Il Convivio
 
A. IV n. 4
Ottobre - Dicembre 2003

Sentieri di assoluto: percorsi fra prosa e poesia di Giuseppe Manitta

di Placido Petino

La lettura di Sentieri di assoluto di Giuseppe Manitta (edizioni dell’Accademia Internazionale Il Convivio 2003), richiama prepotentemente alla mente un auspicio formulato da Italo Calvino circa venticinque anni or sono. Vagheggiava una poesia fatta di componimenti lunghi, complessi, costruiti, alimentati da una trama di concetti profondi, densa di personaggi. Era una sfida ambiziosa, quella proposta da Calvino: recuperare in un contesto generale di poesia frammentaria una struttura poematica.
Giuseppe Manitta raccoglie la sfida e si impone un ulteriore impegno: rinsaldare l’antico dualismo (se mai sussistente) fra prosa e poesia, come rapporto palpabile fra scorrere del tempo narrativo ed assoluto tempo dell’eterno, cui è consentito accesso visivo solo dai bagliori fulminanti della poesia. Peraltro nel poema di Giuseppe Manitta il tempo narrativo è una infrazione minima, ridotta all’essenziale, quanto lo è la condizione della umana quotidianità, tale da non incidere nell’assorbente (immanente, complessivo e totalizzante) continuum dell’assoluto. Una increspatura infinitesimale.
Per converso, la parte poetica viene in qualche modo coinvolta dalla capacità del racconto, che è del romanzo, recuperando, peraltro, per questi versi, il meglio della missione poetica: ripristinare con la forza delle emozioni ciò che il razionale corrompe e sgretola. Il poema di Giuseppe Manitta, allora, diviene sintesi di narrazione e contemplazione, di folgorazioni - stralci lirici di notevole bellezza musicale (l’inizio e, fra i tanti: «Polvere e cenere sollevano steli / verso nuclei di cielo biancastro... Si muove la fortuna impallidita, / che svolazza in amuleti di farfalle... Addio fiume ondeggiante di freschezza, / che hai immerso nella fiaba il grido / lanciato dalle mie labbra dissetandole in fondo... Lode all’aria che volteggia / nelle viscere dei figli della notte») e di pause elegiache («Gli astri addolciscono l’andare / dei fulmini. Omnia tacet»), di asciutta rappresentazione realistica e di aura fantastica.
Una poesia profonda dal punto di vista concettuale, è quella di Giuseppe Manitta, ed in un crogiolo sapiente vengono messi in gioco i grandi, terribili, temi del tempo, della solitudine, della morte («Ecco l’oblioso baratro - vuoto, penoso, dove - nulla ha certezza di esistere»), della vita in una dolenza stilistica straordinaria, estremamente coinvolgente («Prostituzione, prostitution, prostitucion. / Scossa la bellezza dal pudore / infranta dalla violenza altrui / senza torcere il delicato / volto che funge da mediatore / divino e umano (sacrilegio)... Droga, dope, gewurz. Crepuscolo iroso d’uomo / che spezza l’ebbrezza agghiacciante... Inquinamento, pollution, verunreinigung / Turbini di focolare additano / i flutti invisibili d’immondizia».
Una magica mescola è il poema di Giuseppe Manitta il cui paiolo è forgiato in raffinati collages lessicali (morte, dehart, mort, / mors, thanatos, muerte... sed forse nein?»). Preziosismi dei classici («i lineamenti che traspaiono lucciole / dalla cupezza dello sguardo. Voluntas / maxima! Le braccia anchilosate...». Accattivanti neologismi: «Pietra viva millennissìva... Vetri incrostati di dolcezza / mostrano la S-Fortuna stremata / da bagliori di stelle (degradissìa)... nella neressìa dell’ombra... pura filosofissìa... Potenza extra / Ante Versitutto o essescendo extra / Post / Tuttiverso (incertezza d’evoluzione)... la mia andatura sull’altura dorata e sognissìva / e proseguo / portato sulle braccia - verso l’issività». Termini fortemente evocativi. Affiorano prepotentemente, a mio avviso, i segni delle migliori lezioni ermetiche ed espressioniste.
