974 n. 260, in questa rivista, 1974, 411, con nota adesiva di Cannada-Bartoli, Motivo contro atto presupposto del provvedimento impugnato, ivi, 412: "la inoppugnabilità del piano regolatore…non preclude la denuncia di vizi del piano stesso in sede di impugnazione delle misure di salvaguardia adottate proprio in forza del piano stesso…".

[143] Così La Valle, Cognizione principale ed incidentale, cit., 168 ss. V. anche Tar Lazio, sez. I, 21 luglio 1998 n. 2277, in Tar, 1998, I, 2916. Interessante il caso deciso da Cons. St., sez. V, 22 gennaio 1936 n. 68, in Riv. dir. pubbl., 1936, II, 161, in cui un soggetto aveva impugnato una autorizzazione edilizia, affermandone l’illegittimità perché in contrasto con una norma del regolamento comunale d’igiene. Il collegio dichiara infondato il ricorso, una volta verificato il contrasto su quel punto tra la legge ed il regolamento, che viene così disapplicato. In un altro caso, invece, sulla stessa materia, Cons. St., sez. V, 19 aprile 1966 n.609, in questa rivista, 1966, I, 2, 673, ha adottato una soluzione contraria, perché "non può chiedersi, in via di eccezione, la disapplicazione di un regolamento che si assume invalido (…), senza avere impugnato, con ricorso incidentale, il regolamento stesso". Identica soluzione negativa, poi, in Cons. St., sez. V, 4 marzo 1966 n. 371, in questa rivista, 1966, I, 2, 479, in un caso in cui il controinteressato, titolare della licenza edilizia impugnata perché ritenuta in contrasto con il P.R.G., si era costituito sia con memoria che con ricorso incidentale: con la prima affermava l’inesistenza del contrasto, mentre con il secondo – ovviamente in maniera condizionata all’accoglimento del ricorso principale – l’illegittimità del piano regolatore perché a sua volta in contrasto con la legge, chiedendo quindi la sua disapplicazione o, comunque, il suo annullamento, al fine di ritenere legittima la licenza edilizia a lui rilasciata. Solo che, da un lato, il ricorso incidentale è stato dichiarato inammissibile – perché non proponibile avverso atti diversi da quelli impugnati dal ricorrente principale – mentre dall’altro, invece, si è affermato che il collegio avrebbe potuto sindacare la legittimità del piano regolatore soltanto se fosse stato impugnato dal controinteressato al momento della sua emanazione. Quindi, si ha una situazione in cui anche il controinteressato resta pregiudicato nei suoi interessi, per non avere impugnato un atto (il P.R.G.) che non avrebbe potuto impugnare, considerato che nella sua veste di titolare della licenza non aveva sicuramente interesse ad agire. è evidente però, come chiarito da Cannada-Bartoli, La difesa del controinteressato e la disapplicazione dei provvedimenti amministrativi (nota a Cons. St., sez. V, 4 marzo 1966 n. 371), in Scritti in memoria di A. Giuffrè, III, Milano, 1967, 191, 197, che "la dichiarata inammissibilità non ha colpito una delle possibili forme di difesa, ma la difesa stessa", perché se è esclusa sotto ogni profilo la possibilità di sindacare l’illegittimità dell’atto presupposto – sia al fine dell’annullamento, perché non impugnabile in via incidentale, che al fine di un accertamento incidenter tantum, in quanto inoppugnabile – è chiaro allora che al controinteressato non rimane nessuna possibilità di essere tutelato. Di conseguenza, l’eventuale inammissibilità del ricorso incidentale "non potrà impedire che la difesa proposta venga conservata nella forma di un’eccezione, che solleciti una cognitio incidenter tantum circa la legittimità del provvedimento pregiudicante". Si spiegano così quelle pronunce che hanno affermato che "col ricorso incidentale possono essere investiti anche atti diversi da quelli impugnati col ricorso principale, se ad essi collegati e sempre che alla loro rimozione conseguano effetti sulla valutazione di ammissibilità, procedibilità e fondatezza della domanda": fra le altre, Cons. St., sez. VI, 13 aprile 1991 n.182, in Cons. St., 1991, I, 746; cfr. anche Id., sez. IV, 18 aprile 1994 n.344, in Giur. It., 1994, III, 790. Si è anche affermato che "non è ricorso incidentale quello volto all’annullamento di atto distinto dal provvedimento impugnato in via principale": Id., sez. V, 19 dicembre 1980 n.973, in Giur. It., 1981, III, 1, 360. Interessante il caso deciso da Cons. St., Ad. Pl., 8 gennaio 1966 n.1, cit., ivi, in cui, essendo stata impugnata una licenza edilizia – per inosservanza del vincolo di zona previsto dal P.R.G., da parte di soggetti che, a loro volta, erano stati destinatari, per la stessa zona, di analoghe licenze – si opponeva dai resistenti che non potesse essere invocata dai ricorrenti a proprio favore una norma che essi stessi avevano violato. Il collegio nega che la stessa questione della legittimità della licenza dei ricorrenti potesse essere posta, "se la violazione non possa essere più fatta valere dal resistente a motivo della irretrattabilità della licenza del ricorrente (non impugnata ovvero ritenuta legittima dal giudice)". Certo, non si capisce in che modo l’inoppugnabilità potesse valere anche nei confronti dei resistenti, visto che i soggetti in questione non avrebbero mai potuto impugnare la licenza edilizia de qua, perché non erano legittimati a farlo. Oltretutto, sempre che tale inoppugnabilità si fosse poi effettivamente mai prodotta nei confronti di qualche altro soggetto. Jaeger, op. cit., 22, ha osservato che al principio posto dall’art.5 l. n. 2248, cit., "deve essere riconosciuto ancora pieno vigore in tutti quei casi in cui la questione sulla legittimità di un atto, per la conseguente disapplicazione di esso, sia sollevata da un soggetto che non sarebbe stato legittimato ad impugnarlo in via principale…":

[144] Cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 20 marzo 1996 n. 75, in Cons. St., 1996, I, 519, ove si afferma che "il giudice amministrativo è tenuto a disapplicare una norma regolamentare che risulti illegittima per violazione di legge". Analogamente Id., 25 ottobre 1996 n. 366, in questa rivista, 1997, 218. Id., sez. V, 10 marzo 1999 n. 231, in questa rivista, 1999, 3, 688, afferma "la possibilità per il giudice amministrativo, nella sua competenza generale di legittimità, di disapplicare in via incidentale l’atto regolamentare illegittimo…".

[145] Per quanto riguarda i tempi per sollevare la questione della legittimità dell’atto non direttamente impugnato, "non sembra…si possa superare il divieto di domande nuove dopo gli atti introduttivi…", nel senso che "il sistema positivo…impone all’attore di specificare fin dalla domanda l’oggetto dell’accertamento incidentale": così Montesano, Questioni e cause pregiudiziali, cit., 312 ss.

[146] Sul punto v. Verde, Rimozione degli atti amministrativi, cit., 50 ss., e nota 21, secondo il quale, fermo restando che "la legittimità del provvedimento amministrativo è fatto che deve essere introdotto nel processo…", tuttavia, in base al principio jura novit curia, "le parti non possono vincolare il giudice in ordine a valutazioni giuridiche quali sono quelle relative alla legittimità o illegittimità del provvedimento". La conclusione è che sia più opportuno utilizzare il termine <eccezione> solo "al fine di individuare il mezzo non esclusivo per sollecitare al giudice una pronuncia su fatti impeditivi, modificativi o estintivi (…), e non invece per sottoporgli questioni pregiudiziali in senso stretto", ritenendo "di dovere, così, negare il collegamento fra questione pregiudiziale ed eccezione". V. anche La Valle, In tema di ricorso incidentale, cit., 68, secondo cui "il giudice amministrativo può e deve disapplicare il regolamento, anche a prescindere da una richiesta in tal senso del resistente, semplicemente nell’esplicazione del compito affidatogli, di vagliare la fondatezza del motivo di ricorso"; inoltre, "l’affermazione del resistente che la norma, invocata dal ricorrente a sostegno del (motivo del) ricorso, non è applicabile all’aspetto del comportamento dell’amministrazione, censurato, non costituisce oggetto di eccezione in senso proprio, non rilevabile come tale dal giudice senza apposita formale deduzione di parte, ma di mera difesa, la quale solamente sotto un profilo di pratica opportunità il resistente fa bene a sollevare ed illustrare al giudice, onde accrescere la concreta probabilità della sperata reiezione del ricorso".

