ITALIA OGGI – 17.11.00

 

Tar Emilia Romagna, sez. staccata di Parma, sent. n. 444 del 17 ottobre 2000

La nozione di servizio pubblico e i limiti per un comune all'affidamento diretto a un'azienda municipalizzata della fornitura di calore.

La fornitura di calore necessario per il riscaldamento degli edifici comunali non può avvenire direttamente a opera di un'azienda municipalizzata senza una preventiva gara pubblica.

È questo l'interessante principio sancito dalla sentenza in commento (per il testo integrale è possibile consultare il sito Internet www.diritto2000.it) emanata a seguito di una complessa vicenda processuale che ha visto altresì l'intervento della Corte di giustizia della Comunità europea.

Nel caso concreto oggetto della controversia, l'azienda municipalizzata del comune aveva ottenuto direttamente, senza gara, dal comune stesso la gestione del "Servizio calore" per gli impianti installati presso alcuni edifici comunali, adibiti a sede municipale, scuola, palestra e ambulatori.

Secondo le amministrazioni la nozione di servizio pubblico non poteva ritenersi troppo riduttiva, escludendo quelle prestazioni che, pur non essendo rivolte in modo indifferenziato alla generalità dei cittadini, sono strumentali rispetto a esse, in quanto riguardano immobili adibiti all'uso pubblico generalizzato, e quindi corrispondono a bisogni generali della collettività, come per esempio, il servizio di illuminazione votiva all'interno del cimitero comunale, che i resistenti paragonano alla gestione degli impianti di riscaldamento degli edifici comunali.

Si tratterebbe comunque, secondo il comune, di produzione di beni e attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, secondo il citato art. 22 della legge n. 142/90, che definisce in questi termini i servizi pubblici alla cui gestione i comuni provvedono in economia, in concessione a terzi, a mezzo di azienda speciale, istituzione o società per azioni partecipata, come recita il terzo comma.

La Corte di giustizia delle Comunità europea, cui era stata rimessa la questione interpretativa preliminare della normativa comunitaria, aveva emanato la sentenza del 18/11/99, con la quale sostanzialmente affermava:

1) che, essendo rispetto al corrispettivo totale annuo dell'appalto il valore della fornitura di L. 86 milioni e il costo della conduzione e della manutenzione di L. 36 milioni dall'art. 2 della direttiva 92/50 (che stabiliva il suo campo d'applicazione agli appalti misti allorché il valore dei servizi superasse quello dei prodotti previsti dal contratto) derivava, "a contrario", che l'appalto controverso rientrava nell'ambito d'applicazione della direttiva 93/36;

2) che per fornire un'interpretazione del diritto comunitario utile per la causa occorreva quindi interpretare le disposizioni di quest'ultima direttiva;

3) che qualora fosse stabilito che l'importo stimato dall'appalto fosse pari o superiore a 200 mila ecu, che si trattasse di un contratto a titolo oneroso fra due soggetti (non importando se il fornitore fosse un'amministrazione giudicatrice, non essendovi in materia di appalto di forniture un'esclusione analoga a quella dell'art. 6 della direttiva 92/50), e, a quest'ultimo riguardo, precisamente che si trattasse di soggetti distinti sul piano formale e non già di "ente locale che eserciti sul soggetto forniture un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi" e che il fornitore non realizzasse "la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti che la controllano" e cioè che si trattasse di enti distinti sul piano formale e autonomi sul piano decisionale, non poteva escludersi l'applicabilità della direttiva 93/36.

I giudici amministrativi hanno ritenuto che in materia di fornitura di beni, invece, come rilevato dalla sentenza della Corte di giustizia della Ce, le amministrazioni, a norma del diritto comunitario (e, a ben vedere, anche a norma del diritto interno) non godono generalmente di alcun privilegio o privativa o diritto esclusivo analoghi a quelli loro riservati dall'art. 6 della direttiva 92/50, per cui, qualora ritengano di dover approvvigionarsi, per i loro bisogni, di beni ovvero di fornire beni ad altri enti devono, in linea di massima, concorrere sul mercato al pari degli altri soggetti o riservare ai diversi soggetti legittimati a partecipare alle gare pubbliche parità ili trattamento, applicando, al riguardo, le norme interne sul procedimento di formazione del contratto a evidenza pubblica ovvero, se ne ricorrano gli estremi, quelli della disciplina comunitaria e che, essendo l'appalto in questione, come rilevato dalla sentenza della Corte, più propriamente riconducibile, per il criterio della prevalenza, a quello di fornitura (e, in effetti, i servizi, per il loro valore economico nettamente più limitato, hanno carattere accessorio rispetto all'approvvigionamento di beni), e trattandosi di fornitura di beni ai quali nessuna disposizione ricollega a enti pubblici diritti speciali di privativa (essendo indubbio che i combustibili possano essere forniti da qualunque operatore economico legittimato a tale commercio, e reperiti sul mercato in regime di concorrenza), l'azienda municipalizzata, nella fattispecie per cui è causa, doveva essere considerata come un normale operatore economico che agisce in regime di concorrenza, con conseguente applicabilità della direttiva Cee n. 93/36.

a cura di Ugo Di Benedetto