Italia Oggi Venerdì 9 Marzo 2001

Tutti a scuola di umiltà

Tutti a scuola di umiltà. Questo, in sintesi, il drastico consiglio che R. H., consulente con 30 anni di esperienza e tuttora al servizio di importanti multinazionali, che preferisce rimanere anonimo, si sente di dare a manager e uomini d'impresa.

Senza alcuna distinzione tra posizioni di vertice e intermedie, R. H. vede infatti ingigantirsi e diffondersi a macchia d'olio un difetto comune a tutta la classe dirigente.

In una parola, la "totale mancanza di senso critico" e il brutto vizio di "scaricare colpe e insuccessi sulle spalle degli altri o sulle condizioni oggettive del mercato", quando in realtà "non esiste transazione o negoziato il cui eventuale fallimento non possa essere attribuito esclusivamente a una mancanza di competenza di uno o entrambi gli attori coinvolti".

ItaliaOggi, incuriosita dalla portata di tali affermazioni, ha cercato di capire se si tratta di una semplice provocazione oppure di un reale campanello d'allarme supportato da elementi concreti.

Domanda. Lei parla di manager poco umili: che cosa intende?

Risposta. Intendo dire che l’errore più grave e più diffuso tra chi occupa posizioni di responsabilità è quello di non accettare mai se stessi come vera causa degli insuccessi.

Di fronte a un affare andato male, a una politica di marketing inefficace o a un negoziato finito in un nulla di fatto, nessuno si chiede mai, e sottolineo mai, se ciò non dipenda da una sua mancanza di competenza.

Tutti, al contrario, si affrettano a tirare in ballo, alternativamente, il momento storico sbagliato, le variabili macroeconomiche, i limiti della controparte.

D. Invece?

R. Invece il 100% degli insuccessi è legato unicamente a noi stessi e a limiti individuali.

Quando due persone si trovano una di fronte all'altra per concludere un affare di qualsiasi natura, dal caso più banale del commesso e del cliente di un negozio fino alla firma di un accordo miliardario tra due capitani d'industria, le condizioni oggettive per concludere ci sono sempre. Il problema è che non sempre si è capaci di trovarle e metterle a fuoco nel rapporto interpersonale.

D. Intende dire che se una persona entra in un negozio è perché, consciamente o meno, ha comunque intenzione di comprare?

R. Esattamente. Ma se poi quella stessa persona esce dal negozio a mani vuote, la spiegazione del commesso è inesorabilmente sempre la stessa: "Era il solito perditempo, si vedeva che non avrebbe mai comprato nulla".

Mentre invece il problema è che nessuno è stato capace di comprendere i suoi reali desideri, di farlo sentire così come lui avrebbe voluto.

D. Qual è, dunque, l'approccio corretto?

R. Porsi sempre al livello degli altri senza presunzione e non pensare di poter modificare la loro capacità di comprendere. Perché l'unica cosa che si può e si deve modificare è il proprio modo di comunicare.

Se invece si continua a credere che sia sufficiente dare un'impressione di fermezza, e di conseguenza scaricare all'esterno tutte le responsabilità pur di non cambiare opinione, allora si finisce inevitabilmente in un vicolo cieco.

D. Quindi la fermezza come un non valore che impedisce la crescita umana e professionale?

R. Esatto. Il problema è che non si dà sufficiente risalto alla situazione di crescita e di evoluzione che ciascuno di noi può esprimere soltanto attraverso la rinuncia e la modifica costante di punti di vista e convinzioni preesistenti.

Ecco perché la fermezza, da tanti professata come valore emotivo di forza da esibire, diventa una caratterizzazione di indiscutibile debolezza.

Di fronte all'ostentazione della fermezza delle convinzioni di qualcuno, ci dovremmo sempre chiedere come egli farà a colmare il ritardo che inevitabilmente avrà accumulato dal momento in cui ha deciso di fermarsi.

Certo, è più facile inchinarsi a tale ostentazione e pensare che la valenza di ciò che viene detto sia proporzionale all'importanza e, appunto, alla fermezza di chi lo dice.

Ancora una volta per non assumersi la responsabilità di dover fare una valutazione indipendente e quindi soggetta all'errore.

Ed è proprio per questa ragione che preferisco rimanere anonimo: vorrei che si riflettesse sulle mie argomentazioni senza alcun condizionamento, né in fatto di esperienze né di competenze (commenti e riflessioni possono essere inviati all'indirizzo: rh_2001it@yahoo.it).

D. Che cosa consiglia per uscire da questa poco edificante situazione?

R. Di fermarsi a riflettere per poi alimentare un circolo virtuoso. Il concetto è molto semplice: si rallenta un po' l’attività sul mercato per dedicare un po' di tempo a se stessi e guardarsi allo specchio, così da aumentare la propria capacità personale.

Dopo di che si torna sul campo di gioco con maggiore coscienza di sé e maggiore capacità di comprendere gli altri, quindi con più strumenti per fare buoni affari.

E poi, oltre a tutto ciò, ci vuole una maggiore attenzione alle relazioni umane, perché la vera professionalità nasce da microattenzioni e da microdettagli.

D. In concreto che cosa significa?

R. Arrivare puntuale a un appuntamento, essere sempre in ordine, non presentarsi con il colletto della camicia sporco oppure l'alito che sa di aglio perché la sera prima si è mangiato il pesto.

Mi rendo conto che sembrano dettagli irrilevanti e che tutto questo fa venire il sorriso sulle labbra, ma questa è la pura realtà con cui mi confronto da 30 anni.

E le assicuro che riguarda ogni livello manageriale.