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n. 8-2000

A. FEDELE MAROTTI *

Il "Lavoro pubblico"

 

 

 

1. A seguito di ripetuti assestamenti normativi, la riforma del pubblico impiego ha finalmente acquisito una sua fisionomia chiara; si è così evidenziata la parzialità del nomen iuris con cui è nota la stessa riforma, definita "privatizzazione del pubblico impiego" con una locuzione che si è rivelata quanto mai ambigua, tanto sotto il profilo lessicale che giuridico.

Il termine "privatizzazione" indica - difatti - una categoria giuridica non ben definita ed in ultima analisi ascientifica [1].

Nell’attuale sistema giuridico, infatti, l’azione amministrativa si caratterizza per lo sviluppo su di un piano di confluenza di discipline di diritto pubblico e privato, così marcata da confonderne le relative delimitazioni; qualunque costruzione dogmatica che si ponga in una prospettiva di distinzione di regime in termini: pubblico/privato, pertanto, appare destinata per forza di cose ad essere priva di idoneo supporto giuridico [2].

Ed inoltre, anche il mero riferimento descrittivo a fattispecie nelle quali si verifica una "sovrapposizione" di regimi giuridici privatistici a quelli pubblicistici è parziale: gli istituti civilistici assunti nel sistema pubblico, difatti, essendo inadeguati -nella più frequente considerazione del legislatore- al perseguimento dei fini istituzionali propri della p.a., vengono per così dire "adattati" al nuovo contesto giuridico in cui sono ri/chiamati; sino a risultare alterati nei connotati propriamente privatistici[3].

Ciò premesso, una (corretta e rigorosa) definizione di "privatizzazione" non emerge nemmeno dalla indagine storico-normativo, anche perchè commistioni di norme pubblicistiche e schemi privatistici hanno da sempre attraversato l’azione amministrativa (es. lottizzazioni, concessione di opera pubblica etc.), e nella prassi il termine "privatizzazione" è stato invocato con riferimento a fattispecie assai disomogenee tra loro[4].

Quanto rileva è il recente ingresso della c.d. "privatizzazione" (assunta nella accezione empirica di "sovrapposizione" di discipline privatistiche a quelle pubblicistiche) nelle modalità di espressione dell’azione amministrativa, anche con riferimento alla organizzazione della p.a. e la "estensione" della stessa sovrapposizione anche agli interventi di riforma dell’impiego pubblico[5].

E tanto in considerazione di una (doverosa) maggiore attenzione che il legislatore ha rivolto agli aspetti organizzatori della burocrazia, rispetto ai quali gli strumenti tradizionali del diritto pubblico sono risultati limitati ed inadeguati; e per effetto di una maggiore "consapevolezza" dell’impatto negativo che la burocrazia ha assunto rispetto alle attività economiche e sociali.

E, però, secondo schemi (a volta contradditori) di persistente "confusione" tra profili privatistici e disciplina pubblicistica[6].

Sicchè in relazione alla fase attuale la "privatizzazione" non introduce, alla fine, un nuovo regime giuridico, ma esprime un (incerto) parametro descrittivo di scelta organizzativa della p.a. che si manifesta più propriamente con un più esteso utilizzo nel campo del diritto pubblico di istituti civilistici, di tal guisa da disciplinare determinate materie con una commistione di formule civilistiche e poteri pubblicistici.

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2. Le incertezze sul "senso" dogmatico della c.d. "privatizzazione del pubblico impiego" si sommano, perché, come rilevato, anche l’istituto "pubblico impiego" non ha confini così definiti e certi da esprimere una effettiva unitarietà giuridica [7].

La giurisprudenza aveva espresso una definizione unitaria ed omnicomprensiva del pubblico impiego quale "species" del "genus" lavoro subordinato [8], caratterizzato dalla natura pubblica e dalla destinazione del dipendente a funzioni istituzionali proprie dell’Ente.

Poiché la Giurisprudenza aveva ricondotto tra le atttività istituzionali anche quelle strumentali, la funzione pubblica cui era preposta l’attività lavorativa restava (per così dire) " assorbita" dalla natura pubblica del datore [9] .

Il rapporto di specialità si consumava, pertanto, nel rilievo della natura pubblica del datore, che assurgeva al rango di criterio discriminante "a monte"; di riflesso (in questo contesto per così dire "soggettivistico") il fine istituzionale diretto o indiretto proprio dell’ente non incideva sulla prestazione lavorativa; individuava, invece, un ulteriore motivo di diversificazione (in ragione del perseguimento o meno di un fine di lucro e di parametri di produttività) degli enti in "non economici" o "economici", con assunzione del lavoro prestato alle dipendenze del primo all’impiego pubblico, ed attrazione del secondo al lavoro subordinato privato.

E questa era una "costruzione giuridica" fondata non su parametri effettivi ma in forza di una "astrazione" che non sempre trovava riscontro nel dato giuridico positivo [10].

Sicchè, la funzione che presiede all’attività di lavoro pubblico (data per acquisita come caratteristica riferibile in ogni caso all’azione dell’ente non economico, anche per attività non isituzionali, ma strumentali) si configurava come dato avulso dall’attività produttiva e, pertanto, ininfluente sulla struttura del rapporto [11].

Questa chiave di lettura (per così dire) "soggettivistica" si manifestava non solo poco scientifica, ma esprimeva una componente "autoritaria" nella concezione dello stato, tanto irrazionale ed ingiustificata, da dare origine ad assunti e prese di posizione inspiegabili e paradossali: infatti, sotto il profilo giuridico ciò comportava la traduzione di posizioni di diritto soggettivo (proprie della estrinsecazione del rapporto di lavoro subordinato) in interesse legittimo, secondo una considerazione che tradiva una concezione dell’uno e dell’altro (per altro) non condivisibile.

