IL VALORE DELLO STATUTO COMUNALE QUALE FONTE DI REGOLAZIONE DELL’ASSETTO DELLE COMPETENZE NEL RISPETTO DEL PRINCIPIO DI DISTINZIONE TRA ATTIVITA’ DI GESTIONE E ATTIVITA’ DI INDIRIZZO POLITICO E DI CONTROLLO

 

Il presente lavoro, analizzando le diverse interpretazioni circa il ruolo che lo statuto comunale può assumere nella gerarchia delle fonti, affronta tale delicato tema in relazione al margine di estensione della potestà statutaria di disciplina dell’assetto delle competenze degli organi operanti in seno alle autonomie locali.

Se lo statuto – nell’ambito dei principi fissati dal testo unico – ha il solo compito di specificare le attribuzioni degli organi (art. 6, comma 2) e il D.L.vo n. 267/2000 dispone l’inderogabile principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti ( art. 107, comma 1), il margine di estensione della potestà statutaria, sia che si consideri tale atto fonte secondaria, ancorché atipica, al pari dei regolamenti, sia che si aderisca all’opzione teorica per cui esso rappresenta un atto normativo subprimario con forza derogatoria di leggi non qualificate o qualificabili fonti di principi inderogabili, sembra doversi limitare ad una mera ricognizione di quanto, in relazione alla tipologia di attività esercitata, è di competenza dell’apparato gestionale o, viceversa, degli organi di indirizzo politico e di controllo.

Tuttavia, tale ipotesi ricostruttiva potrebbe assumere un valore "assoluto" ove la natura di atto di gestione fosse individuabile "in rerum natura", mentre, è noto, allo stato attuale, vige ancora incertezza circa la ricostruzione giuridica di determinati atti.

Ne è un esempio, fra tanti, la "querelle" riguardante la natura dall’atto di costituzione in giudizio dell’Ente locale e la sua conseguente competenza all’adozione.

In virtù di tale premessa, si prospetta una ulteriore opzione ermeneutica che, nel rispetto del ruolo che lo statuto deve assumere nella gerarchia delle fonti, evidenzia dello stesso, oltre che un compito di "specificazione" delle attribuzioni degli organi, altresì, una fondamentale e preliminare funzione di organizzazione dell’ente nella quale, poi, si sviluppa il rispetto dei principi generali dell’ordinamento.

In tal modo la competenza all’adozione di determinati e discussi atti potrà ricavarsi dai principi di organizzazione dell’ente, evitando che la stessa sia soggetta all’alea dell’interpretazione che, nei casi di specie, è offerta dagli operatori.

Lo statuto recepirà, proprio in detta fase organizzativa, il rispetto dei principi o delle disposizioni di legge inderogabili, non contrastando, così, con fonti gerarchicamente superiori, garantendo, allo stesso tempo, certezza ad ipotesi altrimenti prive di disciplina concreta.

E, nel presupposto che la distinzione fra attività di gestione e attività di indirizzo politico e di controllo non è un "blocco monolitico" che vive senza essere mediato dalle concrete realtà di cui sono rappresentanti gli enti locali, lo statuto conquisterà il giusto ruolo che gli compete in qualità di atto fondamentale per le amministrazioni locali.

 

 

 

Sommario: 1. Premessa – 2. Rapporti tra il limite normativo della fonte statutaria e la specificazione delle competenze degli organi – 3. L’organizzazione dell’Ente locale quale sede per dirimere il controverso tema della distinzione tra funzioni politiche e attività gestionale nel rispetto di una corretta collocazione dello statuto nella gerarchia delle fonti – 4. Riflessioni circa la competenza all’adozione dell’atto di costituzione in giudizio dell’Ente – 5. Riflessioni conclusive.

1. - Premessa.

Le numerose incertezze che ancora avvolgono il margine di estensione della potestà statutaria, soprattutto per quanto riguarda il delicato tema della corretta attribuzione delle competenze degli organi, nel rispetto del principio della separazione o distinzione delle funzioni di indirizzo politico e di controllo da quelle propriamente gestionali, impongono alcune riflessioni su tale tema ampiamente dibattuto, ma ancora fonte di incertezza.