[147] Cfr. De Roberto, <<Non applicazione>> e <<disapplicazione>> dei regolamenti nella recente giurisprudenza amministrativa, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 19. Vale a dire che in tutte le ipotesi in cui all’annullamento dell’atto applicativo dovrà (o potrà) fare seguito un’ulteriore azione amministrativa, il ricorrente non potrà esigere si impongano, con l’autorità del decisum, quegli accertamenti di illegittimità relativi alla normativa regolamentare capaci di condurre – nel momento in cui il nuovo regolamento dovesse essere emanato – a un nuovo atto applicativo favorevole, o meno pregiudizievole, di quello precedente.

[148] Cfr. anche Baccarini, Il Consiglio di Stato folgorato, cit., 573: "l’efficacia del giudicato amministrativo di annullamento preclude alla radice la reiterazione dell’atto applicativo invalido". Oltretutto, l’impostazione di De Roberto, nell’affermare l’impossibilità di far valere l’avvenuto accertamento incidenter tantum nella fase successiva al giudizio, presuppone innanzi tutto che un’attività di riedizione dell’azione amministrativa debba comunque esserci, cosa vera solo talvolta, e che tale attività richieda necessariamente l’emanazione di un nuovo regolamento; presuppone anche che l’amministrazione intimata non sia quella competente a modificare il regolamento. Alla conclusione prospettata nel testo si giunge sia nel caso in cui si ritenga che i motivi di ricorso entrino a far parte dell’oggetto del giudizio, sia nel caso contrario. La prima posizione è legata all’esigenza di estendere gli effetti che conseguono alla sentenza di accoglimento, ritenendosi che, altrimenti, la sentenza di accoglimento non conterrebbe alcun accertamento con forza di giudicato dei singoli profili di illegittimità rilevati dal giudice. Ed allora, secondo Clarich, op. cit., 146, 148 ss., "se è questa la preoccupazione di fondo…, va però rilevato che anche espungendo dall’oggetto del giudizio i motivi di ricorso si possono ottenere risultati analoghi", essendo sufficiente osservare che "il valore che il giudicato assume per le parti ha un significato diverso in rapporto al motivo portante della decisione". In sostanza, dai motivi di ricorso accolti dal giudice continuerebbero a derivare alla p.a. un vincolo giuridicamente rilevante in sede di riemanazione dell’atto, solo che muta la ricostruzione teorica di tale vincolo, che dovrebbe ricollegarsi "non tanto ai limiti oggettivi del giudicato…quanto ai limiti cronologici". Una soluzione intermedia è prospettata da Romano, La pregiudizialità cit., 339, secondo cui "il motivo di ricorso…costituisce, senza dubbio, l’oggetto di un accertamento del giudice amministrativo, il quale ha, tipicamente, carattere meramente pregiudiziale, almeno sotto un profilo puramente logico…"; il motivo di ricorso avrebbe inoltre una funzione di precisazione ed integrativa dell’oggetto del processo, che sarebbe però rappresentato dalla questione di legittimità dell’atto. Villata, L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 1971, 538 ss., obietta che se i motivi integrano in qualche modo l’oggetto del giudizio, sarebbe più coerente affermare che essi ne fanno direttamente parte, anche per giustificare meglio perché concorrano a definire l’ambito del giudicato. Sulla posizione di Romano critico anche Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962, II, 578-580. Anche da un altro punto di vista, più generale, "la questione dell’eseguibilità della decisione sulla pregiudiciale non può sorgere quando la relativa controversia s’è svolta entro all’ambito del processo che pende sul susseguente logico; in questo caso infatti la pregiudiciale chiude pienamente la sua ragion d’essere con l’offerta di sè stessa al finale ragionamento del giudice": Menestrina, op. cit., 133. Ovviamente, precisa l’Autore, "diversa è la cosa se sulla pregiudiciale fu chiesta e ottenuta una decisione principaliter".

[149] Non sembra che "anche la gerarchia delle fonti, che comporta l’attribuzione al giudice del potere-dovere di accertare l’incompatibilità tra fonti e di negare applicazione alla norma esorbitante dai limiti che altra norma, a ciò abilitata dall’ordinamento, le pone, presuppone sempre che il giudice sia correttamente investito della questione", così come, "del resto, davanti alla Corte costituzionale la incostituzionalità di una legge, pur evidentissima, non è dichiarata se la questione non è rilevante nel giudizio a quo, e dunque se non stata ritualmente introdotta": Morbidelli, op. cit., 42 ss. Ora, a parte la circostanza che, come si è già chiarito, il fatto che il giudice possa ritenersi correttamente investito della questione dipende anche molto dall’opera di interpretazione e di ricostruzione del ricorso stesso, nonché dal tipo di censure avanzate dal ricorrente, c’è poi da dire che la necessità che la questione di costituzionalità sia rilevante nel giudizio a quo non ha nulla a che vedere con la ritualità della sua introduzione, dovendo considerarsi che tale questione non deve necessariamente essere avanzata dal ricorrente od attore, potendo invece benissimo essere rilevata, d’ufficio, dal giudice stesso.

[150] Si è anche affermato che il regolamento andrebbe considerato nullo nel caso in cui – "esorbitando dall’area delle sue attribuzioni – investa ambiti che la fonte maggiore ha riservato a se medesima ed ha, per giunta, regolato con i suoi precetti": così De Roberto, op. ult. cit., 13. Nello stesso senso Medugno, La disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo da parte del giudice ordinario e la non applicazione della norma contenuta nel regolamento contrario alla legge da parte del giudice amministrativo, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 169. A parte il fatto che la nullità, al di fuori dei casi espressamente previsti, presuppone la mancanza di elementi essenziali nel provvedimento, e la sua rilevazione d’ufficio da parte del giudice amministrativo, non può essere determinante in tal senso il fatto che una disposizione regolamentare sia inidonea, a causa della sua illegittimità, a disciplinare un caso concreto, affermandosi la sua incapacità "di dispiegare qualsiasi effetto modificativo sull’ordinamento previgente" (come in Cons. St. sez. V, 26 febbraio 1992 n. 154, in Giur. it., 1993, III, 653). L’incapacità ad innovare, infatti, non è che una conseguenza della sua disapplicazione, mediante la quale il giudice verifica che gli effetti dell’atto regolamentare stesso non si sono prodotti, ovvero non applica il regolamento per applicare una fonte normativa superiore. Come è stato precisato da Morbidelli, op. cit., 67 ss. – sebbene da un punto di vista tendente a mettere più in risalto la diretta applicazione della legge, piuttosto che la disapplicazione – "la categoria della <<inidoneità>> deriva dal raffronto con la legge preesistente, della quale è stata censurata la violazione e che ha una…capacità di resistere all’abrogazione in virtù del regolamento. …Il regolamento è vigente ed efficace ma la sua incompatibilità con la norma superiore viene rilevata, incidenter tantum, attraverso la incompatibilità diretta tra legge e provvedimento impugnato".

[151] Così afferma Medugno, op. cit., 168. Il che equivale a dire, ancora, che "la disapplicazione…è mera risoluzione delle antinomie tra le fonti", e che, "per la verità, si potrebbe…parlare invece di diretta applicazione della legge". Questo perché "anche se non ci fosse l’art. 5 all. E, poiché parliamo di rapporto tra fonti, vi sarebbero sempre i principi costituzionali, o comunque i criteri di risoluzione delle antinomie…", con la conseguenza che "si parla di disapplicazione per ossequio inveterato all’all. E, o più che altro, perché, alla luce delle regole tradizionali sulla efficacia – malgrado la loro invalidità – degli atti, si avverte l’esigenza tralaticia di caducare l’atto presupposto, dimenticando che qui siamo in presenza di fonti": Morbidelli, op. cit., 71. Da Medugno, op. cit., 167, viene evidenziata la "…natura anfibologica dei regolamenti, che sono atti formalmente amministrativi, ma sostanzialmente normativi". V. poi De Roberto, op. ult. cit., 13 ss., secondo cui, "ove la norma regolamentare sovrappositoria risulti posta a base di un atto applicativo pregiudizievole (…) non sarà necessaria l’impugnativa – insieme all’atto applicativo – della norma secondaria affetta da radicale nullità. Dovrà chiedersi, in questo caso, solo l’annullamento dell’atto applicativo denunciando, a seconda dei casi, o la divergenza di quest’ultimo dalla norma primaria (considerandosi tamquam non esset il regolamento) o l’insussistenza del presupposto (la norma regolamentare) richiesto per l’adozione dell’atto applicativo". Secondo De Roberto, la norma regolamentare non sarebbe produttiva di effetti in quanto nulla, mentre invece è il giudice che ne disconosce gli effetti in relazione a quel singolo caso, oltretutto, anche secondo l’Autore, considerando tamquam non esset il regolamento.

