IL "MOBBING":

ULTERIORI RIFLESSIONI

Il mobbing conferma la sua presenza anche nei rapporti di pubblico impiego.

Tanto emerge dal contenuto dall’ordinananza 6 dicembre 2000, n. 6311, del Consiglio di Stato, oggetto del presente commento e spunto per una analisi delle leggi di riforma della pubblica Amministrazione sia essa statale che locale che offra al lettore l’occasione per una riflessione circa i motivi per cui allo stato attuale esiste un terreno fertile per il proliferare di tale inquietante fenomeno.

Oltre al commento richiamato – a conferma di come il mobbing sia già avvertito da parte di chi opera nelle amministrazioni pubbliche – si riportano due interventi a completamento di un dibattito più ampio sollevato da una precedente pubblicazione sul tema.

Il primo del dott.Massimo Salvemini, che evidenzia come possa ipotizzarsi, a seguito delle leggi di riforma della categoria dei segretari comunali e provinciali, un "mobbing legislativo", in quanto la nuova normativa applicabile ai segretari sembra legittimare, se non sarà in futuro temperata nella sua concreta applicazione, delle situazioni anomale e singolari difficilmente riscontrabili in altri settori del pubblico impiego.

Il secondo del dott.Stefano Fedeli che, andando oltre dei casi specifici, analizza il fenomeno nel suo complesso e invita il lettore a privilegiare, oltre che una riflessione della dimensione di ordine fisico del mobbing e dei suoi effetti, talvolta devastanti per la "persona", altresì la sua connotazione giuridica.

Solo così potrà evitarsi che una "socializzazione" dei danni abbia l’unico effetto della sola elaborazione di modelli valutativi degli stessi tralasciando una definizione positiva del mobbing, unico baluardo a tutela dei lavoratori e dei datori di lavoro ed argine al pericolo che per "indeterminatezza del rischio si giunga alla determinatezza dei rimedi risarcitori".

Stefano Glinianski

MOBBING E RAPPORTO DI PUBBLICO IMPIEGO PRIVATIZZATO

di STEFANO GLINIANSKI

L’ordinanza 6 dicembre 2000, n. 6311, del Consiglio di Stato, Sez. V, conferma come, attualmente, il fenomeno mobbing abbia trovato ingresso anche nei rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche.

Il mobbing, infatti, se inizialmente ha rappresentato una disfunzione dell’impiego privato e, dunque, in quella sede è stato principalmente analizzato, oggi esso consacra la sua esistenza e la sua espansione anche nel rapporto di pubblico impiego privatizzato.

Da ciò emerge l’importanza dell’ordinanza richiamata che, al di là del suo specifico contenuto, limitato alla risoluzione di una questione di giurisdizione, impone delle riflessioni circa la corretta interpretazione dei principi e delle regole che le nuove leggi di riforma del settore pubblico in generale e degli enti locali in particolare hanno introdotto.

L’avvertenza di un diffuso malessere nei diversi settori attraverso i quali si articola l’amministrazione pubblica, generato da condotte vessatorie perpetrate nei confronti del lavoratore, non è sicuramente una novità.

Tuttavia la differenza più eclatante rispetto al passato risiede nella circostanza che oggi esiste, oltre che una precisa consapevolezza da parte del lavoratore dell’esistenza di tale fenomeno sociale, altresì una specifica denominazione dello stesso che, al di là del suo valore semantico, ha avuto il rilevante pregio di cristallizzare in un’unica espressione - qual è il mobbing- un insieme di comportamenti vessatori che, se in passato potevano essere singolarmente analizzati e in modo riduttivo considerati come fisiologiche incomprensioni o eventuali conflitti sul luogo di lavoro, oggi hanno acquisito un diverso e sicuramente più delicato significato con evidenti riflessi giuridici e sociali.

Ulteriori motivazioni per cui il mobbing oggi trova terreno fertile per il suo sviluppo anche in seno alle amministrazioni pubbliche sono da ricavarsi da una analisi del processo di revisione a cui è sottoposto attualmente il rapporto di pubblico impiego.

Se in passato la rigidità strutturale e organizzativa delle amministrazioni aveva quanto meno l’unica certezza per cui a seguito di un inquadramento il lavoratore era preposto all’esercizio di specifiche mansioni che difficilmente potevano modificarsi almeno nei loro aspetti qualitativi, l’attuale sistema di gestione della cosa pubblica e delle risorse umane, trasmigrando verso moduli e modelli di funzionamento "aziendalistici" mutuati dal settore privato - nella convinzione legislativa per cui solo questo metodo di gestione funzionale consente di perseguire obiettivi di efficienza, di efficacia e di economicità dell’azione amministrativa – ha ottenuto come risultato l’attenuarsi di tale convinzione.