Discutere dell’assetto delle competenze degli organi operanti in seno alle autonomie locali significa necessariamente affrontare le problematiche relative alla corretta interpretazione e al significato che discende dalla formulazione degli artt. 1, comma 3, 6, comma 2, e 107 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali recepito con D.L.vo 18 agosto 2000, n. 267.

In virtù della inderogabilità di alcuni principi enunciata espressamente dalla legislazione in materia di ordinamento degli enti locali, che costituisce limite all’autonomia normativa degli enti – tra i quali è compreso il principio della separazione/distinzione tra organi di governo e dirigenti/responsabili dei servizi di cui all’art. 107 del testo unico – lo statuto, si afferma, ha una potestà meramente ricognitoria delle funzioni spettanti ai soggetti che a diverso titolo, politico o gestionale, determinano il funzionamento di un Ente.

Se, infatti, lo statuto – nell’ambito dei principi fissati dal testo unico – ha il solo compito di specificare le attribuzioni degli organi (art. 6, comma 2) e il D.L.vo n. 267/2000 stabilisce che gli statuti e i regolamenti si uniformano ai principi per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti (art. 107, comma 1), il margine di estensione della potestà statutaria è limitato ad una mera ricognizione di quanto, in relazione alla tipologia di attività esercitata, è di competenza dell’apparato gestionale o, viceversa, degli organi di indirizzo politico e di controllo.

In conseguenza, poi, dell’ulteriore assunto che espressamente si evince dall’art. 1 del D.L.vo n. 267/2000, per cui accanto a norme che enunciano principi inderogabili esistono anche "disposizioni" e che in seno alle stesse bisogna distinguere, con l’ausilio dell’interpretazione, tra disposizioni con carattere precettivo e, dunque, vincolanti e norme con carattere meramente dispositivo e, pertanto, derogabili, ne discende che lo statuto non può che ritenersi norma secondaria, al pari dei regolamenti, e che il rapporto tra legge e statuto non può essere definito di competenza (1).

2. - Rapporti tra il limite normativo della fonte statutaria e la specificazione delle competenze degli organi.

Analizzando, dunque, il tema alla luce delle esposte tesi che riconoscono o negano una maggiore autonomia normativa statutaria, si pone il citato problema del rapporto tra il limite normativo dello statuto e la specificazione che attraverso tale fonte giuridica si realizza circa le attribuzioni delle competenze degli organi.

Chi opera nelle autonomie locali è perfettamente a conoscenza dell’incertezza che ancora investe il corretto procedimento di realizzazione di un assetto delle competenze rispettoso del citato inderogabile principio della separazione o distinzione tra attività gestionale e attività di indirizzo politico e di controllo.

Orbene, l’art. 6, comma 2, del D.L.vo n. 267/2000 dispone la potestà statutaria di specificazione delle attribuzioni degli organi nell’ambito dei principi fissati dal testo unico.

Tale norma è stata analizzata, in particolare, per i suoi riflessi circa la possibilità di delegare le funzioni modificando, così, l’originario assetto delle competenze.

Anche in tale sede l’accettazione o no di una tesi favorevole a tale possibilità di delega delle funzioni discende dall’opzione teorica a cui si aderisce in ordine al valore dello statuto nella gerarchia delle fonti.

In proposito si afferma che con il termine "specificare" il legislatore abbia attribuito allo statuto non la funzione di definire l’assetto delle competenze, bensì, nell’ambito di un assetto di competenze già definito ex lege, il più modesto ruolo di determinare le modalità attraverso le quali queste competenze si esercitano e le funzioni nelle quali le stesse si esplicano.

Ne discende una ultroneità della fonte statutaria ove essa fosse indirizzata alla modifica o all’assegnazione di competenze attraverso l’istituto della delega delle funzioni (2).

Se, dunque, si esclude tale forza normativa dello statuto, a maggior ragione per gli studiosi che aderiscono a tale ricostruzione ermeneutica, è assolutamente inaccettabile e, dunque, da scartare l’ipotesi di uno statuto con funzione di individuazione di competenze per cui, allo stato attuale, vige incertezza circa la loro titolarità.

Si è affermato, infatti, che la sede per dissipare dubbi circa la titolarità di una competenza non è certamente quella statutaria, in quanto la natura di una funzione non può decidersi attraverso l’espressione di una volontà politica, ma essa è da ricavarsi dalla funzione che si esprime attraverso l’estrinsecazione di un’attività.