In nome di una non meglio definita potestà organizzativa [12], si affermava, così, un (incerto) principio di "degradazione" delle posizioni di diritto soggettivo, secondo una dinamica di "espansione" e "compressione" di indubbia suggestione fisica, ma che poco aveva a che vedere con il rapporto di lavoro subordinato [13].

Questa ricostruzione dogmatica, infatti, per così dire "occultava" il vero dato sostanziale e cioè che in materia di pubblico impiego la P.A. si riservava l’esercizio della gestione del rapporto secondo un regime di atti imperativi, ovvero il datore pubblico si esprimeva non secondo lo schema contrattuale proprio del rapporto di lavoro subordinato (ovvero di prestazione sinallgmatica), ma con poteri autoritativi [14].

E questa "essenza" autoritativa attribuita alla "natura pubblica" del datore si prestava inevitabilmente ad una errata ricostruzione delle posizioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo che attraversavano il rapporto [15].

Il discrimine tra il lavoro pubblico e quello privato era dunque costituito dalla posizione autoritaria assunta dal datore p.a., che non trovava adeguata giustificazione in sede giuslavoristica, ma rappresentava il "feticcio" di una veste autoritaria dello stato, sempre più delegittimata ed ingiustificata in regime di contrattazione collettiva della disciplina del rapporto d’impiego.

Sicchè, posto che l’equazione: "rapporto di lavoro/disciplina autoritativa" era e rimaneva giuridicamente inconciliabile, si rendeva necessario disconoscere le posizioni di diritto soggettivo (rispetto all’inquadramento e ad altri istituti giuridici che attenevano alla disciplina diretta del rapporto) del lavoratore subordinato "pubblico dipendente" al fine di "negare" il conflitto "paritetico" e negoziale nel rapporto d’impiego con la P.A[16].

E si ri/affermavano poteri propri dell’azione autoritativa della p.a., primo fra tutti l’esercizio dell’autotutela, improponibile in ragione di un rapporto paritario [17].

Sicchè la c.d. "privatizzazione", riaffermando il rapporto paritario proprio della prestazione sinallgmatica dello "scambio" a base del lavoro subordinato, determina il superamento del "feticcio" della posizione autoritaria del datore e recupera la dimensione contrattuale del rapporto.

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3. Ma non per questo sopprime automaticamente e del tutto il regime pubblicistico di governo del pubblico impiego.

Rileva, infatti, che la P.A. è sempre obbligata al rispetto delle norme di diritto pubblico, anche quando agisce "iure privatorum" [18].

Nel lavoro pubblico, inoltre, il regime pubblicistico trova ulteriori e più rilevanti motivazioni [19].

La Corte Costituzionale con sentenza n. 309/97 ha ribadito, difatti, che anche in regime di c.d. "privatizzazione", il rapporto di pubblico impiego continua ad essere retto, in un equilibrato dosaggio, da norme di diritto pubblico (per i profili organizzatori) e dalla disciplina che presiede il rapporto di lavoro privato (per l’aspetto proprio della prestazione di lavoro) [20].

Il principio sancito dalla Corte è stato percepito in modo non univoco; ad esempio è stato evidenziato [21] come la Corte non abbia stabilito in quale "misura" debba considerarsi l’esatto dosaggio, sì da legittimare la conservazione di un impianto sostanzialmente pubblicistico in forza del quale continui a prevalere la supremazia dell’aspetto organizzatorio-pubblicistico su quello negoziale-privatistico, con vanificazione degli apporti più innovativi della riforma.

Quello descritto, per altro, non è l’unico aspetto di conflitto in dottrina: v’è, infatti, contrasto nell’individuare il rapporto che sussiste tra le fonti pubblicistiche e quelle privatistiche del rapporto: sintetizzando (ed in qualche misura schematizzando) si confrontano le opinioni di chi ritiene che le due discipline rappresentino due momenti separati e comunque slegati e di quanti ritengono, invece, che le due normative nella concreta disciplina del rapporto determinino costanti implicazioni [22], sì da produrre delle "zone d’ombra" che non sono allo stato adeguatamente considerate dal legislatore [23].

Sotto tale profilo è evidente che ai fini di una corretta ricostruzione dogmatica del "lavoro pubblico" in regime di c.d. "privatizzazione", proprio seguendo quello che è il ragionamento giuridico della Corte è improponibile rilevare "l’esatto dosaggio" in astratto e su schemi teorici, (o ancor peggio con assunti aprioristici); il nuovo assetto normativo va definito, infatti, non in modo virtuale, ma con riferimento agli strumenti attraverso i quali operano le distinte fonti normative con riferimento alla concreta disciplina del rapporto di lavoro ed alle conseguenti effettive implicazioni.

Rileva, comunque, come la Corte, a fondamento del regime di specialità che asserva (anche in regime di privatizzazione) il lavoro pubblico, evochi il tradizionale criterio di distinzione tra i due genus della species "lavoro subordinato", ovvero l’interesse pubblico; ma non più con riferimento assorbente alla diversa natura del datore di lavoro, bensì in considerazione del carattere istituzionale delle funzioni espresse "dal" e "presso" l’ente pubblico.

Sicchè, se è vero che anche in regime di privatizzazione il rapporto di pubblico impiego continua (sia pure in parte) ad essere disciplinato da disposizioni pubblicistiche, è altrettanto vero che la ratio che oggi ispira l’impianto di diritto pubblico è radicalmente mutata: mentre nel preesistente ordinamento il regime pubblicistico esprimeva, infatti, un modus autoritativo del datore (e quindi come agente esterno che non interferiva sul rapporto di lavoro), nel nuovo contesto normativo l’incidenza della normativa pubblicistica rileva dalla considerazione del profilo funzionale e quindi si trova ad incidere nel e sul rapporto, permeandolo e riconfigurandolo in chiave funzionalista [24].