È, peraltro, quello di Giuseppe Manitta, un proposito di sperimentazione linguistica che non rifiuta il dialogo costante con il più duttile strumento della lineare prosa narrante, pur fissando un insormontabile crinale che solo il poeta riesce a percorrere. Esorcizza così la dolorosa verità della quotidiana esistenza attraverso il grido della parola, lessico di diversi tempi e di diversi luoghi, lessico inventato, scagliato verso il mistero dell’assoluto. Sbalzi lessicali per un reiterato scuotere dalla riscoperta di antichi vocaboli alla pura invenzione lessicale. Neologismi serpeggianti e mimetici quasi per un recupero di sottile ironia che vorrebbe esorcizzare il demone della creatività? Forse la dregradazione-esaltazione della parola a lessico inventato è un (il più) amaro sfogo del poeta nella sua unica, possibile, protesta morale? Comunque è felice invenzione! L’utilizzo del topos classico del viaggio è la felice metafora del recupero di se stessi verso una piena autonomia da un super io eteronomo ed eletto a simbolo di prevaricazione. Il viaggio consente di varcare quella fondamentale soglia della vita che separa l’adolescenza dalla maturità ed è al tempo stesso la ricerca di una verità del proprio essere, delle proprie ragioni di vita. Una tensione conoscitiva di se stesso. Il ritorno prelude ad una definitva partenza. Non più provvisoria fuga, ma consapevole, definitiva, partenza. È la prosa a segnare il percorso di fuga dal super io autoritario, graffiante, dal dovere del razionale (che pretende di plasmare anche anime votate al fantastico), dal disagio fra i gelidi nodi della ragione e la liberazione della fantasia. Da questo lungo percorso di fuga segnato da tappe lungo la realtà si dipartono, non più costrette, leggere le divagazioni della poesia, i momenti della emozione pura, i sentieri dell’assoluto. È la rivincita sul quotidiano. Una rivincita resa possibile soltanto dalla più sublime levitazione artistica.
Al ritorno del viaggio ad accogliere il protagonista del percorso è il simbolo di tutte le emozioni («Lentamente giungo con il mio cuore lì, / dove sosta il masso ombroso del giorno / dove il pensiero abbraccia il viaggio buio, / la vita, il dolore, la gioia e l’addio»). Il poema di Giuseppe Manitta non avrebbe certamente fatto pronunziare ad Attilio Momigliano le amare, disincantate, vere e severe parole da lui scritte trentacinque anni or sono e che ancora pesano come macigni sulla nostra poesia ufficiale moderna, quella delle grandi antologie adottate urbis et orbe, la poesia dei circoli letterari riservati, la poesia degli eletti, la poesia degli unti dalle accademie più potenti ed inaccessibili, la poesia dei grandi progetti editoriali osannata dalla scienza letteraria ufficiale. «La nostra poesia è arida, senza impeti, piena di motivi capillari, priva di grandi motivi. Sofistica, impalpabile, sfugge come la sabbia fra le dita. Non trascina, non incanta; è serva, non è dominatrice o rivelatrice della vita: e perciò il pubblico non la cerca».
La poesia di Giuseppe Manitta è una ventata di intuitiva e creativa freschezza, di novità, eppure estremamente colta e meditata. È densa di motivi universali, non sfugge alla presa del pensiero, ma resta dentro l’anima, vi scava all’interno, induce a riflettere, forgia, modella concetti, convincimenti. Incanta. Sì, la vera arte deve anche incantare. Il mestiere del critico di violare i testi, di frugare impietosamente negli stessi per comprendere, cavarne responsi, è certo finalizzato ad offrire ai lettori una chiave di lettura attraverso un’opera di anatomia critica, di esegesi del testo, ma nel nostro caso non è disgiunto da vero e disinteressato piacere di leggere. E questo accade soltanto per la migliore poesia: quella che riesce a contrarre un sottile rapporto d’inclinazione elettiva con quanti più lettori.