Pur nell’innegabile valore di un tale assunto, quest’ultimo merita, tuttavia, una precisazione.

Si sostiene che in presenza di lacune legislative o di norme ambigue lo statuto non può assumere un valore derogatorio, ma al più di mera ricognizione (3).

È naturale che in presenza di un vuoto normativo o di un’ambiguità legislativa la mera ricognizione della competenza di una funzione va effettuata avendo ben presente il contesto normativo essenziale e di riferimento della materia.

Pertanto, se dal combinato disposto degli artt. 1, comma 3, 6, comma 2, e 107 del D.L.vo n. 267/2000 si evince l’inderogabile principio della separazione delle competenze e se, come detto, una funzione la si ricava dalla natura dell’attività che attrae, poi, su di sé la competenza al suo esercizio, lo statuto altro non attua che una ricognizione di un dato già implicito nel sistema.

Ma ciò presuppone certezza interpretativa in ordine alla natura di un’attività e alla conseguente attribuzione di una certa funzione ad un determinato organo!

Il problema, invece, riguarda proprio la competenza all’esercizio di atti o attività la cui riferibilità è dubbia o perché coesistono nell’ambito di una stessa attività profili tecnico-gestionali e politici difficilmente separabili o perché le tesi che propendono per l’una o l’altra competenza sono entrambe supportate da argomentazioni valide e sostenibili.

Gli stessi autori che attribuiscono allo statuto una funzione meramente ricognitoria di dati impliciti nel sistema non possono poi fare a meno di prospettare, almeno per le ipotesi più controverse, diverse soluzioni interpretative in ordine all’assegnazione di determinate competenze (4).

Volutamente si è parlato di soluzioni interpretative, in quanto forse per tali controverse ipotesi l’ermeneutica può essere da ausilio alla risoluzione di tale delicato problema che altrimenti con difficoltà troverebbe risposta.

Infatti delle due l’una: o lo statuto non può definire nel senso predetto le competenze in quanto lo stesso non può assolutamente innovare alcunché – né prevedendo deleghe di funzioni né tanto meno, ruolo ancora più incisivo, specificando a chi devolvere ipotesi controverse di competenza – e allora le soluzioni di singole discusse ipotesi di attribuzione della competenza non avranno alcuna disciplina se non quella individuata nelle singole ipotesi dall’operatore-interprete (5); oppure lo statuto potrà accogliere la definizione di alcune ipotesi dubbie ma, considerata la difficoltà per gli enti locali di rispondere alla stessa soluzione interpretativa in modo univoco, tale atto normativo, pur nel rispetto di un’attività di ricognizione delle funzioni e delle competenze insite nel sistema – che, come detto potrà condurre a soluzioni differenti – paradossalmente acquisirà una forza normativa atipica di complessa ricostruzione giuridica.

Infatti, questa forza normativa non potrà indurre a ritenere lo statuto fonte subprimaria con forza derogatoria di norme non di principio, in quanto la norma che definisce l’assetto delle competenze è una norma ritenuta dalla maggioranza degli interpreti di principio inderogabile.

Né lo statuto può essere definito norma secondaria, ancorché atipica, in quanto la sua subordinazione alla legge renderebbe automaticamente illegittima la sua ingerenza nel disciplinare le competenze degli organi, almeno secondo l’accezione predetta per cui detta funzione è riservata esclusivamente alla legge.

Né può ipotizzarsi un rapporto di competenza tra legge e statuto perché tra le due fonti opererebbe il principio gerarchico e il dominio della legge emergerebbe in virtù del principio della inderogabilità delle competenze di cui all’art. 107 del D.L.vo n. 267/2000.

Resterebbe solo da attendere l’orientamento giurisprudenziale, tra l’altro anch’esso non sempre univoco, e nelle more condurre l’azione amministrativa con criteri incerti nel rischio di annullamenti o, ipotesi ancora più grave, di dichiarazioni di nullità degli atti (6).

3. - L’organizzazione dell’Ente locale quale sede per dirimere il controverso tema della distinzione tra funzioni politiche e attività gestionale nel rispetto di una corretta collocazione dello statuto nelle gerarchia delle fonti.