Ed a conferma, rileva che, nel caso di specie la "funzione" cui è chiamato ad assolvere il dipendente pubblico non solo si differenzia in termini giuridici dalla "mansione" del dipendente privato per diversa disciplina ma, in quanto espressione diretta di un fine pubblicistico, si connota come "funzione pubblica" [25].

Tant’è che permane la qualificazione di pubblico ufficiale in capo all’agente dell’ente pubblico, anche per gli enti "non economici" che operino in regime di privatizzazione del rapporto di lavoro o siano del tutto privatizzati [26].

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4. Con l’affermarsi del processo di c.d. "privatizzazione", pertanto, la funzione pubblica ha recuperato la sua valenza di momento di qualificazione del lavoro; e ciò comporta, a corollario, che anche il rispondente processo produttivo del lavoro pubblico si differenzi da quello privato in "funzione" e secondo il regime proprio dell’azione pubblica, che è ancorata alla osservanza del procedimento [27].

Premesso che: le funzioni come definite dalla normativa più recente, rappresentano più precisamente le attività che concorrono alla formazione del processo produttivo nel lavoro pubblico; che le medesime funzioni rimangono in parte assoggettate ad un regime normativo pubblicistico; che il procedimento per il lavoro pubblico è nozione giuridica e non di scienza economica; che le stesse funzioni sono strutturate nel processo produttivo per "procedimenti"; che il procedimento è disciplinato (ex art.4 D.Lgs. n.29/93) da fonti normative e solo in fase attuativa da atti di organizzazione dei dirigenti (mentre per il lavoro privato il ciclo produttivo è scandito essenzialmente dalle determinazioni datoriali); ciò premesso e posto che è proprio il procedimento che nel lavoro pubblico sorregge lo schema della produzione, non può negarsi che il procedimento assuma diretta incidenza anche in relazione agli istituti che presiedono il rapporto di lavoro [28].

In sintesi: la "funzione" nel lavoro pubblico qualifica le attività del processo produttivo non solo in relazione al profilo teleologico, ma anche in considerazione della organizzazione delle stesse attività in procedimenti. Poichè il dato funzionale determina il criterio discriminante di individuazione del regime giuridico e tale dato si esprime anche nella e sulla organizzazione delle attività, l’elemento di specialità si afferma proprio nella concreta strutturazione del rapporto; e detto aspetto relazionale, concorre, nel nuovo regime, a qualificare il "lavoro pubblico" come "speciale" nell’ambito del genus "lavoro subordinato".

Qualora le premesse che rinvengono dal quadro normativo di riferimento sono quelle descritte, dunque, l’elemento di specialità del lavoro pubblico rispetto al privato non è percepibile, né in forza di una connotazione soggettiva, il cui impianto è risultato autoritativo (oltre che ascientifico: anche l’ente pubblico può operare per fini privatistici, ovvero nel contempo il soggetto privato intervenire per l’interesse pubblico senza contrasto con la sua natura [29]), nè con il mero richiamo all’interesse pubblico, di per sé non risolutivo e non esaustivo (con il "funzionalismo" ogni attività riconosciuta è di interesse pubblico, anche quella del privato).

Sulla scorta dei descritti presupposti, pertanto, l’indagine deve ri/considerare la normativa degli aspetti organizzativistici come incidente anche sul rapporto di lavoro.

Sicchè, per cogliere gli effettivi profili dogmatici innovativi del lavoro pubblico, occorre riconsiderare un criterio strutturale che valuti nel contempo gli aspetti soggettivi e funzionali, ma soprattutto i dati relazionali, cioè quelli che attengono concretamente al rapporto di lavoro e nel nuovo regime sono, per così dire, "privatizzati".

Il lavoro pubblico, quindi, si connota nel nuovo ordinamento come una complessa relazione tra datore e prestatore che non è diretta solo alla realizzazione di una determinata produzione, ma involge i fini della attività, i soggetti che ne sono relazionati anche in via indiretta (l’utenza dei servizi), gli strumenti attraverso i quali si sviluppano queste relazioni in termini di "procedimento", secondo schemi che sono nel contempo pubblici e privati.

Ciò premesso, è evidente che la locuzione "privatizzazione del pubblico impiego" appare certamente riduttiva e parziale [30].

Posto che il dato conclusivo e sintetico non è quello della piena equipollenza nell’ambito del genus lavoro subordinato del lavoro pubblico e di quello privato, ma l’introduzione di una diversa disciplina del rapporto di lavoro pubblico con impianto paritario e la conseguente considerazione della sussitenza di un rapporto contrattuale, può condividersi l’assunto della dottrina che rileva nella riforma del lavoro pubblico non una "privatizzazione" ma la "contrattualizzazione" [31] dello stesso.

Ed in questo contesto normativo di contrattualizzazione, la disciplina e la storia del "lavoro pubblico" in termini giuridici sono ancora tutte da scrivere.

 

* Avvocato amministrativista in Bari

[1] Cfr: Schlesinger Piero: "La legge sulla privatizzazione degli enti pubblici economici" in "Riv. soc.", 1992, fasc. 1-2, pag. 126-138; Gallarati Marco: "Le procedure di privatizzazione di aziende pubbliche: modalita' e problematiche" in "Riv. dott. comm.", 1992, fasc. 1, pag. 49-71.