[152] Medugno, op. cit., 171.

[153] Morbidelli, op. cit., 75. D’accordo anche Zingales, Disapplicazione da parte del giudice amministrativo di prescrizioni regolamentari dei bandi di gara contrastanti con normativa primaria e con il principio di proporzionalità (nota a Tar Lombardia, sez. III, 5 maggio 1998 n. 922), in questa rivista, 1998, 2459. Sulla stessa linea Romano, Disapplicabilità di norme regolamentari, cit., 125, rileva come la soluzione dell’applicazione della norma superiore sia attuabile "quando questa norma già di per sé costituisca una disciplina completa, sufficientemente dettagliata, e, quindi, direttamente applicabile alla situazione soggettiva o al rapporto cui si riferisce. Perché allora il giudice può esercitare la sua funzione istituzionale, scegliendo tra due norme alla stregua di ambedue le quali esso può decidere la controversia. Ma questa possibilità non gli è data se la norma primaria detti la disciplina della materia solo per linee generali: che quindi non sia di per sé direttamente applicabile. Nei confronti della disposizione regolamentare che la precisi contrastandovi, allora, può porsi solo un problema non di sua sostituibilità, ma di sua annullabilità. L’alternativa della sua disapplicazione pare perciò che qui gli sia preclusa: e gli rimane solo quella del suo annullamento".

[154] Cfr. De Roberto, op. ult. cit., 13.

[155] Si rivela così contraddittoria la posizione di Morbidelli, op. cit., 73 ss., 66, il quale, sebbene arrivi poi alla conclusione che restano fuori dal campo di operatività della disapplicazione "le ipotesi in cui la illegittimità del regolamento discende dalla violazione di norme procedimentali (es. mancanza di parere del Consiglio di Stato…)", afferma però che proprio nei casi di sovrapposizione di norme regolamentari a precetti sopraordinati "si tratta…sempre di una lesione dell’ordinamento non meno grave di quella che si esprime nella violazione di principi o di norme di procedura: anche qui si ha egualmente una sovrapposizione…, rispetto a fonti superiori che vengono calpestate". Il fatto che la disapplicazione debba avvenire nei limiti dettati dal principio dispositivo comporterà che nel caso in cui il provvedimento venga impugnato per motivi diversi da quello di un diretto conflitto con una norma superiore regolante la stessa fattispecie, tale illegittimità non potrà essere rilevata d’ufficio, perché ciò richiederebbe che l’invalidità fosse qualificabile in termini di nullità, possibilità da escludere anche nei casi di "sovrapposizione" di cui si è detto in precedenza. "In casi come quelli appena ipotizzati, invero, non si dà prevalenza al regolamento sulla legge (i due atti non vengono nemmeno comparati), ma si afferma la legittimità (non in assoluto, ma rispetto ai motivi enunciati) di un provvedimento, pur fondato su di un regolamento illegittimo. Lo stesso avviene quando un provvedimento è palesemente contra legem, ma la censura non viene proposta. Anche in tal caso il provvedimento, pur invalido, non viene annullato; e dunque v’è un vulnus del principio di legalità, accettato dall’ordinamento, perché il giudizio amministrativo non configura una giurisdizione di diritto obiettivo".

[156] La circostanza che le norme contenute in un regolamento potrebbero essere contenute anche in una norma primaria non sembra eliminare la possibilità di qualificarlo tale. Contra Volpe, op. cit., 176, secondo cui "il carattere provvedimentale dell’atto normativo…passa in secondo ordine, mentre acquista priorità il suo valore di norma". V. anche Giannini, Atto amministrativo, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 162 ss., 171, per il quale non sarebbe esatto qualificare il regolamento come atto amministrativo nemmeno nella forma. Tuttavia, v. Carlassare, Regolamenti dell’esecutivo e principio di legalità, cit., 23, secondo cui sembra che i regolamenti, soprattutto quando vi sia un cumulo di funzioni legislative ed esecutive nel medesimo organo, "vengano emanati nell’esercizio di una funzione diversa da quella legislativa in senso proprio, nell’esercizio o a causa dell’esercizio della funzione esecutiva o amministrativa". Nello stesso senso casetta, Manuale di diritto amministrativo, cit., 344. V. inoltre Fois, Legalità, cit., 664, 666, il quale, dopo avere premesso che "scindere il fondamento della <<legalità>> a seconda che si tratti di regolamenti o invece di provvedimenti (amministrativi) non sembra sostenibile", precisa che le norme che possono offrire un fondamento alla legalità "esigono <<compatibilità>>", ovvero non contraddittorietà, quando non conformità, "non solo e non tanto tra il singolo <<provvedimento>> e una singola legge, bensì tra il singolo provvedimento e tutte le varie e possibili disposizioni delle <<leggi>>, e cioè rispetto a qualsiasi disposizione di legge che possa riferirsi al potere in base al quale il provvedimento è emanato, al modo di esercizio di tale potere, ed al contenuto dell’atto in cui tale potere si esprime". Inoltre, precisa Fois, op. cit., 685, l’indipendenza del giudice "non può…non valere anche e specialmente nei confronti dei regolamenti (amministrativi) ove non sia la <<legge>> a volere che tali atti si impongano al giudice"; chiarendosi che "il principio sancito nell’art. 101…implica la subordinazione del giudice non a qualsiasi <<norma giuridica>> o (in senso ancora più ampio) a qualsiasi forma di <<diritto oggettivo>>", bensì solo agli atti legislativi in senso tecnico, comprensivi dei decreti legislativi e dei decreti-legge.

[157] Per entrambe le due ultime affermazioni cfr. La Valle, Cognizione principale ed incidentale, cit., 143, 145. V. anche Migliorini, Disapplicazione e inapplicabilità, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 237, secondo cui "il giudice amministrativo è tenuto…ad applicare la prevalente disposizione di legge in antinomia con una disposizione regolamentare…non in virtù di un giudizio incidentale di legittimità, ma per effetto di un’attività interpretativa a lui riservata, che porta ad una dichiarazione implicita di inefficacia della disposizione normativa di grado inferiore".

[158] Per entrambe le ultime due affermazioni Volpe, op. cit., 177. Vale la pena di ricordare che Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 25 ottobre 1996 n. 366, in questa rivista, 1997, 218, in un’altra occasione in cui estensore era lo stesso Volpe, ha affermato, rilevando l’illegittimità di una norma regolamentare per il suo contrasto con una legge che disciplinava la stessa materia, che tale norma dovesse "essere disapplicata dal giudice amministrativo e quindi considerata tamquam non esset dal Collegio". Tale principio sembra ormai affermato, ripetendosi che la disciplina regolamentare illegittima "deve essere disapplicata, in quanto, secondo i principi generali sulla gerarchia delle fonti, nel conflitto tra due norme diverse, occorre dare preminenza a quella legislativa, di livello superiore": Cons. St., sez. IV, 24 marzo 1998 n. 498, cit., ivi. V. anche Tar Umbria, 23 aprile 1996 n. 176, cit., ivi; Cons. St., sez. V, 19 settembre 1995 n. 1332, in Cons. St., 1995, I, 1233; Id., sez. V, 24 luglio 1993 n. 799, in Foro it., 1994, III, 332; Id., sez. V, 26 febbraio 1992 n. 154, cit., ivi. Già prima, comunque, Id., sez. V, 28 settembre 1957 n. 806, in questa rivista, 1958, I, 2, 90; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 30 settembre 1965 n. 130, in Cons. St., 1965, I, 1514. Anche Baccarini, Disapplicazione dei regolamenti nel processo amministrativo: c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico, in questa rivista, 1993, I, 469, rileva che nei casi in cui il regolamento, che risulta essere in contrasto diretto con la legge, non fosse impugnabile, per cui mancherebbero termini d’impugnazione suscettibili di elusione, "la regola della disapplicazione, strumento ordinario di risoluzione delle antinomie tra fonti normative, si riespande, in conformità al principio jura novit curia ed al criterio secondo cui la cognizione della norma avviene sempre incidenter tantum". Come è stato notato dallo stesso Baccarini, op. ult. cit., 468, "la non disapplicabilità del regolamento si è troppo spesso risolta…in pratica disapplicazione della legge". V. inoltre Fois, op. cit., 685, in nota 144, secondo cui, se si ritiene che atti amministrativi o normativi del potere esecutivo non possano sovrapporsi ad atti normativi dotati di forza giuridica superiore "in base allo stesso ordine gerarchico tra le varie fonti del diritto", in realtà "si tratta…di opinione insoddisfacente,…perché simile ordine gerarchico dipende anche e specialmente dalla vigenza e dal significato del principio di legalità…".