Una soluzione prospettabile, per superare tale circolo vizioso, discendente da un’interpretazione dell’art. 6, comma 2, del D.L.vo n. 267/2000 e rispettosa della natura giuridica dell’atto statutario e della

sua collocazione nel sistema delle fonti nell’accezione di atto normativo seconda-

rio, ancorché atipico, potrebbe essere la seguente.

In tema di attribuzione agli organi delle competenze la valenza dello statuto, garanzia della validità dell’atto presupponente, risiede nella circostanza che tale fondamentale complesso normativo, per i rilievi sopra indicati, non deve assumere né il valore di atto derogatorio della legge, né tanto meno di atto concorrente con la legge stessa, né, a maggior ragione, di atto che intende assorbire nel suo spazio le competenze riservate alla legge (7).

Per evitare che la fonte statutaria nella sua redazione possa incorrere nell’assunzione di un ruolo di fonte normativa che non gli appartiene, una soluzione, allora, potrebbe essere ancorare il discorso relativo alla distribuzione delle competenze non al termine "specificare" le attribuzioni degli organi, bensì all’espressione "stabilire" le norme fondamentali di organizzazione dell’Ente, all’interno del quale assetto vi è una successiva funzione di specificazione delle attribuzioni degli organi. Funzione, tra l’altro, quella di "stabilire" le norme fondamentali di organizzazione dell’Ente, richiamata dallo stesso art. 6, comma 2, ma in un momento antecedente, in quanto è la stessa logica dei sistemi giuridici che impone che ad una preliminare organizzazione dell’Ente segua, poi, una specificazione delle funzioni degli organi che in seno ad esso operano.

Lo statuto, dunque, stabilisce le norme fondamentali dell’organizzazione di un’autonomia locale in quanto ogni Amministrazione, per le sue dimensioni e le sue peculiarità, richiede una propria specifica struttura, preliminare agli ulteriori sviluppi organizzativi di dettaglio.

In questa fase di organizzazione dell’Ente si sviluppa, poi, il rispetto dei principi generali dell’ordinamento degli enti locali e, in particolare, di quello di separazione o distinzione delle competenze.

Infatti, l’assetto delle competenze non è in rerum natura, in quanto la distinzione delle funzioni è variabile proprio in relazione all’organizzazione che l’Ente ha ritenuto confacente alle sue dimensioni e ai suoi criteri di funzionamento.

Orbene, se la norma di organizzazione cristallizzata nello statuto dispone una pianificazione di criteri in forza dei quali devono essere orientate in modo vincolante le scelte, ad esempio, per le nomine di legali, notai, professionisti con compiti di progettazione per incarichi sotto soglia comunitaria, la competenza – che potrà essere, poi, successivamente specificata sempre in sede statutaria – all’adozione degli atti di scelta sarà riferibile al responsabile del servizio o al dirigente.

Ciò, però, non perché l’atto di scelta è un atto in rerum natura gestionale, né tanto meno perché la fiduciarietà della scelta viene assorbita nella discrezionalità amministrativa del dirigente, ma perché i criteri organizzativi, in forza dei quali si esprime anche il modus per intendere quando un determinato professionista è degno di fiducia, sono già stati espressi.

Ma se, al contrario, si ritiene che – salvo precisi obblighi legislativi di adozione di procedimenti vincolati – la scelta deve effettuarsi sulla base di rapporti fiduciari da individuare nel caso di specie e in relazione alla specificità del singolo momento, la discrezionalità politico-amministrativa prevarrà sulla discrezionalità tecnico-amministrativa e la competenza all’adozione dell’atto potrà essere quella residuale della Giunta o, secondo altre opinioni, del Sindaco.

Del resto anche lo stesso legislatore individua nello statuto la fonte di specificazione della competenza all’esercizio della rappresentanza legale dell’Ente, anche in giudizio, ancorché vi siano opinioni che ritengono che la scelta organizzativa statutaria sarebbe imposta verso un’attribuzione della competenza alla dirigenza (8).

Tale ultimo inciso, per la sua particolare rilevanza e per l’attinenza alla tematica affrontata, merita uno specifico approfondimento.

4. - Riflessioni circa la competenza all’adozione dell’atto di costituzione in giudizio dell’Ente.

Alcuni autori (9) ritengono, infatti, che la valutazione in ordine alla resistenza o no alla lite rientra nelle competenze tecnico-gestionali dei dirigenti per i particolari criteri valutativi che si richiedono all’operatore al fine di decidere una eventuale costituzione in giudizio.