[2] "La difficoltà più grossa nell’affrontare il tema dell’utilizzo dei moduli privatistici nell’organizzazione della pubblica amministrazione è data da una incertezza di fondo, accentuatasi negli ultimi tempi, circa la definizione e la conoscenza dell’area dell’amministrazione pubblica in senso strutturale. Dove comincia e dove finisce il campo di questa amministrazione, che chiamiamo pubblica molto spesso in modo convenzionale e talora soltanto allusivo?" G. Berti: "Introduzione a: pubblica amministrazione e modelli privatistici" AA.VV., Il Mulino, 1993 (pg.13); in termini: Caianiello Vincenzo: "Gli enti pubblici tra norma giuridica e realta' sociale" in "Diritto e societa'", 1992, fasc. 2, pag. 187-222.

[3] Cfr: Pototschnig Umberto: "Per un nuovo rapporto tra pubblico e privato" Mulino, 1987, pag. 902-912; Umberto Loi: "Il modulo delle S.P.A. come modello privatistico imprenditoriale privilegiato per l’attuazione dei fini pubblicistici" in AA.VV.:"Pubblica amministrazione e modelli privatistici", Il Mulino, 1993, pgg.25 ss.

[4] Così pure in relazione ad altri ordinamenti giuridici europei; cfr: Durupty Michel: "Le privatizzazioni in Francia" in "Riv. trim. dir. pubbl." 1988, fasc. 1, pag. 44-85; Saraceno Marilena: "Le privatizzazioni in Francia" in "Ec. pubbl.", 1993, fasc. 7-8, pag. 365-374; Balzarini Paola "Privatizzazione delle imprese pubbliche francesi: modalita' e procedura di attuazione" in "Riv. soc." 1987, fasc. 3-4, pag. 941-948; Marchetti Piergaetano: "Le privatizzazioni in Francia" in "Riv. soc.", 1994, fasc. 1-2 pag. 264-268; Wright Vincent: "Le privatizzazioni in Gran Bretagna" in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1988, fasc. 1, pag. 86-104. Sugli aspetti di diversificazione in campo europeo: Cassese Sabino "Le privatizzazioni in Italia" in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1988, fasc. 1, pag. 32-43; Florio Massimo: "Privatizzazioni su larga scala: effetti di bilancio e impatto macroeconomico" in "Ec. pubbl.", 1990, fasc. 4-5, pag. 179-192. In estrema sintesi può assumersi che la "privatizzazione" nelle prime intenzioni del legislatore italiano abbia indicato il trasferimento d'impresa dal settore pubblico al settore privato per favorire la diminuzione della spesa pubblica, mediante rilevanti cessioni al mercato di quote di aziende pubbliche (come nelle ipotesi delle dismissioni a favore di banche pubbliche o di fondazioni, ovvero nel caso di cessione di quote di minoranza di aziende pubbliche e delle quote di indebitamento di IRI e ENI); (cfr: Galli Giampaolo: "Privatizzazioni e riforma della regolamentazione in Italia" in "Riv. Trim. dir. Pub.", 1998, fasc. 2, pag. 471-480; Levante Romano M.: "Pubblico (e privato) nel sistema Italia" in "Ec. pubbl.", 1991, fasc. 6 pag. 279-302; Perna Raffaele: "Servizio Studi della Camera dei deputati: lo sviluppo delle politiche legislative di settore. Il processo legislativo di privatizzazione delle imprese pubbliche" in "Bollettino di informazioni costituzionali e parlamentari", 1995, fasc. 1-3, pag. 271-281; Roppo Vincenzo: "Privatizzazioni e ruolo del "pubblico": lo Stato regolatore" in "Politica del diritto", 1997, fasc. 4 pag. 627-638); successivamente attraverso l'alienazione a soggetti privati di azioni di società miste istituite per la gestione di servizi pubblici (cfr: Pollacci Claudio: "Stato e mercato. Le cosiddette privatizzazioni" in "Dir. ec.", 1994, fasc. 2, pag. 469-479; Ficari Valerio:"Brevi osservazioni sui profili fiscali della "privatizzazione" dei servizi pubblici locali" in "Boll. Trib. Inform.", 1998, fasc. 11. pag. 891-897; Zambelli Simona: "Le privatizzazioni in Italia: aspetti giuridici ed economici" in "Il diritto dell'economia", 1997, fasc. 3, pag. 647-674). Ed è evidente che in assenza di una programmazione organica, le c.d. privatizzazioni non hanno acquisito una rilevante "identità" giuridica e (ad avviso di parte della dottrina) non hanno nemmeno introdotto effetti innovativi realmente incisivi. (Cfr: De Lise Pasquale: "Le privatizzazioni" in "Riv. Amm. Rep.it.", 1998, fasc. 5, pag. 387-392 Pontrandolfi Pasquale: "La privatizzazione degli enti di previdenza dei liberi professionisti" in "Giustizia civile", 1997, fasc. 7-8, pag. 365-373; Ragusa Maggiore Giuseppe: "La grande illusione della privatizzazione degli enti di gestione" in "Dir. fall.", 1992, fasc. 3-4, pt. 1, pag. 441- 448.

[5] " L’uso di moduli privatistici nell’organizzazione pubblica costituisce una pratica che ha accompagnato sempre la vita dell’amministrazione pubblica: tuttavia, molto di più sul piano dell’attività e degli strumenti giuridici ad essa relativi (negozi e contratti in luogo di provvedimenti; acquisto di beni in luogo di espropriazione, locazione in luogo della concessione etc.). Non così sul piano della organizzazione, giacchè il potere pubblico ha creduto che la sua affermazione e la sua conservazione, con le note caratterizzazioni che l’hanno accompagnato, dipendessero dalla specialità della sua organizzazione, e cioè dal fatto che il complesso organizzativo dei soggetti pubblici, raccordati tra loro e tutti tributari verso lo Stato di uno statuto particolare, facesse barriera all’ingresso nella scena di moduli o di figure non omogenee. Non si voleve insomma lasciare spazio a delle contaminazioni che avrebbero potuto compromettere il quadro organizzativo fondamentale e il suo perdurare" (G. Berti: Introduzione a "Pubblica amministrazione e modelli privatistici" AA.VV., Il mulino 1993, pg.14).

