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n. 8-2000

LUIGI OLIVERI

Il sistema degli incarichi dirigenziali e delle revoche alla luce delle interpretazioni del giudice del lavoro.

Il corretto inquadramento della disciplina degli incarichi dirigenziali, per essere completo, doveva attendere i primi interventi del giudice ordinario, quale giudice del lavoro. Gran parte della dottrina, a seguito dell'emanazione del D.lgs 80/1998, aveva tratto questa conclusione: trascorsi due anni dalla riforma del D.lgs 29/1993, si rileva come in effetti la visuale del giudice ordinario aiuti ad esaminare sotto una luce diversa gli istituti degli incarichi dirigenziali, chiarendo quali sono i veri effetti della privatizzazione e, di conseguenza, della contrattualizzazione del rapporto di lavoro, particolarmente rilevanti proprio per le qualifiche dirigenziali.

E' inutile negare che buona parte della manualistica e della propaganda relativa alla riforma del pubblico impiego, in nome dell'efficientismo ha travisato alcuni istituti, facendo apparire una possibile una realtà applicativa iperliberista, tutta a vantaggio dell'organizzazione e tutta a discapito della dirigenza inadeguata ai principi dell'efficienza e dell'efficacia, costretta a rassegnarsi – senza difese – alla limitata durata nel tempo degli incarichi, alla loro precarietà e revocabilità quasi ad nutum, alla possibilità praticamente insindacabile di modificare gli incarichi anche in peius, nel presupposto che ciò che conta è garantire unicamente l'attribuzione al personale con qualifica dirigenziale lo svolgimento di funzioni a contenuto dirigenziale, non rilevando le posizioni occupate in precedenza.

Ed è osservazione di tutti i giorni che dette interpretazioni hanno portato ad applicazioni piuttosto disinvolte di questi principi: si è assistito a casi di "rotazioni" di incarichi finite in veri e propri atti di mobbing, si svuotamento delle funzioni, di sostanziale degradamento del ruolo. Lo dimostra il moltiplicarsi di sentenze ed ordinanze cautelari che sistematicamente danno torto alle amministrazioni che hanno agito seguendo l'onda illusoria del tutto è permesso nei confronti della dirigenza.

L'ordinanza del Tribunale di Venezia 8 giugno 2000 rappresenta una pietra miliare nella configurazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici, in quanto propone alcuni interessanti punti fermi, in netto contrasto con le interpretazioni sopra sintetizzate, ma in linea con la corretta interpretazione ed attuazione della privatizzazione del rapporto di lavoro della dirigenza.

MANTENIMENTO DELL'INCARICO. Parte della dottrina si è largamente diffusa sull'eliminazione del cosiddetto jus ad ufficium, traendo spunto dalla circolare 1/97 del Ministero dell'interno in merito alle problematiche interpretative della legge 127/1997, il cui articolo 6, comma 7, modificando il comma 6 dell'articolo 51 della legge 142/1990 ha eliminato il diritto del dipendente ad essere incardinato nel posto conseguito a seguito di concorso pubblico.

Detto principio dell'eliminazione dello ius ad ufficium a maggior ragione si è ritenuto dovesse valere per la dirigenza, in quanto l'articolo 19, comma 1, del D.lgs 29/1993, come modificato dall'articolo 13 del D.lgs 80/1998, stabilisce che per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale e per il passaggio ad incarichi di funzioni dirigenziali diverse si tiene conto della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e della capacità professionale del singolo dirigente, anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza, applicando di norma il criterio della rotazione degli incarichi.

L'espressa previsione che al conferimento degli incarichi ed al passaggio ad incarichi diversi non si applichi l'articolo 2103 del codice civile ha rafforzato la convinzione di chi ritenesse completamente fungibili tutte le funzioni dirigenziali previste nell'ambito dell'organizzazione pubblica, sicchè il dirigente non potrebbe che subire gli atti organizzativi unilaterali dell'amministrazione, senza poter difendersi sulla base dell'istituto del mansionismo, esplicitamente escluso dalla legge.

Ma secondo il tribunale di Venezia, le cose non stanno esattamente così. Partendo dal presupposto che ai sensi dell'articolo 68 del D.lgs 29/1993 al giudice ordinario sono devolute le controversie relative ai rapporti di lavoro, incluse quelle concernenti il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali, il giudice trae due conclusioni:

  1. l'incarico (e della revoca) non è provvedimento unilaterale di tipo autoritativo, non è, cioè, atto amministrativo, ma atto negoziale di diritto privato di gestione del rapporto di lavoro;
  2. la posizione del dirigente oggetto del provvedimento (di incarico o revoca) non è, dunque, di interesse legittimo, ma di diritto soggettivo pieno.

Secondo il tribunale detto diritto soggettivo consiste nel diritto al mantenimento dell'incarico dirigenziale, che impedisce, dunque, all'ente di appartenenza di operare una qualsiasi rimozione dall'incarico (anche, al limite, del tipo promoveatur ut removeatur) di tipo unilaterale. Poiché il conferimento dell'incarico ha natura contrattuale, la rimozione del dirigente, se operata non contrattualmente – non consensualmente – assume la veste di violazione dei patti ed è, quindi, un comportamento illecito, valutabile come inadempimento.

Pertanto, il tribunale, con estrema chiarezza considera "destituita di fondamento" la tesi secondo cui i dirigenti hanno un diritto perfetto soltanto allo svolgimento di un incarico corrispondente alla fascia di appartenenza (o, nel caso della dirigenza locale che non è suddivisa in fasce, incarico effettivamente a contenuto dirigenziale).