[159] Discorso diverso, poi, è quello riguardante la circostanza, rilevata da De Roberto, op. ult. cit., 19, per cui il regime della disapplicazione della norma regolamentare "non richiede la presenza in causa dell’autorità dalla quale promana l’atto disapplicato…". Sullo stesso punto Casetta, op. cit., 704, per la possibilità che risulti "superabile…la delimitazione del thema decidendum operata dalla parte". Come è stato notato, infatti, "resta fermo che in ogni caso dovrebbe essere trovato un modus procedendi tale da garantire il contraddittorio, cui è tenuto lo stesso giudice": Morbidelli, op. cit., 79, in nota 129. Risultato, questo, che può essere facilmente ottenuto chiamando in causa l’amministrazione, ed evitando così di sottrarre alla autorità emanante la facoltà di difendere il proprio provvedimento. Per quanto tale limite, concernente il contraddittorio, inerisca anche al processo civile, quando l’amministrazione non è parte in causa. Non sembra poi che sia di difficile configurazione la costituzione in capo all’amministrazione di un obbligo ex iudicato ad offrire – sia pure ai soli fini di un’eventuale rinnovazione dell’atto applicativo annullato – nuove regole rispettose delle illegittimità dichiarate in sede disapplicativa, sia perché anche questo rilievo è meramente teorico, e può essere superato chiamando in causa l’amministrazione interessata, sia perché presuppone necessariamente che l’amministrazione intimata nel giudizio contro l’atto applicativo impugnato sia sempre diversa da quella competente poi a provvedere sulle disposizioni regolamentari dichiarate – incidenter tantum – illegittime. Importante l’affermazione, già di Cons. St., sez. V, 15 aprile 1910, in Foro it., 1910, III, 177, secondo cui "in ogni caso poi il privato interessato non può mai essere astretto ad impugnare, oltre il provvedimento speciale che lo riguarda, anche la disposizione generale, di cui questa è un’applicazione". E questo perché "se il provvedimento si riconosce illegittimo, spetta non al privato, ma all’ente morale ed all’autorità governativa il cercare che le disposizioni regolamentari difettose siano modificate e corrette".

[160] Cfr. Cons. St., sez. VI, 3 giugno 1966 n.517, in questa rivista, 1966, I, 2, 1053.

[161] Cfr., in questi termini, Cons. St., sez. V, 28 dicembre 1989 n. 910, in Cons. St., 1989, I, 1561. V. anche Id., sez. V, 25 novembre 1988 n. 749, in questa rivista, 1988, 3259. Per una impostazione civilistica v. Menchini, op. cit., 154 ss., il quale – citando l’art. 2377, 3° c., secondo cui "l’annullamento della deliberazione ha effetto rispetto a tutti i soci", nonché l’art. 2453, ult. c., che dispone che "la sentenza fa stato anche riguardo ai non intervenuti" – afferma che "la sentenza, compresa quella di rigetto, non può non essere vincolante nei confronti di tutti i soggetti giacchè, in caso contrario, finirebbe con l’essere inefficace anche nei confronti delle parti, in quanto suscettibile di essere posta nel nulla anche rispetto a queste, da un’eventuale successiva decisione, emessa in accoglimento della domanda di uno dei legittimati rimasto estraneo al primo processo". La teoria in questione va comunque adattata alla struttura del processo amministrativo, in base alla considerazione che, in presenza di più soggetti, l’inoppugnabilità si forma gradualmente; con la conseguenza che le sentenze di rigetto non possono valere per i soggetti rimasti estranei.

[162] Nel senso della rilevanza erga omnes dell’annullamento di atti inscindibili è generalmente orientata la giurisprudenza. V. ad es. Cons. St., sez. VI, 21 ottobre 1980 n. 885, in Cons. St., 1980, I, 1397; Tar Puglia, sez. I, 24 marzo 1998 n. 287, in questa rivista, 1999, 209. V. anche Amorth, Impugnabilità e disapplicazione dei regolamenti e degli atti generali, in Problemi del processo amministrativo, Milano, 1964, 561; Romano, La pregiudizialità, cit., 375. Interessanti le notazioni di Mazzarolli, La giurisdizione sui regolamenti è di diritto oggettivo?, in Atti del convegno "Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti", Torino, 1998, 189 ss., il quale richiama all’uopo l’art. 14, comma 3, del d.p.r. 1199/1971, che, con riferimento alla decisione del ricorso straordinario che <pronuncia l’annullamento di atti amministrativi generali a contenuto normativo>, prescrive che ne sia fatta pubblicità <nelle medesime forme di pubblicazione degli atti annullati>; "la quale norma non avrebbe senso se gli effetti dell’annullamento fossero circoscritti alle parti". Ora, precisa Mazzarolli, se si accogliesse invece la teoria criticata, "i regolamenti dovrebbero considerarsi annullabili in senso proprio – e quindi con efficacia erga omnes – se impugnati con un ricorso straordinario, e non tali invece se riconosciuti invalidi con una pronuncia in sede giurisdizionale". Inoltre, "ove si voglia negare la possibilità, per il giudice amministrativo…di annullare i regolamenti e di annullarli in toto, ci troveremmo con un sistema che prevede l’eliminazione degli atti normativi costituenti fonte primaria – le leggi e gli atti ad esse equiparati – attraverso l’opera della Corte Costituzionale (…), ma non contemplerebbe la rimovibilità in sede giurisdizionale di atti aventi la natura di fonte secondaria".

[163] Cfr. Cons. St., sez. V, 13 gennaio 1954 n.51, in questa rivista, 1954, I, 2, 190. In dottrina De Roberto, op. ult. cit., 19, con esplicito riferimento a tale giurisprudenza, afferma che nella scelta tra le due tesi (quella antica della impugnazione ad <<effetti circoscritti>> e quella, più recente, della disapplicazione) "sembra doversi manifestare preferenza per la prima di esse auspicando…il <<ritorno>> a quell’indirizzo (forse, a torto abbandonato trenta anni or sono)…". V. tuttavia Cons. St., sez. IV, 12 marzo 1992 n. 274, in Cons. St., 1992, I, 379, ove si precisa che "alle decisioni del giudice amministrativo che annullano disposizioni regolamentari (…) non può essere attribuito altro effetto che quello di rimuovere la disposizione riconosciuta viziata, senza alcun effetto additivo, inteso come quello proprio di sentenze che lasciano in vita la disposizione viziata, limitandosi a modificarla ampliandone la sfera di applicazione e gli effetti".

[164] Per la distinzione fra atti generali, rivolti ad una pluralità indeterminata di destinatari, e atti plurimi, dal contenuto o dall’oggetto diverso, v. Sandulli, Manuale, cit., 661.

[165] Tale soluzione è prospettata anche da Romano – Disapplicabilità di norme regolamentari, cit., 117 – ma con riferimento a norme immediatamente produttive dell’effetto giuridico previsto, precisando che "una disposizione regolamentare del genere…, appunto in quanto solo generale e non anche astratta, è scomponibile in una serie infinita di concreti provvedimenti, ciascuno dei quali produttivo dei suoi effetti tipici…", per cui, "pur avendo forma di regolamento, ha un contenuto analogo a quello di quegli atti amministrativi generali non regolamentari, che opinioni e orientamenti giurisprudenziali definiscono come scindibili". Pertanto, "i problemi di tutela giurisdizionale dell’interessato…devono essere risolti in analogia con quelli che si incontrano nell’impugnazione di provvedimenti individuali", cioè, al momento in cui sorge l’interesse a ricorrere, "con la consueta domanda di annullamento di tale disposizione. Che, però, dovrebbe essere circoscritta al solo provvedimento, tra gli infiniti nei quali è idealmente scindibile, che riguarda specificamente e singolarmente il ricorrente stesso".