[6] Cfr: G. Berti:op.cit.pg.15; per lo specifico tema, cfr: F. Caringella, R. Marino: "La riforma del pubblico impiego verso la privatizzazione" Simone, 1994, pg.22 ss.

[7] "Il difetto di fondo di questa nuova normativa è quello di considerare come unitario il <<pubblico impiego>>, che, ormai, non ha più nulla di unitario. Al fondo, i dipendenti pubblici riflettono le caratteristiche delle amministrazioni in cui lavorano. E queste sono andate moltiplicandosi e differenziandosi, tanto che si parla da anni di <<Stato multiorganizzativo>>………….La verità è che quello che continuiamo a definire pubblico impiego è un'unità forzosa, che non ha nulla di veramente unitario. Tanto più che, fuori dall'unità <<pubblico impiego>>, vi sono dipendenti di amministrazioni private, ma in pubblico controllo (come le società per azioni già enti pubblici economici e le società " legali ") e di enti pubblici (come gli enti pubblici economici)" .(S.Cassese: "Ma esiste il pubblico impiego?" Da "Il sofisma della privatizzazione del pubblico impiego" in "Nuova rass. legisl. dottr. giur"., 1993, fasc. 17-18, Noccioli Empoli, 1993, pg.1734; in termini: Romagnoli Umberto: "Pubblico impiego e pubblici impieghi: odissea di una riforma" Mulino, 1993, fasc. 3, pag. 553-562).

[8] Anche nel preesistente regime non poteva negarsi che il rapporto di pubblico impiego esprimesse, al pari di qualsivoglia lavoro subordinato, un intreccio di diritti ed obblighi in una relazione tra un soggetto (il datore/imprenditore) ed un altro soggetto (il lavoratore subordinato) nell'ambito della quale si incardinavano una molteplicità di (sotto)relazioni che davano origine a posizioni intercambiabili di diritti ed obblighi; l’elemento di specialità veniva individuato nella natura pubblica del datore e nella destinazione dell’attività lavorativa ad attività partecipi dei fini istituzionali propri dell’ente. (Cfr: A. Catelani: "Il Pubblico Impiego", CEDAM, 1991, pg.8 ss., 47 ss.; in giurisprudenza, ex multis: Cass. Civ SS.UU. 9/7/97 n. 6228 in Giust. Civ. Mass. 1997, 1171; Cass. Civ. SS.UU 25/11/96 n.10431 in Giust. Civ. Mass. 1996, 1587; Cons. Stato, V Sez., 10 ottobre 1991 n. 1214, in Cons. Stato 1991, I, 1485; Cons. Stato sez. V, 3 maggio 1994, n. 401 in "Foro amm." 1994,1109).

[9] Ex multis: Cass. Civ. SS.UU.: 15-10-1982 n. 5347 in Giust. Civ. Mass. 1982, fasc.9 ; 22-11-1984 n. 5995 in Giust. Civ. Mass. 1984, fasc.11; 22-11-1984 n. 5997 in Giust. Civ. Mass. 1984, fasc.11; 28-05-1987 n. 4793 in Giust. Civ. Mass. 1987 fasc.5; 28/05/1987 n.4794, in Giust. Civ. Mass. 1987 fasc.5; 23/11/96 n. 10375 in Giust. Civ. Mass. 1996 n.1578.

[10] Cfr.: Cons. Stato, V Sez., 23 gennaio 1991 n. 74, in "Cons. Stato" 1991, I, 54; TAR Puglia Bari Sez.II 28/3/98 n. 342 in TAR 98 I pg.2074), a corollario di un elemento di specialità nel quale il criterio soggettivo prevaleva –sempre e comunque- su quello funzionale.

[11] Cfr: Menicucci Achille: "Problemi di applicabilita' dello statuto dei lavoratori agli enti pubblici economici" in "Dir. lav." 1976, fasc. 1, pt. 1, pag. 50-63; Bellini Vito: "Enti pubblici economici e controversie di lavoro" in "Dir. lav.", 1980, fasc. 6, pt. 1, pag. 366-370.

[12] Ex multis: Consiglio Stato sez. V, 2 febbraio 1995, n. 181 in "Foro amm." 1995, 344

[13] Ex multis: Cons. Stato sez. V, 3 maggio 1994, n. 401 in "Foro amm." 1994,1109; Cons.giust.amm. Sicilia sez. giurisd., 29 gennaio 1994, n. 21 in "Cons. Stato" 1994,I, 71; Cons. Stato sez. V, 2 febbraio 1995, n. 181 in "Foro amm." 1995, 344; Cons. Stato sez. V, 7 maggio 1996, n. 513 in "Foro amm." 1996,1521.

[14] Cfr: Cons.giust.amm. Sic., 29 gennaio 1994, n. 21 in. "Cons. Stato" 1994, I, 71.