In presenza, dunque, di un conflitto, una valutazione preliminare che potrebbe condurre, in alternativa ad una lite giudiziaria, ad un annullamento d’ufficio o una revoca dell’atto a monte, così come un giudizio tecnico circa la correttezza o la legittimità degli atti adottati dall’Ente, imporrebbe la riconduzione della scelta della resistenza o no in giudizio nell’alveo delle funzioni gestionali.

Anche tale punto merita, tuttavia, una precisazione.

La scelta, ad esempio, riguardante l’adozione di un eventuale atto di ritiro non può automaticamente ricondursi alla sfera ge-stionale.

In primo luogo, perché per l’adozione di un atto di autotutela vige il consolidato principio del contrarius actus dal quale discende che – oltre alla stessa forma e alle stesse modalità procedimentali previste per l’atto da ritirare – l’organo legittimato all’atto di ritiro sia lo stesso organo che ha in precedenza adottato l’atto oggetto di contestazione – salvo ipotesi di ius superveniens che abbia modificato l’originaria competenza – o una autorità gerarchicamente sovrordinata, ad eccezione delle ipotesi di competenza esclusiva della stessa autorità o, ancora, un organo distinto per ambito di operatività, ma a cui la legge riconosce tale potere di intervento.

Infatti, è da ricordare, in quest’ultimo caso, che il D.L.vo n. 80/1998, pur avendo escluso il potere ministeriale di revocare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dirigenziale, ha fatto salvo il potere di annullamento ministeriale degli atti dei dirigenti per motivi di legittimità.

Tale disposizione, confluita nell’art. 14, comma 3, del D.L.vo n. 29/1993, è, tra l’altro, estensibile agli enti locali, così come si evince dal combinato disposto di cui agli artt. 88 e 111 del T.U.E.L., in forza di un suo recepimento in sede statutaria e regolamentare e in virtù dell’equiparazione tra Sindaco e Ministro (10).

Pertanto e nel presupposto che non vi è stata un’automatica abrogazione di tutte le funzioni deliberanti in capo all’organo politico e di governo, se l’atto contestato è, ad esempio, di competenza consiliare o della Giunta e detta competenza è ancora a loro attribuita, tali organi saranno titolari della potestà decisoria in ordine all’emanazione dell’atto di ritiro o alla resistenza in giudizio, così come potrebbe essere il Sindaco titolare del potere di annullamento degli atti illegittimi dei dirigenti per i motivi su esposti.

Di poi l’iter logico che può condurre all’annullamento, alla revoca di un atto o ad una sua conferma con conseguente decisione a resistere in giudizio, oltre che valutazioni tecnico-giuridiche in ordine alla correttezza o alla legittimità dell’atto adottato, comporta, altresì, giudizi che non sempre possono essere attratti, quasi come ordine imposto dal sistema, nella sfera gestionale.

Le valutazioni che possono condurre all’annullamento di un atto, atto di ampia discrezionalità, o ad una sua revoca – atto contraddistinto per naturale funzione da una nuova ponderazione del pubblico interesse, in base a criteri di opportunità – coinvolgono anche aspetti che, in determinate occasioni, è più prudente demandare alla sfera politica decisionale, in quanto pur a fronte di una illegittimità o di una inopportunità di un atto, la decisione di ritirarlo o di confermarne la sua valenza, coinvolge interessi che non si limitano esclusivamente ad una verifica della sua conformità a criteri giuridici.

Numerose sono le ipotesi che in concreto possono verificarsi nella pratica e, considerato che dell’esito di una eventuale costituzione in giudizio ne rispondono, quanto meno in sede politica, gli amministratori, al di là delle conseguenze risarcitorie che da una lite possono discendere, l’opportunità induce ad una maggiore cautela circa l’opzione statutaria di attribuzione della competenza ad assumere tale delicata decisione.

Ne consegue che anche per tale controverso tema lo statuto è la sede più idonea per la scelta di una soluzione organizzativa che sia il risultato di una attenta valutazione recepita, poi, in atti fondamentali dell’Ente (11).

5. - Riflessioni conclusive.