[166] Così Vacirca, op. cit., 245. Oltretutto, per quanto riguarda specificamente i cointeressati che non abbiano a loro volta presentato autonomo ricorso, c’è da dire che "in sede di valutazione per l’estensione del giudicato l’amministrazione deve tener conto del fatto che l’estensione stessa, di regola, non potrebbe essere applicabile ai rapporti giuridici derivanti da un atto o provvedimento divenuto inoppugnabile per decorrenza del termine ultimo per impugnarlo, perché altrimenti si andrebbe incontro ad un grave sovvertimento della pubblica amministrazione, che si vedrebbe costretta a riprendere in esame una lunga serie di atti e provvedimenti, già da anni pacificamente eseguiti, con tutti i loro risultati consequenziali": Cons. St., sez. V, 21 settembre 1996 n. 1146, in Cons. St., 1996, I, 1333. V. l’art. 22, comma 34, l. 23 dicembre 1994 n. 724, che pone il divieto per le pubbliche amministrazioni di adottare provvedimenti per l’estensione del giudicato nella materia che poteva definirsi del pubblico impiego.

[167] Cfr. Cons. St., sez. IV, 24 giugno 1997 n. 674, in questa rivista, 1997, 1648. Nello stesso senso, in dottrina, Romano, Osservazioni sull’impugnativa dei regolamenti, cit., 949.

[168] Così Cons. St., sez. V, 24 maggio 1996 n. 592, in Cons. St., 1996, I, 871. Tuttavia, si afferma che "il principio della portata caducante della sentenza di annullamento giurisdizionale non è invocabile quando l’atto consequenziale abbia conferito un bene, un’utilità o uno <status> ad un soggetto che non è qualificabile come parte necessaria nel giudizio che ha per oggetto l’atto presupposto; ciò in quanto non può ammettersi che tale soggetto subisca un pregiudizio in conseguenza dell’annullamento dell’atto presupposto a seguito di un giudizio cui non ha partecipato e di cui neanche potrebbe avere conoscenza": Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 18 maggio 1996 n. 154, in Cons. St., 1996, I, 1026.

[169] In questa ottica si pone Sandulli, Manuale, cit., 725, secondo il quale "appare...difficile giustificare sul piano dogmatico un automatico effetto caducante espansivo nei confronti di atti che non abbiano formato oggetto di uno specifico provvedimento di caducazione".

[170] Cfr. Cerulli Irelli, Corso di Diritto Amministrativo, Torino, 1997, 565, secondo il quale "si può affermare con certezza…che l’atto conseguenziale, per effetto dell’annullamento del presupposto diviene illegittimo ab origine, come illegittimo sarebbe stato ab origine se fosse stato emanato in assenza dell’atto presupposto (…)". Non sembra poi fondata, in senso contrario, la posizione di Morbidelli, op. cit., 77 ss., secondo cui "la disapplicazione frantuma l’unità dell’ordinamento e crea situazioni di incertezza", perché "risulta contrario al comune sentire ed ai principi generali dell’ordinamento la circostanza che una norma regolamentare illegittima, resa inefficace in un caso specifico, continui ciò malgrado a rimanere in vigore per tutti coloro che non siano stati parte in giudizio o non vi siano intervenuti in veste di cointeressati, tantopiù in assenza di alcuna forma di pubblicità legale della sentenza <<disapplicativa>>". Si omette probabilmente di trascurare il vincolo che dalla sentenza del giudice amministrativo deriverà comunque alla p.a., nei termini già indicati. In ogni caso, poi, per gli altri soggetti che non siano stati parti del giudizio varranno le regole esposte nel testo, mentre per quanto riguarda la pubblicità delle sentenze lo stesso Morbidelli ammette che "per il vero non v’è neanche pubblicità delle sentenze dei giudici amministrativi di annullamento dei regolamenti", ipotizzando, così come Vacirca, op. cit., 243, una applicazione per analogia (rectius: estensiva) dell’art. 14, comma 3, d.P.R. 24.11.71. n. 1199, che prevede una pubblicazione, nelle stesse forme degli atti annullati, delle decisioni – adottate su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica – di annullamento di <<atti amministrativi generali e di atti normativi>>. Anche in dottrina si è cercato di ovviare agli inconvenienti rilevati, osservando che, per i soggetti rimasti estranei al ricorso, "non sarebbe infondato sostenere che, non avendo essi impugnato i provvedimenti applicativi lesivi…, si possa ritenere che essi vi abbiano prestato acquiescenza, esonerando l’amministrazione dal rimuovere gli effetti prodotti da quei provvedimenti…", con la conseguenza che nei confronti dei soggetti estranei "l’annullamento della disposizione regolamentare non comporta un effetto ripristinatorio, ma diviene operante solo dal momento in cui l’amministrazione, in obbedienza al giudicato, non potrà più continuare ad applicare la disposizione regolamentare annullata": così Amorth, op. cit., 574 ss. Nello stesso senso Benvenuti, L’impugnazione dei regolamenti, in questa rivista, 1982, II, 539, secondo il quale "è chiaro che ove si consideri il regolamento come atto direttamente lesivo della posizione di un singolo, l’effetto di cosa giudicata è limitato al caso deciso. Non si pone, quindi, un problema di estensione del giudicato in quanto tale ma…scatta l’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi alla pronuncia del giudice: il che significa che l’amministrazione ha l’obbligo di procedere all’auto-annullamento della disposizione regolamentare dichiarata illegittima e annullata dal giudice amministrativo e come pure di quella dichiarata illegittima e disapplicata dal giudice ordinario". Sembra però che non si possa parlare di auto-annullamento da parte dell’amministrazione successivo all’intervento del giudice, visto che questi avrà già annullato la disposizione regolamentare in questione. Oltretutto, come lo stesso Benvenuti ammette, "questa non è una soluzione giuridica, non essendo l’obbligo di conformarsi legalmente sanzionato", perché tale obbligo non potrebbe essere azionato da nessun terzo, né può rilevare in alcun modo l’eventuale circostanza che "l’amministrazione si troverebbe soccombente ogni qual volta intendesse applicare la disposizione regolamentare illegittima". Inoltre, la mancata impugnazione non può essere intesa come acquiescenza al provvedimento, potendo essere dovuta a qualsiasi causa che non sia quella di soggiacere definitivamente agli effetti del provvedimento.

[171] Sugli aspetti che si sta per evidenzare e, in particolare, per l’esempio citato, cfr. Meregazzi, L’annullamento giurisdizionale dei regolamenti, in Scritti in memoria di A. Giuffrè, 1967, 607 ss.

[172] Non sembra perciò condivisibile che "la disapplicazione può essere un male necessario; ma sempre male resta, perché sul piano sistematico…incrina la certezza del diritto, la conoscibilità del diritto e il principio di uguaglianza…": cfr. Giacchetti, op. ult. cit., 203.

[173] Si pensi ad un decreto provveditoriale relativo al bando di concorso magistrale e l’ordinanza ministeriale di presupposizione dello stesso, generalmente non autonomamente impugnabile.

[174] V. Zagarese, Il potere del giudice amministrativo di disapplicare atti generali di organi centrali dello Stato, in quanto impugnati con atti degli stessi attuativi, emanati da organi periferici, in Riv. Amm., 1980, I, 741.

[175] Così Cons. St., sez. VI, 7 luglio 1986 n.472, in Cons. St., 1986, I, 932. Si ha quindi che in molte, se non in tutte, delle fattispecie che rilevano nell’esame in corso si verificherebbe uno spostamento della competenza al Tar del Lazio, facendo però venir meno quello che era lo spirito stesso della legge del 1971, cioè quello di evitare una concentrazione di giudizi, e di consentire una maggiore accessibilità agli organi decentrati di giustizia amministrativa. C’è da dire, però, che tale circostanza potrebbe verificarsi solo in seguito alla proposizione di un regolamento di competenza, poiché il giudice periferico non potrebbe dichiarare di sua iniziativa la propria incompetenza per territorio, relativamente ad impugnazioni di atti generali di organi centrali, ostando a ciò il primo comma dell’art.31 della legge Tar, ai sensi del quale "l’incompetenza per territorio non è rilevabile d’ufficio".

[176] Più giustificate appaiono quelle pronunce che hanno quanto meno precisato alcuni presupposti per lo spostamento di competenza, affermando che "l’effetto di spostare la competenza dal Tar territoriale al Tar per il Lazio nel caso di ricorso proposto contro un atto statale la cui efficacia si estende a tutto il territorio nazionale,…puo’ verificarsi solo quando il gravame sia diretto a censurare direttamente il provvedimento generale, del quale sia chiesta l’eliminazione totale o parziale, e non anche nel caso in cui si censura l’interpretazione data dall’amministrazione all’atto in questione, del quale non si chiede l’annullamento" (nella specie, col ricorso si chiedeva la disapplicazione di un’ordinanza ministeriale, nei confronti della quale non si muoveva alcuna censura di legittimità, ma si affermava che le prescrizioni in essa contenute nulla aggiungevano alle disposizioni di legge): così Cons. St., sez. VI, 23 aprile 1982 n. 226, in Cons. St., 1982, I, 563.

