Italia Oggi, 20 marzo 01

La gestione delle entrate non va lasciata ai Comuni

DI LUCA MALAGÙ

Bisognerebbe istituire anche in materia tributaria il giorno della memoria, per non scordare il passato: la riforma tributaria degli anni 70, e quel che c'era prima.

Quando lo speaker del telegiornale annunciò l’entrata in vigore dell'Irpef enfatizzò le modifiche al sistema tributario dicendo che finalmente era stato abrogato il concordato.

Quasi una vittoria in una guerra di liberazione.

Finiva un malcostume della bustarella che Einaudi aveva esecrato come l'istituto contrario per antonomasia alla corretta prassi amministrativa.

Recentemente il concordato è stato reintrodotto e ridenominato adesione considerandolo rimedio alla crisi della giustizia tributaria.

Una panacea della quale non è il caso di parlare alla luce dei nuovi studi di settore...

Quel che, colpisce maggiormente e ricorda tempi lontani è il ripristino della finanza locale.

La riforma Preti aveva unificato il trattamento impositivo sul territorio nazionale, per evitare le distorsioni che l’imposta di famiglia aveva provocato fra comuni vicini e fra concittadini.

Si era creata una sorta di libera concorrenza nell'applicazione dell'imposta, lasciando alla discrezionalità dei consigli comunali la possibilità di creare quelle disparità di trattamento che avevano indotto il legislatore all'abrogazione dell'imposta di famiglia, di molti tributi locali, delle commissioni tributarie comunali e delle Gpa.,

Attualmente la problematica ricollegabile all'Ici, quasi quotidianamente evidenziata dalle pagine di ItaliaOggi, ripropone analoghe disposizioni correlate alla conclamata confiscatorietà del tributo patrimoniale (divenuto di fatto personale).

Il nodo sta nel come intendere il federalismo fiscale.

Se lo si vuole come attribuzione agli enti locali di autonomi poteri impositivi e decisori sull'entità dei tributi si rischia di violare l'art. 3 Cost. (principio di uguaglianza) e l'art. 23 (principio di legalità), per il quale ogni prestazione patrimoniale va stabilita in base a una legge emanata dal parlamento.

Esiste, è vero, nella nostra Costituzione la possibilità per il legislatore di delegare all'esecutivo la regolamentazione applicativa dei tributi.

Ma tale facoltà non può consentire l'attribuzione di discrezionalità nella fissazione dell'aliquota, né della tipologia delle esenzioni.

Per l'Ici invece si prevede che i comuni possano aumentare l'aliquota entro un minimo e un massimo (il legislatore è dovuto intervenire per limitare l'applicazione di quella minima, solo se i bilanci comunali risultano attivi).

Inoltre la disciplina delle esenzioni, in particolari situazioni di disagio sociale, consente al comune di determinare liberamente le varie fattispecie di handicap.

Gli interessi di mora ammontano al 7% semestrale, e inoltre le modifiche catastali operano retroattivamente con conseguente variabilità del parametro del tributo da zona a zona.

Infine l'accertamento e la riscossione dell'Ici creano disagi ben noti.

Molti comuni non sono attrezzati per tali compiti e hanno assunto lavoratori precari, o dato in appalto la redazione delle operazioni accertative, talvolta a società di controllo, effettuando privatizzazioni nel delicato settore fiscale.

Le cartelle pazze, le duplicazioni di richieste di pagamento per lo stesso immobile a diversi soggetti, le iscrizioni a ruolo reiterate di importi già versati (e chi più ne ha più ne metta) non sono fenomeno isolato.

A ciò si aggiunge la recente attribuzione ai comuni della gestione del catasto, con nuovi rischi di disparità di trattamento sul territorio.

Per di più detta imposta locale non diviene deducibile dal reddito imponibile ai fini Irpef, creando doppia imposizione.

Un corretto federalismo non implica necessariamente l’istituzione di tributi ad accertamento locale. L'equità impositiva non può prescindere dall'uniformità di trattamento fra cittadini di uno stesso stato.

Il decentramento fiscale va rapportato all'entità del carico e alla sua equa ridistribuzione sul territorio.

Ove si pagano maggiori imposte sorge il diritto a ottenere migliori servizi pubblici. Tuttavia non può evitarsi l’istituzione di un fondo solidaristico tra zone ricche e territori più disagiati, per obbedire a un correttivo delle distorsioni derivanti da connatura storiche del nostro paese.

Ricordiamo che dal 1973 agli anni 90 il gettito tributario è confluito quasi integralmente nelle casse erariali.

Soltanto con l'avvento delle riforme di fine secolo si è ritornati alla reviviscenza delle autonomie locali.

Con l'Irap si è istituita anche la finanza regionale.

Quest'ultima imposta, pur se criticabile nel merito, rappresenta, tuttavia, minori pericoli di particolarismi, e disparità di trattamento rispetto all'Ici. Infatti i tributi di carattere regionale incidono su un territorio più vasto e vengono accertati da organismi erariali.

Anche le sovraimposte e le addizionali locali inoltre non creano disparità. di trattamento. Tuttavia pure in tale contesto si verificano contrasti, quali quelli circa l'esecutività delle delibere sulle addizionali comunali per l'Irpef (pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e difficoltà interpretative dell'art. 28, legge 342/2000).

In questo ambito emerge l’indispensabile necessità d'attribuire a uffici statali l'accentramento e la riscossione dei tributi, alla stessa stregua dell'amministrazione della giustizia e della difesa, come settori essenziali della vita pubblica non decentratili.

I cardini di un sistema di corretta gestione delle entrate tributarie non possono essere lasciati in balia dei comuni, senza sconvolgere il concetto di unità dell'imposizione, e senza vanificare il già troppo svalutato principio della capacità contributiva dell'art 53 Cost.