Il Convivio

 

 
A. IV n. 4
Ottobre - Dicembre 2003

Carmelo Aliberti: La narrativa di Carlo Sgorlon

Non c’è dubbio che Carlo Sgorlon sia uno dei più grandi scrittori del secondo Novecento, e non solo italiano: autore di una trentina di romanzi, pubblicati quasi tutti da Mondadori, si può ritenere senz’altro uno scrittore ormai di “chiara fama” e, nel complesso, abbastanza fortunato, seguito e apprezzato com’è da una larga fascia di lettori, anche se non è propriamente quello che si dice uno scrittore “popolare” (ma ha venduto, in verità, oltre tre milioni di copie dei suoi libri). Vincitore dei premi letterari più prestigiosi (dal Super-Campiello 1973 al Super­Flaiano 1997, con in mezzo lo Strega, il Napoli, l’Hemingway, il Fiuggi, il Fregene e tanti altri, che sarebbe troppo lungo elencare), assunto come “exemplum” per ricerche in corsi universitari (a Trieste, Zurigo, Aarheus, Pensylvania), fatto oggetto di molte tesi di laurea in Italia e all’estero (Polonia, Egitto, Cina), recensito puntualmente su decine di giornali e periodici all’uscita di ogni sua opera, è presente nei repertori e dizionari critici più diffusi, oltre che nelle storie e nelle antologie adottate nelle scuole di ogni ordine, inferiori e superiori.

Eppure c’è qualcosa che non “quadra” ancora, come si suol dire, nella storia della fortuna critica di Carlo Sgorlon (Bastogi, Foggia 2003). E Carmelo Aliberti ci aiuta a capirne le ragioni, tracciandone anche un profilo umano col suo ultimo lavoro: nato e cresciuto in un paesino del Friuli, Cassacco nei pressi di Udine, Sgorlon compie i primi studi in modo irregolare, ma poi si laurea e si specializza in Lettere alla Normale di Pisa, con buone prospettive per la carriera universitaria; preferisce, invece, dedicarsi all’insegnamento nelle scuole medie, star lontano dai clamori delle metropoli e dei gruppi organizzati, vivendo da gran solitario, senza mai rincorrere il carro dei vincitori in politica, poiché professa idee liberal-democratiche al di fuori degli schieramenti partitici.

Di qui l’impressione di un uomo e di uno scrittore che vuol essere ad ogni costo controcorrente, fermamente deciso a non farsi irreggimentare nella cultura che conta politicamente, né di sinistra né di destra, posto che la distinzione abbia ancora un senso. Di qui, anche, le mancate simpatie da parte di certa critica dichiaratamente tendenziosa o velatamente ambigua, per determinazioni ideologiche. Tutti temi e problemi, questi, di non poco conto, già ampiamente prospettati oppure qua e là sfiorati in interventi occasionali (ad es., da Marchetti, Nogara, Scaramucei, Caronia, Di Biase, Amoroso e molti altri), accennati in sintesi repertoriali (ad es., da Bassan, Bertacchini, Piemontese, Pulce, Romano, ecc.), poi ripresi e approfonditi in studi monografici di grosso impegno (Damiani, Nissim, Maier, Toscani), ed ora posti al centro di una indagine capillare di Carmelo Aliberti, apparsa recentemente presso a Bastogi Editrice Italiana, nella nuova serie della “Biblioteca dell’Argileto”.

Carmelo Aliberti non è nuovo a questo genere di studi, avendo al suo attivo alcune monografie critiche su autori ed opere di vasta risonanza, tra cui ricordiamo Silone, Prisco, Tomizza, Cattafi. Scrittori, a ben riflettere, non “allineati”, anzi insofferenti e “ribelli” ad ogni tipo di potere eccessivo, ad ogni forma di “dittatura”, politica e letteraria. Com’è, in fondo, lo stesso Sgorlon. Avendo, anche Aliberti, fatto una “scelta di campo” nel segno della libertà intellettuale, si è trovato in perfetta sintonia con Carlo Sgorlon, non solo per le tematiche ispiratrici della sua narrativa, ma anche e soprattutto per la visione “filosofica” della storia umana, di ordine mitico-religiosa. In ogni pagina del suo studio si percepisce una partecipazione viva, un’adesione piena alla straordinaria vicenda, umana e letteraria, di Carlo Sgorlon.

Ne deriva un profilo criticamente perspicace, attento alle grosse problematiche, ma anche alle implicazioni psicologiche, ai particolari più minuti della biografia, dalla infanzia vissuta presso i nonni fino agli studi universitari, dalla prima maturazione fino alla esplosione del “caso” letterario, come quello di uno scrittore che non intende intrupparsi in correnti e tendenze dominanti sulla stampa nazionale e nelle università, col rischio dì vedersi e sapersi un “isolato irriducibile”. Rischio che Sgorlon sconta fino all’ultimo, nella consapevolezza di restare se stesso pur nel clima infuocato delle polemiche accesesi via via sul neo-realismo, sulla neo-avanguardia, sul Sessantotto, sulla letteratura industriale, sul terrorismo.

Aliberti, dopo aver fatto debitamente luce sulle direttrici della poetica e della filosofia sgorloniane, passa ad una lettura analitica delle opere che ne contrassegnano l’iter narrativo, da La poltrona (1968) e Il vento nel vigneto (1973) a La tredicesima ora (2001) e L’uomo di Praga (2002), soffermandosi su aspetti maggiori e minori di ogni libro (trame, personaggi, situazioni, significati).

Chiude con un capitolo dedicato interamente alla delicata questione delle strutture formali in cui, di volta in volta, si sono calate le tante “storie” che Sgorlon ha raccontato. L’autore vi coglie l’occasione per fare anche un bilancio della fortuna critica, riconoscendo molti meriti agli studiosi che lo hanno preceduto, come Roberto Damiani, Liana Nissim, Carmine Di Biase, Ezio Bernardelli, Claudio Toscani e, più di tutti, il compianto Bruno Maier, che della narrativa sgorloniana è stato l’esegeta più assiduo e l’interprete più accurato.

Carmelo Aliberti, che è anche un ottimo poeta, con questo lavoro ha confermato le sue doti di lettore scrupoloso e di indagatore acutissimo. Come si è detto poco sopra, egli aveva già dato prove più che convincenti di saggista rigoroso su autori ed opere di non facile approccio; ma qui ha dato veramente il meglio di se stesso, forse anche perché si è sentito personalmente coinvolto nella sorte di uno scrittore come Carlo Sgorlon, sempre mosso da «un’etica severa, di matrice cristiana, che rifugge dagli edonismi, dai lassismi e permissivismi eccessivi di oggi».