La regola che emerge dai recenti testi normativi di riforma del pubblico impiego, avallata dagli ultimi contratti collettivi disciplinanti i diversi settori dell’amministrazione pubblica, sembra essere la seguente: se l’amministrazione deve perseguire obiettivi di efficienza ed efficacia, il personale attraverso cui essa opera deve caratterizzarsi per funzionalità e competenza.

Da ciò ne consegue che i soggetti operanti nelle diverse amministrazioni devono essere valorizzati, incentivati e naturalmente premiati attraverso dei riconoscimenti economici se conseguono obiettivi prefissati o se dimostrano di avere acquisito un bagaglio di conoscenze e di competenze tali da legittimare un nuovo ruolo di maggiore responsabilità o di diversa appartenenza rispetto all’originaria categoria di inquadramento.

Orbene, pur nella plausibilità teorica di un tale assunto è innegabile che un sistema di gestione organizzativa costruito in modo così flessibile avrebbe richiesto una maggiore ponderazione nell’attuazione degli strumenti legislativi per la sua concreta realizzazione e, soprattutto, dei correttivi che avessero evitato una esasperazione – come già in alcuni casi si rileva – dei criteri sui quali si fonda.

La principale critica alla configurazione dell’attuale sistema non è avere collegato " funzionalmente" la classe politica agli organi di gestione, bensì avere consentito questa importante forma di collegamento attribuendo agli organi di indirizzo politico dei rilevanti poteri di nomina e/o di assegnazione ai dipendenti di funzioni e, dunque, di compensi ulteriori rispetto ad un originario inquadramento del dipendente a prescindere da una qualsivoglia valutazione meritocratica che doveva, al contrario, rappresentare il normale presupposto logico e giuridico per nomine e attribuzioni.

Il vincolo di fiduciarietà tra gli organi di direzione politica e gli organi di gestione, che secondo il legislatore deve rappresentare una linea guida per la riforma del nostro sistema amministrativo, in modo da renderlo efficiente ed efficace nel perseguimento degli obiettivi prefissati in sede politica attraverso le diverse tipologie di atti di programmazione a cui deve ricondursi l’attività gestionale – se dunque in linea di principio ha una sua legittimità e logicità (2) –- nella prassi, così come cristallizzato nelle diverse norme espressione di tale principio, facilmente può prestarsi a connivenze e complicità a vantaggio di alcuni e in danno di altri.

Un esempio tipico di come sia possibile una mistificazione dei rapporti tra la classe politica e gli organi gestionali si ricava, in particolare, dalle recenti leggi di riforma delle autonomie locali.

Per consentire una concreta realizzazione del principio di distinzione tra attività di indirizzo politico e funzioni gestionali, la riforma attuata dal legislatore ha concesso la facoltà agli organi politici di attribuire compiti sostanzialmente dirigenziali al personale interno all’ente o di ricorrere alla nomina di soggetti esterni ove in seno all’ente siano, almeno in linea di principio, assenti professionalità adeguate all’esercizio di determinate funzioni (3).

Orbene, nell’ipotesi in cui gli amministratori siano consapevoli della circostanza che tali facoltà di attribuzioni o di nomine devono essere il risultato di una ponderazione e di una valutazione preliminare che, in relazione alle diverse esigenze dell’ente discendenti dai casi concreti, premino la competenza o sopperiscano a carenze di organico, nulla quaestio.

Tuttavia, se la sensibilità dell’amministratore non porta a tale forma di correttivo l’assenza di una qualsiasi regola o limite, che dovrebbe, in tal caso, discendere da atti regolamentari interni, non può che portare a delle distorsioni legittimate dalla legge stessa.

Ecco, dunque, che il terreno fertile per il proliferare di attività mobbizzanti è stato generato e, metaforicamente, può essere reso fertile da atti concreti.

Ad alcuni dipendenti potranno, ovviamente a secondo del tipo di ente e delle categorie di lavoratori in esso presente, essere attribuite funzioni e delegati compiti ulteriori rispetto al loro originario inquadramento con conseguente incremento economico, mentre altri soggetti, spesso con la stessa professionalità, a fronte del prestigio riconosciuto ad alcuni, potranno, si badi, legittimamente, essere emarginati dal contesto lavorativo in cui operano e relegati allo svolgimento di funzioni prive di qualunque stimolo.