[15] Sulla natura dell’amministrazione per atti autoritativi: (M. S. Giannini, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in "Rivista di diritto processuale", 1964, 1, p. 11): "gli effetti di tutti questi provvedimenti sono stabiliti da norme di diritto sostanziale, e, salvo qualche discussione circa taluno di essi, essi hanno tutti un fondo comune: colpiscono un bene oggetto di diritto soggettivo del c.d. amministrato. Varia il modo come ciò avviene: estinzione del diritto, perdita per trasferimento del diritto, privazione di facoltà contenuta nel diritto, nascita di obbligo personale o reale nel c.d. amministrato, talora più semplicemente limitazione di quel che altrimenti sarebbe il contenuto naturale delle situazioni soggettive di vantaggio dell’amministrato. Tutto ciò si può dire abbastanza chiaro, e anzi concorde, ed è sulla constatazione dell’avverarsi di siffatti effetti ad opera di un atto di volontà unilaterale di un certo soggetto, quale l’amministrazione, che si è attribuita al provvedimento amministrativo la caratteristica dell’imperatività. L’imperatività ammette più discipline di diritto positivo. Ciò significa che l’imperatività ha un contenuto minimo, che si suol esprimere coi termini, di origine giurisprudenziale, di degradazione del diritto, o anche di affievolimento: termini poco precisi, il secondo decisamente ridicolo, ma nel complesso espressivi. A rigore il diritto non degrata mai ad alcunchè: o si estingue o si modifica; degradazione è quindi termine metaforico e non rigoroso; ciò che accade è che si avvera un effetto giuridico, consistente, come si è visto, nell’estinzione, nella perdita, nella modificazione di un diritto o di una facoltà, o nella nascita di un obbligo.Il diritto si estingue, o si perde, o si modifica; l’interesse legittimo o già esisteva nel medesimo soggetto insieme al diritto (contitolarità) e rimane solitario con l’efficacia del provvedimento, o da questo nasce direttamente. Quindi le vicende giuridiche qui sono almeno due, ma possono essere anche più" Sicchè, acquisito quale corretto paradigma giuridico l’assioma che "diritto soggettivo ed interesse legittimo non sono l’uno l’espansione dell’altro o (a contario) l’affievolimento, ma due posizioni giuridiche distinte che danno origine a due diversi modi autonomi di strutturarsi del rapporto tra p.a. e cittadino a tal punto che possono persino coesistere in una unica relazione", anche nel rapporto di lavoro subordinato pubblico era (ed è in misura diversa anche attualmente) possibile ravvisare posizioni di diritto soggettivo e/o di interesse legittimo che coesistevano nella relazione con il datore".

[16] Garofalo G. "Osservazioni sul sistema contrattuale e sulla giurisdizione" in AA.VV. "La riforma del pubblico impiego" a cura di Naccari 1983 Roma pg.121 ss.

[17] "Una volta stipulato il contratto, con la conseguente nascita di diritti e di doveri per ciascuna delle parti, sulla disciplina del relativo rapporto di lavoro l'Amministrazione non può incidere se non per le cause espressamente previste dalla normativa citata e con la procedura eventualmente prescritta.….Peraltro, nell'ambito della disciplina del contratto di lavoro, sia in generale che con riferimento alla fattispecie, non si rinviene senz'altro previsione normativa che consenta al datore di lavoro di sospendere l'efficacia del contratto a cagione di un errore in cui egli sarebbe incorso nel determinarsi alla stipulazione……Resta perciò esclusa, proprio perché trattasi di contratto disciplinato dalla normativa civilistica e dal Ccnl sopra citato, la possibilità per l'Amministrazione di agire (genericamente) in autotutela secondo i principi propri di tale istituto"(TAR Lazio, Latina 4/12/96 n. 927 in TAR, 97, I, pg.63). In dottrina: Salvi Paolo: "Discrezionalita'e autonomia privata" in "Amm. it"., 1994, fasc. 5, pag.805-808.

[18] "Le esigenze del buon andamento e della imparzialità dell'amministrazione, come disciplinate dall'art. 97 della Costituzione, riguardano allo stesso modo l'attività volta all'emanazione dei provvedimenti e quella con cui sorgono o sono gestiti i rapporti giuridici disciplinati dal diritto privato…….Ogni attività dell'Amministrazione, anche quando le leggi amministrative consentono l'utilizzazione di istituti del diritto privato, è vincolata all'interesse collettivo, in quanto deve tendere alla sua cura concreta, mediante atti e comportamenti comunque finalizzati al perseguimento dell'interesse generale………L'attività amministrativa è quindi configurabile non solo quando l'Amministrazione eserciti pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando essa (nei limiti consentiti dall'ordinamento) persegua le proprie finalità istituzionali mediante una attività sottoposta, in tutto o in parte, alla disciplina prevista per i rapporti tra i soggetti privati (anche quando gestisca un servizio pubblico o amministri il proprio patrimonio o il proprio personale)………… Il Legislatore…. ha determinato una regola coerente con le più recenti tendenze volte a ridurre il tradizionale rilievo della distinzione tra gli atti amministrativi autoritativi e quelli di diritto privato della Pubblica amministrazione…………Le leggi di riforma del pubblico impiego (tranne alcune eccezioni) hanno ritenuto di sottoporre i relativi rapporti alla giurisdizione ordinaria ed alla disciplina generale dei rapporti di lavoro privato anche quando si controverta di atti aventi un'indubbia incidenza sull'organizzazione amministrativa e, dunque, sulle strutture istituite per soddisfare gli interessi pubblici………….Pur nell'ambito della progressiva osmosi tra le discipline pubblicistiche e quelle privatistiche, resta determinante il rispetto dei valori dell'imparzialità e del buon andamento, sanciti dall'art. 97 della Costituzione". (Cons.Stato: A.P. 22 aprile 1999 in Cons. Stato 99,I pg.557 ss.).