[177] Così Piga, Connessione ed accertamenti incidentali nel processo amministrativo, in Atti del X Convegno di studi di Scienza dell’amministrazione, Milano, 1964, I, 486.

[178] Cons. St., sez. VI, 23 aprile 1982 n. 226, in Cons. St., 1982, I, 563.

[179] Cfr. Migliorini, op. cit., 238. V. Cassarino, Manuale di Diritto Processuale Amministrativo, Milano, 1990, 102 ss., il quale, pur oscillando tra le due opposte concezioni del processo, rileva come sia "innegabile che taluni connotati del processo amministrativo, quali il ripudio dell’azione popolare (…), la piena disponibilità del giudizio da parte del ricorrente…", oltre all’obbligo di notifica del ricorso ai controinteressati, "fanno legittimamente pensare ad un processo e ad una giurisdizione, rivolti alla tutela di un interesse del singolo" e, più in generale, alla tutela "di interessi individuali". Tuttavia, precisa l’Autore, il particolare oggetto su cui verte il processo "non consente una piena assimilazione con la funzione volta a dirimere i conflitti di interessi fra le parti…".

[180] Le considerazioni sono di F. Satta, Giustizia amministrativa, III, Padova, 1997, 427, 429. V. anche Cannada-Bartoli, Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Noviss. Dig. It., XIII, Torino, 1966, 1078, 1082, il quale rileva la possibilità di "ritenere eliminata ogni contraddizione nel definire la giurisdizione amministrativa come giurisdizione su atti e nel ritenerne, al contempo, la natura soggettiva, trattandosi di valutazioni compatibili siccome concernenti aspetti differenti del problema". La natura soggettiva del processo è dimostrata anche, precisa Cannada-Bartoli, dal fatto che "il ricorrente può riferirsi ad atti successivi al provvedimento impugnato per dimostrare, ad es., che questo è viziato da eccesso di potere. Ciò significa che il provvedimento è, per il privato, l’oggetto dell’impugnativa, ma non il limite delle deduzioni, se non nel senso che con esse deve contestare un vizio di quell’atto, giacchè egli difende i propri interessi contro l’assetto disposto con il provvedimento…". Come lo stesso Cannada-Bartoli ha osservato in altro scritto, Motivi aggiunti e ricorso aggiunto (nota a Cons. St., sez. V, 23 marzo 1993 n.398), in Giur. it., 1994, III, 355, "…la res in iudicium deducta è la situazione soggettiva lesa…", nel senso che occorre riferire la ragione dedotta in giudizio "alla situazione che si tutela e non, restringendola, alla illegittimità di un atto, necessario ed esclusivo argomento della illegittimità denunziata".

[181] Contra Casetta, op. cit., 745 ss., secondo cui "pure il riconoscimento del potere del giudice amministrativo di disapplicare gli atti normativi accentua il carattere del processo amministrativo, costituito dal controllo oggettivo sulla legittimità dell’attività amministrativa a scapito della tutela dell’interesse della parte (…)". Né mancano ipotesi, pure eccezionali, in cui la legittimazione ad agire spetta ad un organo pubblico, a conferma che il processo sicuramente mira anche a tutelare la legalità dell’azione amministrativa" (Casetta cita in tal senso l’art. 6, comma 10, l. 9 maggio 1989 n. 168, che, in taluni casi, legittima il Ministro dell’università a ricorrere contro l’atto del rettore). Lo stesso Casetta, tuttavia, op. cit., 739, ammette che "da giurisdizione di diritto oggettivo (avente come fine quello di tutelare l’osservanza della legge), la giurisdizione del giudice amministrativo si è così progressivamente configurata come giurisdizione di tipo soggettivo, volta cioè alla tutela di interessi individuali".

[182] Nigro, op. cit., 236. V. anche Cannada-Bartoli, Processo amministrativo, cit., 1082: "la tutela…dell’interesse legittimo si attua…mediante l’annullamento del provvedimento…, il quale viene impugnato perché…dispone un illegittimo assetto di interessi (…); confermandosi…che la questione sulla legittimità del provvedimento impugnato si lega con quella concernente la disposizione degli interessi". Infatti, "in quanto conosce di codesto assetto, il giudice conosce di tali interessi, ma…congelati nel provvedimento". Per G. Corso, Per una giustizia amministrativa più celere, in Giur. amm. sic., 1988, 2, II, 19 s.s., "il dato da cui partire è che, per prescrizione costituzionale, il processo amministrativo serve per la tutela del cittadino, non per il controllo della pubblica amministrazione. Serve alla protezione di interessi, non all'annullamento di atti illegittimi. L'illegittimità è sanzionabile, a mezzo del processo, se ed in quanto sia associata alla lesione di un interesse".

[183] Cfr. Cannada-Bartoli, L’inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, 32. V. anche Trib. sup. acque pubbl., 11 dicembre 1972 n. 35, in Cons. St., 1972, II, 1151. Quindi è soltanto questo che il privato non può più chiedere, perché tale possibilità comporterebbe in effetti una elusione dei termini di decadenza, ma "non si vede per qual motivo quel cittadino...non possa, in occasione del ricorso proposto contro il provvedimento successivo, chiedere la disapplicazione del precedente atto, che non impugnò per la tutela di un interesse diverso da quello in seguito leso…". Questo perché, "in tal caso, il diniego di disapplicazione è diniego di giustizia, e contrasta con il principio costituzionale che vieta le limitazioni della tutela riguardo alla pubblica amministrazione": Cannada-Bartoli, op. ult. cit., 33 ss.

[184] Nel senso del testo Baccarini, La parabola della non disapplicabilità, cit., 161, il quale rileva che "se ciò che determina la lesione è l’atto applicativo, la reazione necessaria e sufficiente è l’impugnazione dell’atto applicativo medesimo, e la reintegrazione dell’interesse giuridico violato è garantita dal suo annullamento". Dello stesso Autore v. anche Il Consiglio di Stato folgorato, cit., 573. Cfr. poi Romano, Osservazioni, cit., 951, nonché La Valle, Cognizione principale ed incidentale, cit., 155. Già Cons. St., sez. V, 14 febbraio 1941 n. 93, cit., ivi, affermava che "se…la disapplicazione può bastare alla restaurazione del diritto o interesse che si pretende offeso, nessun interesse dell’amministrazione riceve pregiudizio dal fatto, che invece dell’annullamento dell’atto o regolamento, se ne domandi, nel termine di legge, la disapplicazione". In termini analoghi cfr. anche Vacirca, op. cit., 244, il quale osserva che, in tal genere di fattispecie, l’unico caso in cui l’annullamento dell’atto potrebbe non essere sufficiente è quello in cui "il permanere della norma regolamentare obblighi l’amministrazione ad adottare un nuovo atto lesivo analogo a quello annullato", ma "anche in questo caso, però, l’effetto conformativo del giudicato sembra sufficiente ad evitare la reiterazione dell’atto in applicazione di una disposizione regolamentare dichiarata illegittima".

[185] Così Abbamonte, op. cit., 255, in fine.