Da quanto sinora esposto discende che, almeno per le ipotesi dubbie, ove lo statuto individui una determinata competenza esso non acquisirà forza derogatoria della legge in quanto l’incertezza della fattispecie concreta ha fonte in una volontà legislativa che sembra affidare all’autonomia normativa dell’Ente la sua completa definizione in un momento in cui si esplica una potestà organizzativa dell’autonomia locale.

Se la legge, dettando solo un principio, non ha disciplinato in modo chiaro e univoco l’assetto delle competenze, richiedendo, previa individuazione delle norme fondamentali dell’organizzazione dell’Ente, solo una specificazione delle stesse, queste ultime non possono essere ancorate ad un generico precetto e, dunque, vivere dell’interpretazione che l’operatore darà ad essa nel caso concreto.

La competenza all’adozione di determinati e discussi atti si ricaverà dai principi organizzativi dell’Ente e sarà, poi, eventualmente specificata nelle sue concrete modalità operative.

Pertanto, se il valore discendente da un principio non è applicabile costantemente ad una fattispecie o se due diverse manifestazioni interpretative dello stesso principio hanno eguale valenza, in quanto entrambe tendono a rispettare lo stesso, pur nella diversità degli assunti dai quali esse eventualmente si sviluppano, ambedue hanno eguale dignità e dunque sono meritevoli di tutela.

In tale caso, pertanto, non si deroga alcunché perché è assente per definizione una forza derogatoria che per essere tale necessita di un quid da derogare che nel caso di specie manca.

La forza normativa dello statuto non potrà, poi, neanche definirsi concorrente con la forza normativa di una legge.

Una disciplina concorrente di una materia è presente allorquando sulla stessa materia atti normativi differenti hanno facoltà di esprimere una regola, mentre in tale ipotesi è assente proprio una regola specifica e presente solo una norma di principio che va, comunque, rispettata con criteri organizzativi conformi ad essa.

Allo stesso modo è da rifiutare la tesi per cui in tal modo si configurerebbe un rapporto tra la legge e lo statuto in termini di competenza: quest’ultima è propria della legge e la fonte statutaria non fa altro che recepirla nei suoi criteri organizzativi.

Da tale ricostruzione ne discende uno statuto che, non solo non deroga alcunché, bensì si limita a recepire la ratio legis attraverso una opzione ermeneutica tesa a privilegiare una ricognizione interpretativa preordinata al fine di regolare l’azione dell’Ente in un assetto organizzativo indirizzato al rispetto della distribuzione delle competenze che sono in quella sede, poi, specificate.

La distinzione tra attività gestionale e attività di indirizzo politico e di controllo nasce dalla precisa volontà di eliminare ingerenze di organi politici nella gestione amministrativa dell’Ente per evitare commistioni o sviamenti.

Tale principio è la logica risultanza del rispetto dei principi di imparzialità, di buon andamento dell’azione amministrativa, a loro volta corollari del più ampio principio di legalità.

Orbene, stabilire se determinate attribuzioni sono riferibili alla dirigenza o ad organi politici, nel silenzio o nell’ambiguità della legge, ma nell’ambito delle norme fondamentali dell’organizzazione dell’Ente che rispettano i principi a cui per legge devono uniformarsi, ha dunque il pregio di dare certezza a situazioni altrimenti prive di disciplina concreta, garantisce il buon andamento dell’azione amministrativa e, in ogni caso, evita il proliferare di azioni dirette al semplice ostruzionismo da parte di chi, per i più diversi motivi, intende ostacolare l’attività dell’Ente.

Infatti, se si concepisce questa funzione dello statuto nel senso predetto, attraverso tale fondamentale atto normativo si definisce compiutamente il sistema organizzativo e funzionale di un Ente locale che – si badi – raramente potrà essere assimilabile ad un altro per le profonde diversità che esistono nel variegato mondo delle autonomie locali.

Si eviterà di concepire il principio di distinzione tra attività gestionali e funzioni di indirizzo politico e di controllo come un "blocco monolitico" la cui ratio legislativa è diretta ad una automatica attribuzione della quasi totalità delle funzioni alla classe dirigente degli enti locali senza mediazioni con le diverse e concrete realtà organizzative che si presentano all’operatore.