[19] "La disciplina del rapporto di impiego contenuta nel d.lgs 29/93 non determina la violazione dell'art. 97 Cost., che non impone uno statuto integralmente pubblicistico del pubblico impiego, infatti, attraverso un equilibrato dosaggio di fonti regolatrici, il legislatore ha garantito, senza pregiudizio per l'imparzialità, il valore dell'efficienza contenuto nello stesso precetto costituzionale………L'evoluzione legislativa tuttora in atto si realizza dunque intorno all'accentuazione progressiva della distinzione tra aspetto organizzativo della pubblica amministrazione e rapporto di lavoro con i suoi dipendenti. L'organizzazione, nel suo nucleo essenziale, resta necessariamente affidata alla massima sintesi politica espressa dalla legge nonché alla potestà amministrativa nell'ambito di regole che la stessa pubblica amministrazione previamente pone, mentre il rapporto di lavoro dei dipendenti viene attratto nell'orbita della disciplina civilistica per tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pubblico dell'azione amministrativa.

Attraverso un equilibrato dosaggio di fonti regolatrici si è potuto così abbandonare il tradizionale statuto integralmente pubblicistico del pubblico impiego, non imposto dall'art. 97 Cost., a favore del diverso modello che scaturisce appunto dal nuovo assetto delle fonti. In proposito, la Corte ha osservato come per questa via il legislatore abbia inteso garantire, senza pregiudizio dell'imparzialità, anche il valore dell'efficienza contenuto nel precetto costituzionale, grazie a strumenti gestionali che consentono, meglio che in passato, di assicurare il contenuto della prestazione in termini di produttività ovvero una sua ben più flessibile utilizzazione. Dati, questi ultimi, dei quali la Corte ha sottolineato il carattere strumentale rispetto al perseguimento della finalità del buon andamento della pubblica amministrazione….. "(C. Cost. 16 ottobre 1997, n. 309 in "Cons. Stato", 97, II pg. 1543).

[20] Cfr: Rusciano Mario: "Problemi sulla contrattualizzazione del lavoro pubblico" ne: "Il diritto del lavoro", 1998, fasc. 4-5, pt. 1, pag. 212-226. Sulla impossibilità di concepire l’attività dell’ente pubblico come equipollente a quella dell’imprenditore, da ultimo: D. Foderini: "La riforma delle modalità di accesso all’impiego e di progressione della carriera nelle p.a. dall’istituto concorsuale al principio dei concorsualità" in "L’Amministrazione Italiana", Barbieri- Noccioli e &, 1999, n.10, pg. 1310.

[21] M. Barbieri: "Corte Costituzionale e lavoro pubblico: un passo avanti e uno a lato" in "Il lavoro nella pubbliche amministrazioni" Giuffrè, 98 fasc.1 pg.140 ss..

[22] Cfr: C.Zoli: "Subordinazione e poteri del datore di lavoro: privato e pubblico a confronto" in "Diritto pubblico" Cedam, 1997, 2, pg.392 ss.

[23] per l’ente locale cfr.: F. Marotti: "Dal regolamento di organizzazione al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi: cosa è cambiato nell’ordinamento dell’ente locale in materia di organico" in "L’amministrazione Italiana" Barbieri e Noccioli Empoli, 1997, pg.1773 ss).

[24] A partire proprio dai criteri di organizzazione della forza lavoro dei dipendenti pubblici: ad es. "l'organigramma (ovvero la pianta organica) dell'ente, pur prospettando sempre l'inscindibile nesso di correlazione tra struttura organizzativa e dotazione organica, ha assunto anche una valenza funzionale, configurandosi contestualmente anche come diagramma delle funzioni o, per meglio dire, "funzionigramma" (F.Marotti: "Alcune riflessioni in tema di inquadramento funzionale nell’ente locale in regime di c.d."privatizzazione" del rapporto di impiego" in "Rivista del personale dell’ente locale" Maggioli Rimini 1998 pg 417 ss.). Contra: in termini di ininfluenza del procedimento sulle mansioni, definite solo con i poteri dell’imprenditore, secondo una organizzazione disciplinata unicamente in forza di schemi privatistici: Pretura Circondariale La Spezia, Sezione Lavoro: ordinanza 28 gennaio 1999 in "Giust.It".

[25] A. Catelani: "Il pubblico impiego" Cedam 1991 pg.23; in regime di c.d. "privatizzazione": Costanzo Giuseppe: "Pubblico impiego: matrici storico-istituzionali. Problematiche di "rifondazione" "in "Amm. it.", 1993, fasc. 10, pag. 1574-1580.

[26] "Anche in base all’attuale testo dell’art. 357 C.P., la qualifica di pubblico ufficiale va attribuita per il solo esercizio di una pubblica funzione, essendo irrilevante che il soggetto non faccia parte dell’organico ma abbia solo un rapporto di lavoro autonomo con l’Ente pubblico". (Trib. Venezia - Sez. I - Sent. 15/7/1994; in termini: Tribunale Venezia, 2 giugno 1994 in "Giust. pen." 1994,II, 690) "Nonostante tali mutamenti organizzatori, la Ferrovie dello Stato Società per azioni conserva connotazioni proprie dell'originaria natura pubblicistica, con i relativi riflessi sullo statuto penale dei dipendenti, che resta immutato rispetto al passato e in relazione al quale costoro continuano ad assumere le qualifiche di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio a seconda delle loro attribuzioni. (Cass. Sez. IV pen., 2440 ‑ 2 luglio‑4 agosto 1998 ‑ in "Rassegna Cons. Stato"). Contra: Cass. pen. sez.V, 16/11/1988, in "Giur. it.", 1989, II, 349 con commento di Zaffalon Elio: "Primi contrasti sugli effetti penali della c.d. privatizzazione del pubblico impiego"; in "Riv. pen.", 1994, fasc. 11 , pag. 1166.