[186] Cfr. per esempio Cons. St., sez. IV, 20 aprile 1971 n.463, in questa rivista, 1971, I, 2, 426, secondo cui l’invalidazione pregressa o contestuale deve avvenire "per una insopprimibile esigenza di certezza dell’azione amministrativa e di integrale ripristino della legalità". "Pertanto, a coloro che pur trovassero nel regolamento impugnato una regola che li favorisce, dovrebbe essere negata la qualità di controinteressati: essi non sono controinteressati in senso proprio perché tale posizione non può sussistere in un soggetto con riguardo ad un atto che, di per sé, come non tocca in modo diretto e attuale un interesse ledendolo, così non ne tocca allo stesso modo altri, favorendoli": Mazzarolli, op. ult. cit., 191 ss. Inoltre, precisa l’Autore, stabilendo un parallelismo con il giudizio di costituzionalità delle leggi, "perché…non potrebbe ritenersi plausibile l’opinione che, mediante l’impugnativa di un soggetto interessato al fine di tutelare un proprio interesse, si renda anche possibile che il giudice amministrativo venga investito del giudizio sull’illegittimità degli atti normativi non legislativi visti nella loro integralità; e quindi della possibilità di eliminarli, annullandoli, ove li riconosca viziati, benchè tale effetto trascenda la tutela dell’interesse del ricorrente?". Proprio nell’ottica qui criticata Lugo, La dichiarazione incidentale d’inefficacia dell’atto amministrativo, cit., 58, giunge ad escludere la disapplicabilità degli atti amministrativi illegittimi nel giudizio amministrativo affermando che "la disapplicazione è un mezzo adeguato ad assicurare la protezione degli interessi particolari colpiti dall’atto illegittimo, ma non è concepibile in funzione della tutela dell’interesse pubblico". Per i profili trattati finora v. Romano, Osservazioni, cit., 951 s.s. Anche Meregazzi, op. cit., 610, sostenendo che "soltanto per l’annullamento dei regolamenti si potrebbe aderire alla teoria che ritiene la giurisdizione del Consiglio di Stato posta prevalentemente a tutela della legittimità degli atti della pubblica amministrazione", ribadisce che "l’annullamento di una norma di diritto obbiettivo illegittima è senza dubbio un’esigenza che travalica l’interesse individuale, e riguarda invece l’intera comunità per il superiore fine della certezza del diritto". Risulta pertanto inesistente quell’aporia, rilevata da Medugno, op. cit., 170, "ravvisabile nel ricorso ad un istituto come la disapplicazione (operazione giuridica destinata ad esaurire i suoi effetti nei limiti anzidetti) quale strumento di ricognizione del diritto oggettivo vivente". C’è da dire, in proposito, che una critica di tal genere sarebbe semmai rivolgibile all’annullamento, e non certo alla disapplicazione, legata ad accertamenti incidenter tantum finalizzati esclusivamente alla tutela di situazioni giuridiche.

[187] Così Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 21 febbraio 1968 n.49, in Cons. St., 1968, I, 324; v. anche Tar Piemonte, 18 luglio 1979 n.390, in questa rivista, 1979, I, 2, 2193. V. invece Cons. St., 26 febbraio 1992 n. 154, cit., ivi, che disapplica una norma regolamentare contrastante con una disposizione legislativa. Per sottolineare però di non discostarsi dal tradizionale orientamento, il collegio chiarisce che era possibile disapplicare in quanto si trattava di diritto soggettivo di persona giuridica di diritto pubblico. Le giustificazioni appaiono però non pertinenti, innanzi tutto perché "di atti autoritativi e, in contrapposto, di atti e rapporti paritetici, si parla con riguardo ad atti amministrativi speciali,…non anche rispetto ad atti normativi secondari, i quali possono essere annullati o disapplicati al pari di un atto amministrativo speciale, e per questo sono considerati formalmente amministrativi, ma chiaramente se ne distinguono per il contenuto e l’efficacia di norma"; oltretutto, poi, la mancanza di carattere autoritativo non può essere collegata all’esistenza di un diritto soggettivo costituzionale, il cui contenuto "è completamente riconducibile ad una norma di legge", "perché quel diritto altro non è che la norma subiettivata, la quale non può essere eliminata da una norma di rango inferiore": così Cannada-Bartoli, Disapplicazione di ufficio di norma regolamentare illegittima (nota a Cons. St., 26 febbraio 1992 n. 154, cit.), in Giur. it., 1993, III, 653. Come lo stesso estensore della sentenza, Volpe, op. cit., 178, a distanza di qualche anno, ammette – rivelando "la preoccupazione del Consiglio di Stato di non scardinare…i principi e di creare comunque, alla disapplicazione, un aggancio al diritto soggettivo" – "nella specie si era in presenza di giurisdizione generale di legittimità…e di interessi legittimi".

[188] Cfr. Tar Abruzzo, sez. L’Aquila, 30 ottobre 1997 n. 531, in questa rivista, 1998, 2193.

[189] Così Caianiello, I caratteri della giurisdizione esclusiva, in Studi in onore di A. Papaldo, Milano, 1975, 185 ss., 202. V. però Roehrssen, La giurisdizione esclusiva, in Impresa, ambiente e p. a., 1978, 142, secondo cui nella giurisdizione esclusiva "non trova più applicazione quello che è il normale criterio distintivo fra la giurisdizione del giudice civile e quella del giudice amministrativo…". Secondo Domenichelli, Giurisdizione esclusiva e disapplicazione dell’atto amministrativo invalido, cit., 175, "le situazioni restano indistinte…perché il legislatore non vuole che esse siano distinte; …non vuole che le situazioni abbiano un diverso trattamento processuale quando ineriscano ad una medesima (complessa) relazione giuridica". Nelle materie in questione non sarebbe quindi possibile differenziare quanto appartiene al privato per volontà della sola legge e quanto invece la legge vuole che gli sia attribuito o sottratto mediante libere determinazioni dell’amministrazione (c.d. atti paritetici). V. Cons. St., sez. V, 1° dicembre 1939 n. 795, in questa rivista, 1940, I, 2, 42; Id., Ad. Pl., 18 dicembre 1940 n. 6, in Foro it., 1941, III, 194. In Nota a sent. ult. cit., ivi, U. Forti rilevò che l’intenzione non era affatto quella di riportare quel tipo di atti, paritetici, ad un rapporto di diritto privato, "ma solo di paragonarli a questo, per il carattere comune che essi hanno di riferirsi ad una situazione nella quale l’amministrazione ha di fronte a sè intangibili diritti patrimoniali". La conseguenza immediata è naturalmente che "in tema di diritti patrimoniali…disconosciuti dalla pubblica amministrazione, il termine per il ricorso giurisdizionale…è quello prescrizionale stabilito dalle leggi civili": Ledda, La giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato, in Nuova rassegna, 1971, 2732 s.s. Cfr. anche V. D’audino, Del termine per il ricorso giurisdizionale amministrativo in materia di diritti patrimoniali degli impiegati pubblici (nota a Cons. St., 1° dicembre 1939 n.795), in questa rivista, 1940, I, 2, 42. Per l’estensione della categoria dei rapporti paritetici a quei rapporti in cui l’amministrazione emetta degli atti di adempimento di obblighi non pecuniari, come il rilascio al personale di permessi e aspettative cui esso abbia diritto, v. ad es. Cons. St., Ad. Pl., 26 ottobre 1979 n. 25, in Cons. St., 1979, I, 1294.

[190] Anche Cons. St., Ad. Pl., 18 dicembre 1940 n. 6, cit., ivi, precisò che per parlarsi di atto paritetico, l’obbligazione configurabile in capo alla p.a. non deve essere strettamente legata ad una modificazione autoritativa, necessaria al fine del nascere e della soddisfazione dell’obbligazione. V. così tutte quelle pronunce secondo cui è inammissibile un ricorso quando non sia possibile rimettere in discussione lo status giuridico ed economico del pubblico dipendente, già definito con atti autoritativi dell’amministrazione non impugnati tempestivamente. V. Cons. St., sez. V, 24 marzo 1998 n. 354, in Cons. St., 1998, I, 399; Cass., sez. lav., 14 febbraio 1997 n. 1345, cit., ivi; Cons. St., sez. V, 17 maggio 1997 n. 515, in Cons. St., 1997, I, 702; Tar Sicilia, sez. Catania, 26 luglio 1999 n. 1430, in Tar, 1999, 10, I, 4159. Anche da parte di Spizzichino, L’art. 5 l. 20 marzo 1865 n. 2248 all. E e il giudice amministrativo: verso nuovi orizzonti ? (nota a Cons. St., sez. V, 24 luglio 1993 n. 799), in questa rivista, 1994, I, 80, si è affermato che "non è contestabile che anche nella giurisdizione esclusiva, qualora tra la fattispecie e l’astratta previsione normativa si interponga un provvedimento…, vi sia in realtà spendita di un potere di supremazia, dinanzi al quale il privato vanta posizioni di interesse legittimo: sì che, come il potere di disapplicazione mal si attaglia al giudizio di legittimità, esso non potrà essere esteso a quei casi di giurisdizione esclusiva in cui il petitum del ricorrente miri sostanzialmente e direttamente a demolire un provvedimento, anche in tale sede da impugnarsi nei termini". V. anche tutta quella giurisprudenza in materia di atti costitutivi di rapporti di lavoro a termine: fra tutte, Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 3 marzo 1999 n. 75, in Cons. St., 1999, I, 504; Cons. St., 12 novembre 1992 n. 1281, in questa rivista, 1992, 2592; Id., Ad. Pl., 15 dicembre 1981 n.12, in Cons. St., 1982, I, 6. Favorevole invece alla disapplicazione, in base al rilievo che il giudice deve operare la qualificazione giuridica di una situazione complessa, Domenichelli, Alcune note sull’esercizio dei poteri del giudice amministrativo in materia di giurisdizione esclusiva: il caso dei rapporti di lavoro a termine con la pubblica amministrazione, in questa rivista, 1978, I, 1174.