Con ciò non significa optare per una forma di appiattimento acritico delle funzioni dei dipendenti operanti in seno ad un ente locale per il solo motivo che quanto viene concesso ad un dipendente per ciò solo deve essere riconosciuto ad altri.

In tal modo si eluderebbe la ratio della riforma.

Ma attribuire ad organi politici una totale discrezionalità nell’esercizio di tali delicate facoltà di attribuzioni di competenze e di prestigio può avere l’alto costo dell’emarginazione di taluni dipendenti a favore di altri spesso più accondiscendenti verso coloro a cui la legge attribuisce tali poteri.

Le stesse perplessità e le stesse problematiche possono evidenziarsi nelle ipotesi sempre più frequenti di ricorso da parte degli amministratori a professionisti esterni – specie per la copertura di posti apicali – con conseguente isolamento e relativa demotivazione da parte di chi già operava in seno all’ente.

Anche per tale ipotesi si può assistere alla mancata valorizzazione di professionalità acquisite già presenti nelle amministrazioni e che, improvvisamente, si scoprono relegate sovente ai margini dell’attività amministrativa e sostituite da soggetti più compiacenti.

Ovviamente le fattispecie concrete che possono generare casi di mobbing in un ente pubblico non sono solo attribuibili agli organi di direzione politica.

Così come per i motivi predetti la classe politica può avere convenienza, in determinati e, si auspica, isolati casi, ad attivare dei procedimenti diretti ad isolare dal contesto lavorativo alcuni dipendenti o, comunque, a ridurre il valore della loro presenza, condotte vessatorie simili, ma attuate attraverso procedimenti differenti, possono essere perpetrate anche da organi dirigenziali nei confronti di dipendenti o da organi di alta direzione nei confronti di dirigenti che hanno il dovere di perseguire determinati obiettivi.

È consequenziale, infatti, che se ampi poteri di gestione del personale sono attributi a chi ha un rilevante interesse al perseguimento di prefissati obiettivi, in quanto dal conseguimento degli stessi discende, oltre che la salvaguardia di uno status, altresì un ulteriore riconoscimento economico, in una visione distorta del concetto di flessibilità, i titolari di tali prerogative potrebbero ritenersi legittimati ad attivare qualsiasi condotta – legittima o vessatoria – verso chi rappresenta il "mezzo" per giungere ad uno specifico fine.

Ecco ancora una volta che un tale sistema organizzativo degli uffici e di gestione del personale facilmente può assumere una configurazione distorta e, dunque, far emergere nuovamente quel "terreno fertile", prima metaforicamente richiamato, per uno sviluppo del mobbing che trova, così, il suo seme nell’incertezza e nell’assenza di garanzie legislative.

L’ordinanza citata che ha permesso il presente commento dispone che sia l’autorità giudiziaria ordinaria a dovere decidere su una richiesta di condanna per danno biologico da mobbing.

Non sembra arduo, tuttavia, ipotizzare che presto sarà chiamata a pronunciarsi la Corte dei conti là dove l’amministrazione sia ritenuta solidalmente responsabile per eventuali danni alla persona generati dalla condotta di dipendenti o amministratori.

Quanto, però, un ristoro economico potrà ripristinare un equilibrio psico-fisico turbato?

Tale è il motivo per cui si invoca la necessità di limitare il più possibile gli effetti di tale devastante fenomeno, eventualmente con il ricorso a correttivi di atti normativi che, nel nome della privatizzazione, rischiano di introdurre nel pubblico impiego quanto di peggio ha generato il rapporto privatistico di lavoro.

STEFANO GLINIANSKI

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(1) Il Consiglio di Stato, infatti, con l’ ordinanza n. 6311/2000 (ved. in questo fascicolo, pag. 117: N.d.R.) declina la propria giurisdizione a decidere su di una richiesta di condanna avanzata da un dipendente per danno biologico da mobbing.

Il giudice amministrativo, dunque, ancorché la pretesa coinvolge aspetti organizzativi di servizi pubblici, ritiene che, ai sensi del disposto di cui all’art. 33, comma 2, lett. E), del D.Lvo n. 80/1998, così come modificato dalla legge 21 luglio 2000, n. 205, le controversie meramente risarcitorie riguardanti danni alle persone o a cose siano di competenza dell’AGO.

(2) Considerato che un mancato conseguimento degli obiettivi prefissati in sede politica se da un lato comporta una responsabilità "di risultato" per il dirigente/responsabile, di riflesso genera una altrettanto grave responsabilità politica degli amministratori dinanzi ai propri elettori.

(3) Cfr. a titolo esemplificativo gli arrt. 109 e 110 del D.Lvo n. 267/2000.