Allo stesso modo non si attribuirà allo statuto alcuna forza normativa che la legge non gli riconosce, né esso si approprierà di un ambito di competenza legislativo che non gli appartiene, ma, semplicemente, gli si attribuirà il giusto ruolo che gli compete in qualità di atto fondamentale per le autonomie locali.

stefano glinianski

 

 

 

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(1) Cfr., in tal senso M. Borghesi, L. Oliveri, S. Palazzolo, V. Persegati, N. Rinaldi, C. Saffioti (a cura di), Commento al testo unico in materia di ordinamento degli enti locali, Maggioli, Rimini, 2000, pagg. 51-66. Diversamente opina chi riconosce nel testo unico la conferma di una maggiore autonomia degli enti locali nel presupposto che l’art. 1, comma 3, del D.Lvo n. 267/2000 individua nei principi espressamente definiti inderogabili i limiti per l’autonomia normativa degli enti.

Corollario a tale visione interpretativa del fenomeno in esame è il valore che acquisisce lo statuto nella gerarchia delle fonti: si conferma, infatti, la già pronunciata teoria dello statuto atto normativo subprimario con forza, dunque, di derogare a leggi non qualificate o qualificabili fonti di principi inderogabili.

(2) Infatti, in virtù della differenza che intercorre tra la specificazione delle attribuzioni di competenza statutaria, richiamata dall’art. 6, comma 2, del D.Lvo n. 267/2000 e la definizione dell’assetto delle competenze, funzione che invece la legge non attribuisce alla fonte statutaria mantenendola, viceversa, nell’ambito della sua potestà normativa, alcuni studiosi ritengono non plausibile un’interpretazione estensiva dell’articolo citato negandogli, pertanto, la possibilità di introdurre nel sistema delle autonomie l’istituto della delega delle funzioni.

Ne consegue il rifiuto per tali autori di una ricostruzione dello statuto quale fonte subprimaria con forza derogatoria ritenendo lo stesso una fonte secondaria, ancorché atipica.

Cfr. in tal senso M. Borghesi, L. Oliveri, S. Palazzolo, V. Persegati, N. Rinaldi, C. Saffioti (a cura di), op. cit., pagg. 86-87.

(3) Cfr. in tal senso E. Iorio, P. Monea, M. Mordenti (a cura di), Assetto delle competenze dopo il testo unico, Dossier in "Guida agli enti locali" del 14 aprile 2001, n. 14.

(4) Cfr. op. cit. in nota 3. Gli autori, pur nel riuscito tentativo di distinguere le competenze degli organi in base alla natura della funzione esercitata, devono ammettere che per determinati atti la competenza alla loro adozione – controversa in dottrina – discende dalla natura che, in via interpretativa, si riconosce agli stessi.

Pertanto, l’interpretazione da loro offerta circa la natura di taluni atti potrà risultare compatibile con alcune opzioni teoriche, ma divergente da altre. Ed allora lo statuto, in virtù della interpretazione che recepisce, potrebbe risultare derogatorio o conforme alla legge, a seconda dell’opzione ermeneutica a cui si accede. Tale è il motivo per cui si ritiene che sia più opportuno integrare la loro ricostruzione rivolgendo l’attenzione non al termine "specificare" di cui all’art. 6, comma 2, del D.L.vo n. 267/2000, ma all’espressione "stabilire" le norme fondamentali dell’organizzazione dell’Ente richiamato dalla stessa norma.

In tal modo la corretta soluzione interpretativa offerta da tali autori per una delimitazione tra attività politica e competenza gestionale ricavabile dall’ordinamento, per esempio in tema di affidamento degli incarichi professionali, distinguibile in relazione all’esistenza o no di un procedimento di gara a monte, non sarebbe limitata ad un concetto di ordinamento esclusivamente legislativo, come avviene, ad esempio, per gli incarichi di progettazione sopra o sotto soglia, ma da un ordinamento completato nell’espressione dei principi che detta e, in ogni caso, nel loro rispetto, da una fonte statutaria più consona al ruolo che alla stessa dovrebbe riconoscersi. Né si lascerebbe al libero arbitrio dell’interprete desumere dai principi generali quando si è in presenza di un atto di gestione oppure no.

La soluzione organizzativa ricavabile dalla norma statutaria cristallizzerebbe la natura di un atto che, senza detta norma di organizzazione, sarebbe soggetto all’alea di un accoglimento o meno dell’interpretazione offerta dello stesso.