[191] V. Tar Umbria, 23 aprile 1996 n. 176, cit., ivi, secondo cui "il principio sancito dall’art. 5…è da ritenere oggi estensivamente applicabile anche nella sfera di giurisdizione del giudice amministrativo, specie quando a quest’ultimo è anche devoluta la cognizione di diritti soggettivi". Analogamente Cons. St., sez. V, 7 aprile 1995 n. 531, in Cons. St., 1995, I, 523.

[192] Così Caianiello, op. cit., 208. Allo stesso modo, si precisa che "nell’ambito della giurisdizione amministrativa esclusiva, ove l’atto annullabile incida <<degradatoriamente>> su diritti soggettivi preesistenti, andrà avanzata la impugnativa del provvedimento": De Roberto, op. ult. cit., 22. V. però Cannada-Bartoli, Spunti esegetici contro la degradazione dei diritti dei cittadini, cit., 73, ove l’Autore, criticando la teoria della degradazione, afferma che tale nozione sia contrastata dall’esistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: "riesce, infatti, difficile comprendere come mai i diritti soggettivi, attribuiti alla giurisdizione esclusiva, non risultino degradati dai provvedimenti amministrativi che li concernono. Una coerente applicazione del principio della degradazione dovrebbe o giustificare questa eccezione oppure negare che di eccezione si tratti ed affermare che, anche in tale ipotesi, il provvedimento amministrativo degrada i diritti soggettivi". Lo stesso Caianiello, però, oscilla fra due concezioni completamente opposte, da una parte affermando che "il giudice amministrativo dovrà accertare o meno l’esistenza del diritto indipendentemente dalle determinazioni amministrative (non autoritative) che lo abbiano in precedenza definito", e che le questioni che dovessero sorgere dovranno sempre essere risolte nel senso di sacrificare il principio processuale alla tutela sostanziale del diritto soggettivo; dall’altra, però, precisando che il giudice amministrativo dovrà compiere "una operazione di disapplicazione analoga a quella che compirebbe il giudice ordinario di fronte a quell’atto, se non esistesse la giurisdizione esclusiva".

[193] V. infatti, ad es., Cass. civ., sez. un., 25 ottobre 1978 n. 4827, in Giust. civ. 1979, I, 272. Contra, fra le altre, Id., sez. un., 18 febbraio 1997 n. 1483, in Giur. it., 1998, 574; Id., sez. I, 3 novembre 1998 n. 10967, in Giust. amm. Sic., 1998, 676. Per un esame della giurisprudenza v. Giaccardi, L’espropriazione per pubblica utilità, in Il diritto amministrativo nella giurisprudenza, a cura di Falcone e Pozzi, II, Torino, 1998, 294.

[194] V. Domenichelli, op. ult. cit., 181.

[195] Cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 18 maggio 1972 n.337, in Foro it., 1972, III, 425.

[196] Cfr. Caianiello, op. cit., 202.

[197] Così Tar Puglia, sez. II Bari, 19 settembre 1997 n. 629, in questa rivista, 1998, 1583. Sulla stessa scia Tar Lombardia, sez. Milano, 18 febbraio 1998 n. 373, in Tar, 1998, I, 1311, secondo cui "il richiamo ai principi sulla gerarchia delle fonti ed alle preleggi è di per sé idoneo a supportare giuridicamente il riconoscimento, in capo al giudice amministrativo, del potere di disapplicare atti normativi illegittimi, perché confliggenti con norma sovraordinate, e ciò addirittura a prescindere da eventuali posizioni di diritto soggettivo connesse alla giurisdizione esclusiva".

[198] Cfr. Tar Lazio, sez. I, 1° marzo 1978 n. 219, in Tar, 1978, I, 1281, che ritiene ammissibile, in presenza di inimpugnabilità, "il ricorso proposto, entro il termine di prescrizione, contro il diniego di liquidazione di un’indennità nella misura pretesa dal ricorrente e tendente – previa disapplicazione della normativa regolamentare dell’ente pubblico intimato – alla declaratoria dell’obbligo e della condanna dell’ente stesso a corrispondere quanto richiesto sulla base della legge, con la quale detta normativa regolamentare si assume essere in contrasto".

[199] Ecco perché si è affermato che "…il giudice amministrativo ha il potere, ai sensi dell’art.5…, di disapplicare atti paritetici, dal momento che essi, ove incidano su diritti soggettivi, degradano ad elemento (non necessario) di valutazione della situazione giuridica controversa, la quale costituisce l’oggetto diretto ed esclusivo del giudizio; pertanto, la circostanza che l’atto non sia stato impugnato è del tutto irrilevante, ai fini processuali, in quanto non preclude al giudice nè di ritenere ammissibile il ricorso, nè di ritenere fondata la pretesa": Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 4 aprile 1979 n.47, in Cons. St., 1979, I, 618. Id., 27 febbraio 1992 n. 41, in Giur. amm. sic., 1992, 114; Tar Friuli Venezia Giulia, 16 luglio 1990 n.266, in Giust. Pen., 1991, 464. Così si è affermato che nel caso in cui da un giudicato derivi alla p.a. un obbligo vero e proprio di "esecuzione", senza che residuino spazi di discrezionalità, a tale obbligo di esecuzione corrisponderà un diritto soggettivo dell’interessato, dovendosi ritenere che "il giudice amministrativo possa – e debba – disapplicare i provvedimenti adottati in violazione dell’obbligo di esecuzione discendente dal giudicato": Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 27 gennaio 1989 n.7, in Cons. St., 1989, I, 72. V. anche Tar Calabria, sez. Catanzaro, 12 novembre 1981 n.285, cit., ivi. Interessante notare che in giurisprudenza si sia affermato che anche la Corte dei Conti, come giudice delle pensioni, non è vincolato "…all’osservanza degli atti amministrativi ritenuti illegittimi…che, se non può direttamente annullare, può disapplicare a norma degli artt.4 e 5…": Corte dei Conti, sez. III, pens. civ., 1° dicembre 1978 n.41744, in Riv. Corte dei Conti, 1979, 400. V. anche Id., Sez. Giurisd. Sicilia, 22 ottobre 1990 n. 285, in Riv. giur. scuola, 1991, 899; Id., Sez. Giurisd. Toscana, 22 dicembre 1995 n. 433, in Riv. Corte Conti, 1995, 239. Contra Id., sez. III, 28 settembre 1990 n. 64056, in Riv. giur. scuola, 1991, 1109; Id., sez. giurisd. Lazio, 8 febbraio 1997 n. 32, in Riv. Corte Conti, 1997, 2, 165; Corte Cost., 14 luglio 1986 n. 186, in Cons. St., 1986, II, 936. Anche secondo Garri, I giudizi innanzi alla Corte dei Conti, II, Milano, 1997, 84, "…le controversie di cui trattasi vanno decise principaliter dal giudice amministrativo in un autonomo giudizio di cui costituiscono l’oggetto esclusivo…". V. poi le pronunce secondo le quali "nei giudizi di responsabilità amministrativa compete alla Corte dei Conti il potere di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi": Corte Conti, sez. Giurisd. Sicilia, 27 aprile 1979 n. 1212, in questa rivista, 1980, I, 842; Cons. St., sez. VI, 20 ottobre 1978 n.1053, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1979, 310. V. anche Cannada-Bartoli, Discrezionalità e poteri del giudice del contenzioso contabile (nota a Corte Conti, sez. I, 20 maggio 1965 n. 25), in questa rivista, 1965, 97: "la deliberazione con cui la Sezione di controllo ha ammesso al visto ed alla registrazione un decreto ministeriale non rende inammissibile l’azione di responsabilità per danni causati all’erario mediante tale decreto". Cfr. anche Corte Conti, sez. un., 13 gennaio 1989 n. 596, in Informazione previd., 1989, 987; Id., sez. Giurisdiz. Puglia, 17 dicembre 1997 n. 66, in Riv. Corte Conti, 1998, 1, 150.

[200] Esulando dai limiti della presente trattazione, si trascura di considerare l’aspetto concernente il dubbio se il legislatore si sia limitato o meno ad una pura operazione di attribuzione della competenza, senza ritenere implicitamente risarcibili anche gli interessi legittimi.