ITALIA OGGI 23 gennaio 2001

Una sentenza della Cassazione in tema di scarichi di sostanze inquinanti

Inquinare acque pubbliche é reato di danneggiamento

DI SILVANA SATURNO

Rischia da sei mesi a tre anni di reclusione chi inquina i fiumi, i laghi o le acque pubbliche in genere.

È questa, infatti, la sanzione penale prevista per il reato di danneggiamento aggravato previsto dall'articolo 635, comma 2, del codice penale. Secondo la Suprema corte, a tale previsione è senz'altro riconducibile l’ipotesi di grave inquinamento idrico, e più precisamente "integra gli estremi del delitto lo scarico di sostanze inquinanti o deturpanti in acque pubbliche, comportando, anche nell'ipotesi di fatto occasionale e transitorio, il deterioramento di cosa mobile destinata a utilità pubblica>>.

La pronuncia è della Cassazione penale, sezione III, n. 11710 del 15 novembre 2000. Sentenza che sottolinea il principio in base al quale, indipendente dalle violazioni formali alla normativa tecnica di settore, chi con uno scarico crea un danno ambientale alle acque pubbliche risponde comunque dal punto di vista penale della condotta tenuta.

Quanto stabilito dai supremi giudici rappresenta "un utilissimo strumento per contrastare a livello giuridico i casi di più grave inquinamento idrico su fiumi, laghi e mari", sottolinea Maurizio Santoloci, magistrato e vicepresidente del Wwf, "compresi i depuratori comunali depenalizzati dalla legge sugli scarichi, e quindi sostanzialmente immuni da denunce, nonché i grandi scarichi aziendali da sempre difficilmente perseguibili sulla base di prelievi e analisi".

Secondo il vicepresidente del Wwf, la legge quadro sulle acque (la n. 152/1999) è infatti insufficiente a fungere da deterrente all'inquinamento.

La normativa, secondo Santoloci, non è effettivamente tesa a proibire l'inquinamento, ma prevede in verità soltanto alcune regole tecniche per regolarlo (limiti formali tecnici e soprattutto frutto di compromessi politici).

La normativa si disinteressa al contrario dei danni ambientali concretamente provocati dagli scarichi. Se questi limiti non vengono superati, lo scarico è infatti normativamente in regola e si presume "non inquinante".

Il superamento dei limiti tabellari da parte di depuratori comunali e di abitazioni private sono perseguiti con una sanzione amministrativa, mentre solo alcuni e più gravi tipi di scarico industriale sono soggetti ad una, sanzione penale.

Dunque, evidenzia Santoloci, è uno scarso sistema sanzionatorio quello previsto dal decreto 152/1999.

È per questo che risalta la recente sentenza della Cassazione, pronuncia in virtù della quale l'applicazione della sanzione penale nel caso di scarichi illeciti prescinde da limiti astrattamente stabiliti, tenendo conto piuttosto del danno ambientale concretamente prodotto.

Una presa di posizione peraltro non del tutto nuova della Suprema corte, che ha in realtà ripreso l'orientamento di gran lunga prevalente prima dell'avvento della legge Merli (n. 319/1976) e per diversi anni consolidatosi in materia.

La pronuncia, come accennato, può costituire quindi un più efficace deterrente all'inquinamento, essendo la pena prevista per il reato di danneggiamento di gran lunga più severa rispetto a quelle previste dalla legge quadro del 1999: si tratta infatti di danneggiamento aggravato, punito in base al combinato disposto degli articoli 635, comma 2, n. 3, e 625 n.7 c.p., il quale prevede fra le circostanze aggravanti "l'aver commesso il fatto su cose destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità.