Tratto dal sito: www.giust.it , rivista di diritto pubblico diretta dal Prof. Giovanni Virga

 

 

 

LUIGI OLIVERI

Direttore generale, segretario comunale, dirigenti e responsabili di servizi – un rapporto conflittuale

Pesano come macigni le parole di Luigi Naldoni, scritte nell’articolo "Il nonsense del direttore generale", pubblicato su Italia Oggi dello scorso 13 luglio a pagina 17 (e riportato in calce al presente documento).

Pesano non solo per il contenuto fortemente critico al legislatore, ma anche per il ruolo dell’autore, che si è firmato come consigliere nazionale dell’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali, che scrive quindi nella veste istituzionale di un ente che dovrebbe essere il primo difensore ed attuatore della riforma dello status dei segretari.

E pesano, ancora, soprattutto per i sottintesi, per le cose non dette che tuttavia baluginano dallo sfondo.

L’articolo prende sostanzialmente atto dell’esperienza non proprio esaltante della figura del direttore generale presso gli enti locali, la cui presenza è denunciata come fonte di turbolenza nei rapporti con i segretari e, c’è da aggiungere, anche con la dirigenza o i responsabili di servizio.

Le annotazioni contenute nell’articolo sono per lo più vere e corrette e attestano dell’onestà intellettuale e, forse, dell’amarezza dell’Autore.

La premessa dei rilievi, infatti, appare corretta. L’istituzione del direttore generale lungi dall’essersi rivelata un rimedio alle inefficienze ed uno stimolo ad un modo di amministrare più improntato a criteri aziendalistici si è generalmente dimostrata solo una sovrastruttura organizzativa pesante, mirante ad altri obiettivi.

Non che la figura di un direttore generale dotato di cognizioni gestionali particolarmente vicine a quelle del mondo dell’impresa non fosse utile, al contrario. Ma l’utilizzo che negli enti si è spesso fatto di questa figura è apparso sbagliato.

Il direttore generale avrebbe dovuto consentire di avvantaggiarsi di una serie di opportunità:

1) facilitare il passaggio da una contabilità solo finanziaria ad una realmente economica;

2) introdurre modelli di controllo interno di gestione e di rilevazione del lavoro di tipo automatizzato;

3) creare il managment by objectives e la gestione per progetti;

4) flessibilizzare le strutture lavorative, agevolando l’istituzione di task forces col compito di conseguire progetti delimitati anche nel tempo;

5) realizzare la traduzione degli obiettivi politici in strategie gestionali, a partire dalle risorse esistenti e piegandole, dunque, alle concrete potenzialità produttive;

6) coordinare le attività dei vertici dirigenziali, stabilendo i tempi, le priorità, quando e come concentrare gli sforzi verso un certo risultato, anche abbandonando altri progetti e rideterminandone le scadenze o i costi.

Invece, la gran parte dei direttori generali si sono ingeriti nella diretta gestione operativa, andando subito in rotta di collisione con il segretario, spesso costretto ad un angolo e alla sola funzione di consulenza giuridica, e con la stessa dirigenza. Infatti, il direttore generale è stato erroneamente visto, ma molto spesso appositamente creato, come un superiore gerarchico diretto dei vertici dirigenziali, pertanto in grado di scorporare competenze, avocare atti, gestire direttamente. Sicché l’opera di traduzione degli obiettivi politici in azioni gestionali si è trasformata in un’ingerenza degli organi di governo nella gestione per l’interposta persona del direttore generale, utilizzando la leva della riorganizzazione al fine di limitare le competenze e le responsabilità della dirigenza e dei segretari, come attesta l’enorme contenzioso verificatosi in tema di revoca degli incarichi dirigenziali.

C’è però da aggiungere alle parole del Naldoni che queste disfunzioni si sono verificate anche laddove le funzioni del direttore generale siano state conferite al segretario comunale. Del resto, se l’errore consiste nella valutazione della portata delle funzioni e delle competenze di una certa figura, non conta chi ricopre il ruolo, ma come il ruolo si vuole venga ricoperto. Non c’è da nascondersi che anche molti segretari comunali hanno interpretato la funzione di direzione generale più per riportare la gestione operativa sotto l’egida diretta degli organi di governo, che per svolgere le funzioni di ammodernamento dei metodi e di coordinamento delle azioni che avrebbero dovuto essere proprie del direttore generale.

Molti segretari hanno ceduto alla lusinga di una scorretta interpretazione del ruolo del direttore, a fronte di compensi talvolta non rispondenti alle funzioni esercitate. L’incarico di direzione è visto come un sinallagma per la nomina quale segretario ed un mandato – retribuito – ad agire nei confronti della struttura dell’ente come amplificatore delle decisioni dell’organo di governo, tentando così di rimediare surrettiziamente alla separazione delle competenze.

Questo effetto è indirettamente riconosciuto dallo stesso Naldoni, quando afferma che "l’affidamento delle funzioni di direttore generale aggiuntive al segretario ha inoltre causato di fatto lo sconvolgimento delle logiche dell’albo suddiviso in fasce con ci si regola l’ordinamento della categoria". Esplicitando il sottinteso, il Naldoni conferma che l’attribuzione delle funzioni ma soprattutto del compenso per la direzione generale, determina una distorsione nello stesso ordinamento professionale. I sindaci sono disponibili a compensare molto generosamente i segretari-direttori che permettano loro la diretta ingerenza nella gestione (causando inevitabilmente conflitti col resto della dirigenza), anche presso enti di piccoli dimensioni, nonostante per detti enti, come osserva Naldoni "la scelta di un direttore generale rappresenta un lusso antieconomico"[1].

Attraverso il conferimento delle funzioni di direzione generale e, soprattutto, l’assegnazione dell’indennità, del tutto liberalizzata dal CCNL, infatti si verifica che segretari incaricati presso enti di piccole dimensioni godano di una retribuzione ma anche di "poteri" molto maggiori di colleghi di enti più grandi, con lo sconvolgimento totale delle logiche di qualsiasi carriera professionale.

Da qui il malessere della categoria, dovuto alla creazione di segretari di "serie A" o "serie B" a seconda del tipo di ricostruzione del ruolo e del compenso che ciascun sindaco concede.

Non si possono, però, che condividere solo in parte le amareggiate conclusioni cui perviene il Naldoni nell’articolo menzionato, nel quale si auspica la riunificazione delle funzioni del direttore in quelle del segretario sul presupposto dell’abbandono della distinzione dei compiti tra politica ed amministrazione.

La riunificazione delle funzioni sarebbe buona cosa; il fatto è che le funzioni sono tutt’oggi unificate, in quanto il segretario deve comunque svolgere le funzioni di coordinamento che gli vengono sottratte solo se venga nominato un direttore esterno. Non riconoscere questa situazione è stato utile, apparentemente, ai fini della contrattazione collettiva, ma ha creato la situazione di stravolgimento dell’ordinamento professionale denunciato dall’articolo di Italia Oggi.

Sarebbe certamente stato più proficuo legare il compenso dei segretari alle loro proprie funzioni, rivendicando come proprie anche e soprattutto quelle di coordinamento, senza pensare a retribuzioni aggiuntive, ma puntando ad una vera e reale retribuzione onnicomprensiva anche delle funzioni direzionali e di coordinamento, passate, invece, in sottotraccia, come se il segretario non ne disponga se non in quanto gli siano conferite le funzioni di direttore. Il che ha reso la figura del direttore da facoltativa a "essenziale", e quella del segretario necessaria solo finchè l’articolo 97 del testo unico lo continui a prevedere espressamente, quando invece occorreva spingere per la valorizzazione del ruolo del segretario, passata la bufera del referendum abrogativo.

Auspicare però chela rivalutazione del segretario passi per l’eliminazione della separazione delle competenze tra politica e gestione significa codificare una volta e per sempre proprio la disfunzione che fin qui ha portato ai difficili rapporti tra direttori generali, segretari e dirigenza e tra questa e gli organi di governo, ovvero la politicizzazione.