RAPPORTO CONSENSUALE. L'amministrazione agisce unilateralmente, in base a proprie valutazioni, soltanto nel momento organizzativo interno, quando, ovvero, stabilisce quante sono le posizioni dirigenziali nel proprio seno, quali sono, quanto pesano, decidendo – a vuoto, ovvero prescindendo dalla persona incaricata – quale debba essere la remunerazione della "posizione" quanto vale, quindi, dal punto di vista economico l'incarico dirigenziale.

Tuttavia, questa definizione del valore delle posizioni è da considerare, secondo il tribunale di Venezia, una sorta di proposta contrattuale, non immune da una contrattazione da parte del dirigente da incaricare. Infatti, il giudice veneziano sottolinea che l'articolo 19, comma 2, del D.lgs 29/1993 e successive modificazioni nel precisare le caratteristiche degli incarichi dirigenziali, oltre a prevederne la determinatezza della durata, dispone che l'oggetto, gli obiettivi, la durata ed il trattamento economico sono definiti contrattualmente. Pertanto i tratti essenziali dell'incarico dirigenziale sono definiti per via contrattuale, seguendo le norme del diritto comune.

E' vero che nel rapporto di lavoro subordinato il datore di lavoro si presenta come "parte forte" sicchè la proposta o l'offerta difficilmente può essere ricontrattata con successo dal dipendente. Il fatto, comunque, che vi sia un'adesione alla proposta, senza una effettiva trattativa sulle condizioni del contratto, non significa che si verta pur sempre nell'ambito di un rapporto consensuale di natura contrattuale privata tra dirigente ed amministrazione che conferisce l'incarico.

Per questo, secondo il tribunale di Venezia, la modifica dell'incarico – intendendo come modifica anche l'assegnazione ad incarichi diversi per contenuto e qualità – non può che avvenire per la medesima via consensuale, in applicazione del principio generale previsto dall'articolo 1372 secondo cui la gestione delle vicende del contratto non può che avvenire per "mutuo consenso".

La potestà dell'amministrazione di modificare unilateralmente l'incarico dirigenziale è legata al verificarsi dei presupposti previsti dalla legge e dai contratti collettivi che la legittimano in tal senso. Il combinato disposto degli articoli 19, comma 7, e 21, commi 1 e 2, del D.lgs 29/1993, chiarisce che la modifica unilaterale deriva da ragioni subiettive, ossia legate alla prestazione lavorativa del dirigente, al quale l'incarico può essere revocato quando incorra nella responsabilità dirigenziale derivante dal conseguimento di risultati negativi della gestione, o dalla grave inosservanza delle direttive impartite dall'organo di governo.

I contratti collettivi, inoltre, introducono anche ipotesi di revoca di natura oggettiva, legate, cioè, ad oggettive necessità organizzative o produttive dell'ente, come prevede l'articolo 13 del CCNL della dirigenza del comparto enti locali. Ma in questo caso, l'ente deve specificare e motivare le ragioni alla base della riorganizzazione che portano alla rimozione del dirigente dal suo incarico.

ROTAZIONE. Ulteriore conseguenza dell'approfondimento svolto dalla sentenza sulla materia degli incarichi dirigenziali è l'affermazione che la rotazione dell'incarico, in quanto evento che muta il rapporto consensuale tra ente e dirigente, non può essere disposta né nel corso dello svolgimento dell'incarico già conferito, né può determinare uno stravolgimento del tipo di prestazione lavorativa richiesta al dirigente, giacchè la rotazione presuppone l'identità degli uffici rispetto ai quali essa viene attuata.

Identità qualitativa e quantitativa, nel senso che si deve trattare di un incarico che tenga contro delle attitudini e delle capacità professionali, ma anche, evidentemente, del trattamento economico. Insomma, pur non operando l'articolo 2103 del codice civile, se la rimozione dall'incarico o l'attuazione della rotazione comporti un pregiudizio al dirigente, tale da incidere sullo sviluppo della carriera, a meno che detta rimozione o variazione non sia consensuale o determinata da valutazioni negative, è illegittimo e fa scattare la rimessione del dirigente nel suo incarico originale, in attuazione del suo diritto soggettivo perfetto al mantenimento dell'incarico.

RISULTATI. La sentenza chiarisce un altro aspetto fondamentale del rapporto di lavoro dei dirigenti. Se è vero che il contratto deve predeterminare gli obiettivi da conseguire, è altrettanto vero che l'obiettivo da solo non costituisce l'oggetto dell'obbligazione lavorative del dirigente, ma semmai parametro per la valutazione della sua prestazione. Insomma, la prestazione lavorativa del dirigente ha una varietà di contenuti, che può spaziare dall'organizzazione e direzione di unità complesse secondo certe modalità, alla formulazione di studi, proiezioni e progetti, alla definizione di nuovi processi organizzativi, mirati al conseguimento di un certo obiettivo. Ma l'obiettivo non coincide con l'incarico: semmai l'incarico, con gli onori e gli oneri che ne derivano, deve indicare le modalità e conferire le potestà per raggiungere il risultato che l'amministrazione si aspetta.

In conclusione, se il rapporto di lavoro del dirigente è da ricostruire come rapporto consensuale di diritto privato, così come insegna il giudice del lavoro, lo spazio per azioni unilaterali degli enti si riduce sensibilmente, fin quasi ad azzerarsi. Gli organi di governo debbono prendere atto che la posizione dei dirigenti è tutelata dal contratto che stipulano, sicchè azioni di spoil ssystem sotto mentite spoglie non possono essere attuate attraverso la strada della rideterminazione degli incarichi, slegata dai presupposti previsti dalla legge e dai contratti collettivi.