La connotazione esclusivamente gestionale o, viceversa, anche politica di un incarico non discenderebbe, così, da un criterio di dimensione dell’Ente o dall’entità dell’incarico, bensì dai criteri organizzativi che lo statuto individua per l’adozione dell’atto di scelta e che determinano, nei casi dubbi, la competenza alla sua adozione nel rispetto del principio di distinzione tra le competenze degli organi.

(5) A meno che non si intenda, obtorto collo, devolvere automaticamente tutte le ipotesi dubbie alla dirigenza, così ampliando l’area della loro operatività. Tuttavia, sarebbe opportuno che tale ampliamento, tra l’altro perfettamente legittimo, fosse il risultato di una precisa volontà e non di un automatismo indotto dalle circostanze.

(6) La necessità di una maggiore chiarezza sul tema in esame discende anche dalla proposta di legge n. 6844 – "Norme generali sull’attività amministrativa", che espressamente dispone – art. 8 – la nullità dei provvedimenti posti in essere in violazione delle norme sulla ripartizione delle competenze tra organi di direzione politica e organi amministrativi.

Cfr. S. Glinianski, Principi generali dell’ordinamento in materia di attività amministrativa: primi commenti alla proposta di legge n. 6844-A, in "Nuova Rassegna", 2000, n. 20, pagg. 2175-2187.

(7) Tale configurazione giuridica dello statuto nella gerarchia delle fonti si rileva necessaria sia ove si attribuisca a tale atto normativo il valore di fonte subprimaria e derogatoria dei soli principi dichiarati o interpretati come non derogabili, se si aderisce all’opzione teorica per cui la disciplina delle competenze nel rispetto della distinzione tra attività di gestione e attività di indirizzo politico e di controllo è un principio inderogabile, sia, a maggior ragione, ove si consideri lo statuto comunale un atto normativo secondario, ancorché atipico, al pari dei regolamenti.

(8) Cfr. in tal senso: Commento al Testo Unico in materia di ordinamento degli enti locali, Maggioli, 2000, cit., pag. 91.

(9) Cfr. in tal senso: Commento al Testo Unico in materia di ordinamento degli enti locali, op. cit.

(10) Cfr. sul potere sindacale di annullamento degli atti illegittimi dei dirigenti: T. Romei, Il Sindaco e gli atti illegittimi dei dirigenti, in "Nuova Rassegna", 2000, n. 22, pag. 2350; Idem, Il primato della politica: il Sindaco e gli atti illegittimi dei dirigenti, ivi, 2000, n. 13, pag. 1441.

(11) A conforto della tesi per cui lo Statuto può rappresentare la sede più idonea per una scelta organizzativa che dirima il controverso tema della competenza all’adozione dell’atto di costituzione in giudizio dell’Ente, cfr. sent. T.A.R. Sardegna, Cagliari, n. 428 del 14 marzo 2001.

La sentenza richiamata, oltre a confermare la tesi già da alcuni autori prospettata, per cui la capacità processuale e la relativa rappresentanza in giudizio dell’Ente spetta, in virtù dell’art. 50 del D.Lvo 267/2000, al Sindaco, dispone che la determinazione di promuovere una lite o di resistere in giudizio non è riconducibile, tout court, agli atti di mera gestione per gli evidenti riflessi politici, oltre che tecnico giuridici, che essa discendono. Ciò comporta l’inaccettabilità della tesi che attribuisce la competenza all’adozione di tali atti ai dirigenti ove ciò non sia espressamente previsto e disciplinato in sede statutaria.

Alcuni autori, in particolare, demandano l’individuazione dell’organo competente in un momento successivo "facendo derivare l’identificazione stessa quale logica conseguenza della materia del giudizio", osservazioni queste del dott. C. Romei e della dott.ssa T.Romei (ved. a pag. ..., del presente fascicolo - NdR).

Da ciò ne discende che, ove il giudizio scaturisce da un atto di natura gestionale la competenza a promuovere o a resistere alla lite sarà dirigenziale.

Viceversa, se la lite ha la sua fonte in un atto consiliare o di giunta o sindacale, la competenza sarà dell’organo di governo, in virtù della tassatività delle competenze consiliari e del Sindaco.

In ogni caso, e ciò conforta la tesi in questa sede prospettata, lo Statuto può assumere un fondamentale ruolo di organizzazione "chiarificatrice"in materia.