Gli enti locali, per quanto debbano lavorare con criteri imprenditoriali, non sono aziende. Nelle aziende la dirigenza può entrare a far parte della "proprietà" e con essa identificarsi, acquisendo azioni, stock options ed incentivi, in quanto l’obiettivo è sempre uno, l’interesse privato al profitto e omogenee sono le strategie gestionali per conseguirlo, qualsiasi sia il tipo di prodotto e di azienda.

Gli obiettivi politici, invece, sono tanti, diversi, cangianti ed espressione di una società in evoluzione. Gli organi di governo sono i rappresentanti di queste istanze, che non essendo "aziendali" ma politiche debbono essere tradotti in azioni che, comunque, debbono essere conformi alla legalità, all’interesse pubblico, all’efficienza e all’efficacia.

Il modello precedente del politico-gestore non ha funzionato. Non pare che un modello basato sul gestore-politico (o politicizzato) abbia molte argomentazioni per dimostrarsi migliore del primo o dell’attuale modello della separazione, che fin ora ha funzionato poco proprio per la riottosità ad attuarlo in pieno.

[1] Questione che per la verità riguarda anche il conferimento delle funzioni ai segretari, posto che presso enti di piccole dimensioni spesso non esiste neanche il Peg né un’organizzazione che richieda una simile funzione (vedasi L. Oliveri "Della retribuibilita' dell'incarico di direttore generale affidato ai segretari comunali", in www.giust.it). Il Naldoni dà indirettamente ragione a chi ha sollevato dubbi sull’effettiva possibilità di remunerare le funzioni di direzione generale laddove non si rinvengano compiti e responsabilità ulteriori.

IL NONSENSE DEL DIRETTORE GENERALE

di Luigi Naldoni
(Consigliere nazionale Agenzia autonoma gestione albo segretari comunali e provinciali)

Pubblicato su ItaliaOggi (Enti Locali) Numero 165, pag. 17 del 13/7/2001

La legge 127/97 (Bassanini 2) ha dato a sindaci e presidenti di provincia la possibilità di nominare un direttore generale diverso dal segretario.

La filosofia di tale scelta organizzativa risiedeva e risiede nell'errata concezione per la quale colui che deve presiedere a funzioni di garanzia dell'ordinamento non possa, o peggio, non sia capace di pensare con efficacia ed efficienza alla gestione dell'ente.

A distanza di quattro anni di esperimento si rivela la fallacia dell'assunto presupposto allo sdoppiamento di funzioni e allo stesso retropensiero politico. Nella stragrande maggioranza dei casi le amministrazioni non hanno deliberato l'assunzione di un direttore generale, e laddove lo hanno fatto nella quasi totalità dei casi si è verificata e si verifica tuttora turbolenza organizzativa e di rapporti fra segretario generale e direttore generale.

L'affidamento delle funzioni di direttore generale aggiuntiva al segretario ha inoltre causato di fatto lo sconvolgimento delle logiche dell'albo suddiviso in fasce con cui si regola l'ordinamento della categoria. La separazione delle funzioni allunga i tempi di esecuzione e può segnare situazioni di conflitto interpersonale sicuramente dannose per l'organizzazione.

Mentre per i comuni medio piccoli la scelta di un direttore generale rappresenta un lusso antieconomico, nei grandi enti avviati a diventare sempre più holding di servizi esternalizzati la figura di un direttore generale che non gestisce, costituisce una spesa aggiunta e un nonsense organizzativo.

Solo in caso di una completa riforma e privatizzazione della p.a. (abolizione della tipicità dell'atto, dei Tar e della Corte dei conti) si potrebbe prevedere l'utilizzo di un direttore generale diverso dal segretario.

Permanendo l'attuale ibrida situazione nella p.a. la sola possibile via di uscita è di abbandonare la napoleonica e farisaica teoria della distinzione dei compiti fra politica e amministrazione responsabilizzano sindaco e segretario nella gestione, riequilibrando in funzione di azione di check and balance i rapporti istituzionali fra sindaco-giunta e consiglio.