STEFANO FEDELI

Segretario dei Comuni di Mignanego, Montoggio, Crocefieschi (Genova)

Prendo spunto dalla recente pubblicazione dell’amico e collega Stefano Glinianski per alcune brevi riflessioni sul fenomeno del mobbing.

In via preliminare, mi permetto di rivolgere un invito a tutti i soggetti coinvolti nello studio della materia, affinché l’analisi sia il più possibile affrancata da suggestioni create ora dalla presunzione dell’assoluta autonomia del mobbing dalle più ampie fenomenologie dell’illecito e del disagio psichico, ora dal presunto cinismo delle dinamiche dei processi produttivi, ora, con riferimento ad un ambito a me familiare, dalla degenerazione delle relazioni afferenti al pubblico impiego.

Il primo invito nasce dalla personale sensazione che si tenda a privilegiare la dimensione d’ordine fisico del mobbing, a detrimento della connotazione (anche) giuridica della materia, riconducibile alla più ampia tematica dell’illecito. Ciò che appare evidente nella calunnia, nell’ingiuria o nelle molestie sessuali, perpetrate negli ambienti di lavoro, e, in generale, in tutte le azioni che, da sole, sintetizzano la linearità dello schema (condotta, evento/danno e rapporto di causalità), non esclude il ricorso a canoni giuridici, diversi da quelli che tratteggiano il fondo del nostro ordinamento (artt. 2 e 32 della Costituzione e, con riferimento al pubblico impiego, art. 97 della Costituzione, artt. 2034, 2049, e 2087 del codice civile), anche, laddove, come nel mobbing, le singole azioni non assumono rilevanza se non sono preordinate a causare un pregiudizio.

Il problema è quello di individuare gli strumenti conoscitivi, che non dobbiamo fare a meno di ricercare, attraverso i quali spiegare come le persone, che istituiscono relazioni sociali, non devono avere come parametri le sole regole labili e flessibili della buona educazione, della cortesia o della correttezza, bensì precisi principi discendenti direttamente dalla legge.

Da qui l’esigenza di giungere, anche se in ritardo rispetto ad altri Paesi (ad esempio: la Svezia), ad una definizione positiva, accettando l’esito che se la sussunzione del mobbing a criteri oggettivi non potrà ridurre ad unità la complessità del fenomeno, quantomeno, costituirà un baluardo a tutela dei lavoratori e dei datori di lavoro ed un argine al pericolo, sempre presente nelle società complesse, che, per l’indeterminatezza del rischio, si giunga alla determinatezza dei rimedi risarcitori.

Non speriamo in soluzioni taumaturgiche. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno complesso che affonda le sue radici negli imperscrutabili sentimenti personali, nell’indefinibile consapevolezza della propria identità, nelle aspettative create e tradite, e, più in generale, nel disagio psichico che si manifesta con la depressione.

La depressione tende a non farsi notare fino a quando non si deve confrontare con l’ordinarietà: le relazioni di lavoro e familiari, la folla, il traffico; lei (pronome adatto a sintetizzare l’antinomia del rapporto tra familiarità e distacco che si instaura con la depressione) è una maschera che si appiccica alle facce del partner, del tuo migliore amico, del tuo collega o del tuo datore di lavoro e di tutti coloro che per amore, odio (o forse soltanto per leggerezza) riescono a ferirti con la loro straordinaria capacità di sopravvivere agli stessi tuoi problemi.

L’eccezionale potere di sintesi del lemma mobbing include il pericolo di consegnare al depresso le coordinate per definire i lineamenti della maschera, un cursore che si muove nella memoria alla ricerca di tutti i fatti (anche i più insignificanti) che giustificano il malessere. A questo punto, anche il più bravo degli analisti faticherà a scortecciare la realtà vista e vissuta dalle lenti deformate e deformanti del suo paziente. Anche il capufficio consiglierà un lungo periodo di riposo, oppure la dedizione ad impegni di minore complessità, generando involontari effetti mobbizzanti.