[27] "In effetti, la prima legge che ha strutturato in senso generale il "procedimento" (L.n.241/90) ha introdotto una nozione di "funzione" (quella di responsabilità del procedimento) davvero "funzionalista"; a corredo, la fonte normativa citata (art.4) ha anche ribadito il criterio della distinzione del personale in unità organizzative……. Si afferma, quindi, una nozione scientifica di "funzione" e la consapevolezza piena della natura pregnante di "funzione pubblica" della stessa, secondo un rapporto così stretto e correlato che la "funzione" coincide con l’assolvimento delle competenze istituzionali dell’ente; la rilevanza dell’aspetto funzionale connota in modo più marcato il pubblico impiego, rafforzandone la natura pubblica, e differenziandone, anche in regime di privatizzazione, il relativo regime giuridico da quello del lavoro privato". F.Marotti: "L’impianto organizzatorio nell’ente locale" in "L’Amministrazione Italiana" 1997 II pg.186 ss, Barbieri e Noccioli Empoli 1997. In termini parzialmente diversi di concezione "privatistica" anche del procedimento: F. Caringella, R. Marino: "La riforma del pubblico impiego verso la privatizzazione", Simone, 1994, pgg.25-26.

[28] "Quel rapporto -il lavoro pubblico- sempre più si va configurando nella sua propria essenza di erogazione di energie lavorative, che, assunta tra le diverse componenti necessarie dell'organizzazione della pubblica amministrazione, deve essere funzionalizzata al raggiungimento delle finalità istituzionali di questa". C. Cost. 16 ottobre 1997, n. 309. In termini: Di Passio Rocco: "La legge 241/1990: profili organizzatori" in "Riv. trim. sc. amm"., 1993, fasc. 1, pag. 7-26).

[29] Cfr.: Cons Stato, Sez. VI, 11 novembre 1999 n.1156 in "Cons. Stato" cit, 1999, I, 1418 ss.

[30] Cfr: Picchi Mario: "Brevi note sul d.l.vo 3 febbraio 1993, n. 29, concernente il pubblico impiego" in "Nuova rass. legisl. dottr. giur.", 1993, fasc. 15-16, pag. 1546-1552; Mele Eugenio: "La privatizzazione del pubblico impiego" in "Nuova rass. legisl. dottr. giur.", 1993, fasc. 15-16, pag. 1540-1545.

[31] "Nel nuovo sistema così delineato dalla profonda riforma del 1993, quindi, deve escludersi in radice la possibilità che - ad eccezione delle nomine del personale appartenente alle categorie sopra indicate - il rapporto di impiego venga costituito con provvedimento amministrativo (l’atto di nomina). Il rapporto si costituisce, invece, sulla base dell’accettazione della proposta di assunzione inviata dalla P.A. al soggetto selezionato attraverso il concorso ovvero avviato dall’ufficio di collocamento (art. 36 D. Lg.vo n. 29/1993)….Dopo il d.lgs 80, infatti, soltanto le linee fondamentali dell’organizzazione degli uffici e poco altro sono ormai riservate alla legge e allo strumento provvedimentale. Tutto il resto è ormai transitato all’interno del regime privatistico degli atti di gestione (art. 4 comma II). Tutto ciò suona come un omaggio alla feconda intuizione di Orsi Battaglini e, prima ancora di Massimo Severo Giannini, secondo i quali la riserva di legge non implica automaticamente il regime amministrativistico degli atti. Bruno Caruso:"Il giudice del lavoro ed il pubblico impiego" in "Giust. It." In termini: Virga Pietro: "La privatizzazione del pubblico impiego: importanti innovazioni ma non tutte sono da considerarsi positive" in "Nuova rass. legisl. dottr. giur.", 1993, fasc. 3-4 (16 febbraio), pag. 237-239; Gherghi Vincenzo: "Riflessioni in merito alla contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego" in "Nuova rass. legisl. dottr. giur.", 1993, fasc. 3-4 pag. 241-244; Piraino Salvatore: "Il pubblico impiego tra contrattualizzazione e privatizzazione" in "Nuova rass. legisl. dottr. giur.", 1993, fasc. 20 pag. 2004-2005; Pilati Andrea "Quanti tipi di rapporto di lavoro subordinato?" in "Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale", 1996, fasc. 3-4 pt. 1, pag. 233-245; Romeo Carmelo: "La privatizzazione ovvero la contrattualizzazione del pubblico impiego" in "Riv. it. dir. lav.", 1991, fasc. 3 pt. 1, pag. 301-316; Faraldi Francesco: "Esigenza di coordinare l' attivita' della P.A. con l' apparato di produzione e di lavoro" in "Nuova rass. legisl. dottr. giur.", 1994, fasc. 18, pag. 2148-2156. In giurisprudenza: "Se, invero, la pubblica amministrazione esercita i suoi poteri di gestione del rapporto di lavoro nella veste di privato datore di lavoro, ciò significa che gli atti di gestione del predetto rapporto sono stati trasformati ope legis in atti di diritto privato e non sono più qualificabili in termini di atti e provvedimenti amministrativi normativi….Ne consegue, quale indefettibile corollario, che i suddetti atti di gestione del rapporto di lavoro con la P.A., non avendo più l’attributo dell’autoritatività e quindi dell’esecutorietà tipici dei provvedimenti amministrativi, non devono più essere impugnati, per farne valere l’invalidità e per precluderne la consolidazione, nel termine decadenziale di 60 giorni prescritto per la proposizione dell’azione giurisdizionale di annullamento dei provvedimenti amministrativi, bensì nel diverso termine di prescrizione previsto dal codice civile per i contratti invalidi….. In tale materia, dunque, si dissolve e svanisce la rilevanza dei vizi di legittimità degli atti amministrativi, che viene ad essere automaticamente sostituita da quella dei vizi di nullità e di annullabilità contrattuale previsti dal codice civile. (T.A.R. Catania, Sez. III - 1288 - 7 giugno 1997, in "Giust. It.").