Per spezzare la circolarità e l’autopoieticità derivanti dalla presunta consapevolezza delle ragioni del malessere, oggi più di prima, è necessaria un’azione di prevenzione mirata alla valutazione dell’idoneità neuropsichica al lavoro ed al successivo controllo dei lavoratori esposti al rischio di mobbing.

L’affermazione dell’esigenza di presidi sanitari non deve essere la premessa per esprimere disagio verso il crescente cinismo delle relazioni lavorative. La constatazione è innegabilmente giusta, ma presa a se stante e senza analisi storica rischia di offrire un’immagine falsata degli eventi che attraversiamo. Lasciati a qualche ex manager in rotta per Cuba i consigli per fuggire dalla logica "disumana" dei ritmi di lavoro, agli altri resta il difficile compito di conciliare l’evoluzione dei sistemi produttivi con l’accresciuta consapevolezza della propria identità personale, della maggiore diffidenza verso comportamenti che condizionano abusivamente il modo di essere e le relazioni sociali.

In presenza di deboli segnali di contrapposizione (come lo sono – a mio avviso – le regole di correttezza, di buona fede e di solidarietà, che, pur capaci di produrre schemi interpretativi, non riescono a coprire l’intera fenomenologia dei danni alla persona derivanti da azioni di mobbing), la transazione tra valori e disvalori porterà alla creazione di validi modelli risarcitori, privi, per definizione, dell’idoneità a funzionare da strumenti di prevenzione, ma abili a metabolizzare il danno nei rapporti e nei processi produttivi fino alla volgare qualificazione del mobbing come fattore di costo.

A quel punto non ci sarà più spazio per sofisticate analisi: perché l’esigenza di governare l’evoluzione dei sistemi produttivi giocherà a favore della socializzazione dei danni che diverranno merce per risolvere i conflitti sociali e spunto per l’elaborazione di efficientissimi modelli valutativi.

Se la pratica "rimediale" si fonda sull’assenza di punti di riferimento sistematici (che dovrebbero funzionare da freno), il rapporto di pubblico impiego potrebbe costituire un ottimo campione per verificare o smentire tale affermazione. Infatti, in questo ambito, le trasformazioni, motivate dall’esigenza (sempre più enunciata a mo’ di slogan) di adattare organizzazione e comportamento alla crescente domanda di efficienza della società postindustriale e da altre inconfessabili ragioni, hanno impattato contro un terreno impreparato a ricevere nuovi meccanismi di inclusione/esclusione e responsabilizzazione.

Il tutto è avvenuto sotto la spinta di incompresi (ed incomprensibili, per coloro che non considerano i contesti culturale ed istituzionale dai quali sono stati importati) meccanismi d’origine statunitense, in assenza di precise regole mirate a valorizzare procedimenti valutativi (pur sempre suscettibili di definizione normativa), producendo effetti che, pur nella loro diversa origine e direzione, sintetizzano l’attuale momento di grande confusione. Chi è stato escluso ha spesso addotto motivazioni afferenti alla mancata adesione a clan politici; chi ha assunto nuovi e più importanti responsabilità ha motivato i suoi momenti di disagio con l’incapacità dei dirigenti o degli amministratori politici dell’ente di appartenenza, o, addirittura, ha prospettato un macchinoso progetto di controriforma, che, iniziato con la svalutazione dell’apparato amministrativo, finirà per soddisfare quel desiderio, a volte malcelato, dei politici di riappropriarsi della gestione amministrativa.

Il feed-back rischia di essere l’esaltazione delle funzioni di mediazione ora del giudice, ora delle parti sociali, ora degli stessi apparati politici che, attraverso collaudate logiche di ridistribuzione e negoziazione delle risorse, potrebbero (ri)occupare spazi apparentemente inaccessibili.

STEFANO FEDELI